Elio
Dentro di me c'erano in quel momento stormi di meraviglie che vagavano senza sosta, portando oblio ovunque, distese di vaporosi morsi allo stomaco e lacrime opalescenti.
Ero in un particolare momento della mia vita in cui ogni cosa pareva non avere senso e seppure ne avesse avuto uno, io, non avevo bisogno di conoscerlo. Tutto quello che era essenziale io sapessi era ancorato stretto alla mia schiena, lontano da casa mia, lontano dagli occhi feroci dei quali per tanti anni ero stata pasto.
Avevo fame d'ideali, di emozioni forti come pugni nel fegato, di obiettivi irrealizzabili da rincorrere rimanendo senza fiato; appena sveglia quelle mattine sciacquandomi il viso con l'acqua gelida del rubinetto, era Tempesta che mi sentivo, viva, tremante ed elettrica, un guscio febbricitante e smanioso di essere attraversato dai dardi appuntiti della vita, avrei sopportato qualsiasi dolore fosse stato necessario a non farmi affondare nelle sabbie mobili dei ricordi. Ad ogni passo radevo al suolo ogni mia convinzione reinventandomi da capo ogni volta, un armadio pieno di pelli mutate senza accorgermene. Mi sentivo un palloncino di Elio, leggerissima e smaniosa di sparire tanto in alto da non poter essere più vista da occhio umano.
E mordevo bocche e da bocche venivo morsa, collezionista di lividi emotivi che sarei rimasta a guardar mutare colore, i sogni sono grandiosi avversari, sentivo allora di poterne tenere qualcuno legato stretto, una spietata aguzzina dagli occhi di latte e il petto aperto sul l'universo. Costruivo castelli in aria dove trovavo riparo all'occorrenza, ponti levatoi fatti di rinunce pronti ad abbassarsi per me e non c'erano finestre in quelle mura, da dove io affacciandomi potessi scorgere un punto di vista diverso dal mio.
Credevo allora che la vita fosse sangue refluo dell'universo stesso, un infinito ciclo mestruale atto a liberare l'intero creato dall'idiozia umana, provavo un disumano ma genuino senso di repulsione per gli animi arrendevoli, avrei potuto dare loro nella mia vita la stessa considerazione di cui avrebbe goduto un capello appiccicato al retro della mia giacca.
Adoravo girovagare per i vicoli della mia città, magica e medioevale, respiravo a pieni polmoni e trasportavo dentro di me frammenti di vite altrui; l'aroma del successo, l'acre scia dell'amore, il miasma del rancore e le diecimila sfumature del dolore, tutte lì a ricordarmi che esistevo e che in modo o nell'altro di questo dovevo prendere coscienza. Perché per essere lì avevo incassato così tanti colpi, da portare addosso la mappa di un dolore vivido che, chiudendo gli occhi potevo tracciare come un immaginario disegno in bianco e nero.
Assuefatta, in tutto e per tutto dallo stridere dei meccanismi di questa società, modellata dalle spinte comportamentali che arrivavano diritte da fuori, custodivo dentro un istinto animale di conservazione, le cellule preservavano la loro indole anarchica spingendomi ad essere in qualsiasi circostanza me stessa, una capricciosa e mutevole creatura disobbediente, uno stretto alambicco di rame dal quale distillare ogni acidula speranza di appagamento.
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