Spencer Reid [Cm]
Immagina per lucy08novembre2001
Spero ti piaccia 💚
Mi sveglio al suono leggero dei piatti in cucina, e per un momento dimentico che giorno sia.
Il sole non è ancora sorto del tutto, ma la luce timida dell’alba filtra attraverso le tende della camera.
Spencer è già alzato, ovviamente.
Non importa quanto tardi sia andato a dormire, è sempre il primo a lasciare il letto.
Mi stiracchio sotto le coperte, cercando di trovare un motivo per uscire dal caldo del piumone.
Non ne trovo, ma sento l’odore del caffè.
Quello è sempre un buon incentivo.
Mi alzo e indosso la prima felpa che trovo, un vecchio maglione di Spencer che mi arriva quasi alle ginocchia.
Scendo in cucina, trovando mio marito di spalle, intento a preparare la colazione.
Ha una tazza di caffè in mano e una pila di toast pronti sul bancone.
Spencer non è un cuoco provetto, ma sa che in giorni come questi, l’ordinario va bene.
Il caffè è forte, i toast sono semplici.
Il necessario per cominciare una giornata che sappiamo sarà difficile.
-Buongiorno- mormoro, avvicinandomi a lui.
Lui si gira e il suo volto si illumina di quel sorriso dolce che riserva solo per me.
È come una piccola fiamma che tenta di scaldare l’aria pesante che ci circonda.
-Buongiorno, amore- risponde, poggiando la tazza sul bancone.
Prima che possa dire altro, mi avvicina a sé, le sue mani trovano posto sui miei fianchi, ed io mi appoggio al suo petto, lasciandomi cullare dal suo profumo familiare e rassicurante.
Resto lì un attimo, chiudendo gli occhi.
Mi sento piccola tra le sue braccia, ma in qualche modo, anche al sicuro.
-Ho preparato il caffè. So che non è molto, ma pensavo che magari… ti andasse di fare colazione insieme- dice con una voce morbida, quasi incerta.
Spencer non è uno che ama la routine, ma oggi è diverso.
Oggi ne abbiamo bisogno entrambi.
Annuisco e prendo la tazza che mi ha preparato -Va benissimo, Spence. Grazie-
Ci sediamo al tavolo della cucina, uno di fronte all’altro, in un silenzio che non ha bisogno di essere riempito.
Beviamo caffè e mangiamo i toast, le nostre dita che si sfiorano ogni tanto sul tavolo, un contatto silenzioso che dice più di mille parole.
Lui mi osserva in silenzio, studiandomi, come fa sempre.
So che vuole dire qualcosa, forse cercare le parole giuste per farmi sentire meglio.
Ma la verità è che non ci sono parole giuste, e lui lo sa.
Così, si limita a guardarmi, con quegli occhi profondi che riescono sempre a leggermi l’anima.
-Mi dispiace dover andare così presto- sussurra, rompendo il silenzio -ma oggi abbiamo un briefing importante-
Mi mordo il labbro e annuisco, cercando di non far trasparire la tristezza che mi invade.
Lo so che deve andare, che ha un lavoro importante, ma una parte di me vorrebbe che restasse.
Che restasse qui con me, a stringermi, a farmi dimenticare per un attimo il vuoto che oggi sembra ancora più profondo.
-Va tutto bene, Spence- mento, sorridendo debolmente -Vai, non preoccuparti per me-
Lui si alza e viene verso di me, chinandosi leggermente per posare un bacio sulla mia fronte.
Le sue labbra sono calde, rassicuranti, e per un attimo mi sento al sicuro.
Poi, senza preavviso, mi solleva il viso e le nostre labbra si incontrano in un bacio dolce, lento, pieno di tutto ciò che non riusciamo a dirci.
Quando si stacca da me, lo guardo negli occhi e gli sorrido, questa volta un po’ più sinceramente.
-Ti amo- mormoro, lasciando che il peso di quelle parole riempia l'aria.
-Anch’io ti amo- risponde, la sua voce bassa e sincera -Tornerò presto, promesso-
Annuisco e lo guardo mentre prende la giacca e si avvia verso la porta.
Prima di uscire, si volta un’ultima volta verso di me, con quel sorriso tenero e leggermente malinconico che conosco così bene.
Poi esce.
Resto lì in piedi per un momento, la casa che sembra improvvisamente più vuota senza di lui.
Mi stringo nelle braccia, respirando il profumo del suo maglione, e alla fine torno in camera da letto.
Mi rimetto sotto le coperte.
---
I
l cielo è grigio sopra Washington, come se si fosse messo d'accordo con il mio umore.
Sono appena passate le dieci del mattino e sto cercando di capire come far passare le prossime ore.
Il 9 aprile.
Avrei dovuto essere qui a preparare una torta, a gonfiare palloncini rosa, magari a correre dietro una bambina di un anno che cammina in maniera traballante per il soggiorno.
Ma no.
Charlotte non c'è.
Non ci sarà mai più.
Ho dato alla luce mia figlia in un giorno piovoso di aprile, esattamente un anno fa, e oggi mi ritrovo a piangere su una tomba.
Non c’è un manuale su come affrontare queste cose.
Nessuna lezione della vita ti prepara a seppellire un figlio.
Spencer è uscito presto stamattina per andare al lavoro.
Dice che aveva un caso urgente.
Forse è vero, ma so che è solo un pretesto.
A lui la razionalità e il lavoro servono come via di fuga, un modo per ignorare il dolore.
Per non affrontarlo.
È quello che fa meglio, in fondo.
Mentre io… io resto qui, nel nostro appartamento vuoto, senza nemmeno il coraggio di guardare la culla ancora in camera da letto.
Non l’abbiamo tolta.
Non ce l’abbiamo fatta.
Suona il campanello.
Guardo l’orologio: perfetto, in ritardo come al solito.
Apro la porta e mi trovo di fronte Emily, JJ e Penelope.
Ognuna di loro con espressioni fin troppo solenni per quello che vorrei fosse solo un pranzo tra amiche.
Mi sforzo di sorridere, ma so che non inganno nessuno.
Penelope è la prima a rompere il silenzio.
-Ciao zuccherino- dice con quella sua voce sempre eccessivamente dolce, come se parlasse con una bambina di cinque anni -Siamo pronte per il nostro pranzo?-
Vorrei dire di no.
Vorrei rintanarmi qui e scomparire sotto le coperte.
Ma Penelope non mi lascia molta scelta.
Prende la mia mano e mi tira fuori di casa.
-Non pensare neanche per un attimo di inventarti scuse, abbiamo prenotato in quel posticino che ti piace tanto- interviene JJ con un mezzo sorriso.
Lei capisce.
Lei sa cosa si prova ad essere madre, anche se non ha mai dovuto affrontare una perdita come la mia.
Mi lascio trascinare fino alla macchina.
Le mie amiche parlano tra loro, cercano di mantenere un tono leggero, come se stessimo per andare a un brunch qualunque.
Ma io so che non è così.
Loro sanno che non è così.
Arriviamo al ristorante e ci sediamo in un angolo tranquillo.
Appena mi metto a sedere, Emily ordina subito un bicchiere di vino, senza nemmeno chiedermi se lo voglio.
Probabilmente pensa che ne abbia bisogno.
-È un anniversario difficile- dice Emily, guardandomi negli occhi, senza mezzi termini.
Non c’è delicatezza in lei, ma è proprio quello che mi serve.
Non ho bisogno di altre persone che camminino in punta di piedi attorno alla mia sofferenza.
Annuisco, incapace di rispondere.
Il cameriere arriva con il vino e JJ mi mette una mano sulla spalla.
-Non sei da sola, T/n- sussurra -Siamo tutte qui per te-
Bevo un sorso di vino, più per fare qualcosa che per reale necessità -So che ci siete- rispondo, la mia voce suona più fragile di quanto volessi -Ma è solo che...-
Mi interrompo.
Non so nemmeno cosa stavo per dire.
Che mi manca Charlotte?
È un’ovvietà.
Che mi sento vuota?
Che a volte vorrei sparire?
Non sono parole che riescono a spiegare quello che provo.
Penelope tira fuori il telefono dalla borsa, scrolla attraverso una serie di immagini e me ne mostra una di un gattino con gli occhi enormi -Guarda, questo piccolo pelosetto mi ricorda te oggi: piccola e triste ma adorabile-
Scoppio a ridere.
Una risata sincera.
Penelope è brava in questo.
È brava a trasformare i momenti di silenzio opprimente in qualcosa di più leggero.
La guardo e le do un colpetto sulla mano -Grazie, Pen. Ne avevo bisogno-
Il pranzo procede lentamente, e dopo un po’, mi lascio quasi trasportare dalla normalità della conversazione.
Emily racconta di un nuovo libro che sta leggendo, JJ condivide una buffa storia di Henry che ha combinato qualche pasticcio con i pennarelli.
Penelope descrive nei minimi dettagli l’ultimo incontro imbarazzante con un ragazzo conosciuto online.
Rido, rispondo, partecipo.
È quasi surreale.
Per un momento, riesco a dimenticare.
Ma quando il cameriere porta il conto, le tre si scambiano uno sguardo.
Penelope si schiarisce la voce, visibilmente emozionata -T/n, prima che ce ne andiamo, abbiamo qualcosa per te-
Si sporge verso la borsa, tira fuori una piccola scatola di cartone e la posa delicatamente davanti a me -L'abbiamo fatto tutte noi. Per Charlotte-
Mi fermo.
Il mio cuore accelera.
Apro la scatola e dentro trovo tre biglietti, ognuno scritto a mano.
Il primo è di Emily.
La sua grafia è impeccabile, eppure frettolosa.
Prendo il biglietto e lo leggo.
Cara Charlotte,
so che non ci siamo conosciute, ma in qualche modo, sento che ci conosciamo. Tua madre e tuo padre ti amano così tanto. E anche se non sei qui con noi, sarai sempre una parte di loro. Ovunque siano. Ovunque siamo noi.
Sento una lacrima scendere lungo la guancia.
Non faccio nulla per fermarla.
Apro il secondo biglietto, quello di JJ.
È breve, ma ogni parola pesa come un macigno.
Dolce Charlotte,
sei stata la luce per i tuoi genitori. Anche se il tempo è stato breve, la tua presenza è stata immensa. Ti prometto che farò del mio meglio per aiutare tua madre a essere forte. Ma so che anche tu starai con lei, ovunque tu sia.
Il terzo è di Penelope.
Qui la scrittura è più disordinata, quasi infantile.
Piccola Charlotte,
so che probabilmente ti saresti divertita un mondo a giocare con me. Ti immagino come una piccola nerd super intelligente, proprio come il tuo papà, ma con un sacco di personalità come la tua mamma. Penso a te ogni giorno e, ogni volta che vedo qualcosa di rosa, mi viene in mente il tuo dolce visino. Non ti dimenticherò mai.
Piego i biglietti e li rimetto con cura nella scatola.
Non ho più parole, le lacrime continuano a cadere senza che io possa fermarle.
Emily mi guarda e sussurra
-Abbiamo pensato che potresti portarli alla tomba di Charlotte, se vuoi. O tenerli. Come preferisci-
Annuisco, incapace di parlare.
Li terrò.
Li terrò stretti, come un pezzo di lei, come una piccola parte di quello che avrebbe potuto essere.
Dopo qualche minuto di silenzio, Emily si alza -Andiamo, ti accompagniamo-
Mi alzo lentamente, sentendomi vuota e piena allo stesso tempo.
Penelope mi abbraccia, JJ mi tiene una mano sulla schiena, ed Emily ci guida fuori dal ristorante.
Nel tragitto in macchina, guardo fuori dal finestrino.
La giornata è ancora grigia, ma c'è qualcosa di diverso nell'aria.
So che il dolore non passerà mai davvero, che il 9 aprile sarà sempre un giorno difficile.
Ma so anche che, grazie a queste donne, a Spencer, a chi mi ama, posso trovare il modo di convivere con questo dolore.
Posso ricordare Charlotte, non solo con lacrime, ma con amore.
Quando arriviamo al cimitero, il vento soffia leggero.
E mentre lascio i biglietti sulla tomba di mia figlia, mi accorgo che, per la prima volta da mesi, sento un piccolo senso di pace.
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