Buonanotte Irene
Irene guardava il tramonto. Tutte le sere scendeva i tre gradini del portico e raggiungeva il ceppo mozzo di un grosso leccio, spesso ne aveva contato i cerchi che per memoria sapeva rappresentarne gli anni.
Si sedeva poi su di esso e restava lì a guardare il nulla. Irene era stanca, non di quella stanchezza dovuta al correre o all'alzarsi presto, lei era stanca di stare al mondo.
Il panorama che si stagliava di fronte ai suoi occhi era meraviglioso. Incantevole.
A Irene non impressionavano i mutevoli colori dei campi, accarezzati dalle luci del tramonto o le libellule che prima della notte compivano le ultime danze del giorno. No. Di tutta la meraviglia del creato, con il passare dei giorni, non percepiva più nulla. Indifferente e alienata. Ecco, così era Irene.
In alcuni momenti ripensava agli ultimi anni passati, sembrava però stesse guardando un film senza volume. A guardarla negli occhi, non si vedeva mai malinconia o commozione, rimpianti, gioie, sofferenze; aveva lei, una faccia anonima, muta.
Era stata negli anni precedenti una parrucchiera, come tutte aveva fatto la gavetta in un grosso centro, poi ne aveva aperto uno suo. Aveva fallito. Aperto e chiuso in sei mesi; non tutti sono tagliati per il successo, Irene non lo era di certo. Aveva un piccolo naso che contrastava con i grandi sogni che sin da ragazzina portava nel cuore, i capelli lunghissimi e castani, sempre accuratamente domati in alte code. Lucidi, come a dire " ci so fare io come parrucchiera".
Adesso li su quel ceppo, sarebbe stata abbastanza comoda, non fosse stato per quell' opprimente senso di inadeguatezza, per quella mordente voglia di nulla. Voleva pensare Irene, a cose meravigliose, entusiasmanti. Una volta tanti anni prima, era stata persino smaniosa, si era sentita emozionata per un mazzo di fiori ricevuto da un anonimo ammiratore. Giorni lontani quelli. Dell'anonimo ammiratore oggi, invidiava solo la possibilità che fosse morto. Magari a distanza di anni una malattia o un incidente poteva averselo portato via.
A pensarci bene però qualcosa sentiva. Aveva iniziato a percepirla dalla mattina stessa, quando, uscendo dalla ferramenta aveva stretto tra le braccia quella busta di carta marrone. Era una sorta di "quasi gioia", come il trovare, frugando nella scatola, un ultimo cioccolatino. Perché si, Irene non era tagliata per il successo, ma sapeva essere infinitamente portata nel trovare soluzioni ai problemi.
E per il suo ne aveva appena trovata una, fatta di nylon e lunga un paio di metri.
Il vento quella sera le faceva svolazzare i capelli. Erano mossi ed estremamente lucidi. Aveva ritoccato il colore il giorno prima e per l'occasione, aveva scelto una piega mossa anni quaranta. Era quella che, ogni volta le faceva guadagnare più complimenti.
Si alzò dal ceppo, prese il sacchetto della ferramenta e ne estrasse una corda. Aveva chiesto la più resistente, le avevano risposto che quella al nylon era di certo la più adatta a "resistere alle tensioni". Irene che ora la teneva fra le mani, sorrise al pensiero che anche una corda, sembrava saperne più di lei su come stare al mondo.
Sulla quercia lì accanto, Irene aveva piantato due chiodi, uno ad una decina di centimetri dall'altro. Ad un metro circa da terra. Prese a legare la corda prima sul l'uno poi sull'altro; se uno dei due avesse ceduto, l'altro avrebbe resistito fedelmente.
Prese le estremità del filo e con superba maestria le uni' in un magnifico cappio a due maglie, scorrevole quanto spietato.
Finito il suo minuzioso lavoro, Irene sistemò il vestito. Infilò le scarpe che aveva tolto poco prima per comodità e portandosi i capelli da un lato prese ad abbassarsi fino al livello della corda, poi con una splendida naturalezza infilo' il cappio. Lo allargò quanto basta per far passare le orecchie. Dopo un attimo appena, era tutto pronto. Schiena poggiata al tronco, cappio al collo, seduta su di un immaginaria sedia a cinquanta centimetri da terra; le gambe dolenti per la postura viziata, e di fronte ai suoi occhi lo stesso tramonto che tutte le sere guardava indifferente.
Fu' più veloce di un battito di ciglia. Decise di far cedere le gambe stanche. Di colpo.
Lasciò che la gravità facesse il resto, i suoi cinquantatré chili si riversarono verso terra, le maglie del cappio scivolarono e seppero stringere bene il collo. Il sedere arrivò quasi a toccare terra, quasi, per un paio di centimetri non lo fece.
Rimase ferma Irene. Neanche per un istante pensò di rialzarsi, avrebbe potuto se avesse voluto. Ma no, non lo fece. E non lo fece perché accadde qualcosa di meraviglioso!
Sentì. Irene iniziò a sentire, dapprima la corteccia grattarle la schiena, poi fu la volta del vento, leggero e caldo mentre le accarezzava il viso; guardò Irene, guardò il tramonto davanti ai suoi occhi che, sebbene gonfi e messi a dura prova dalla crescente pressione sanguigna, non smettevano di catturare frammenti di meraviglia. Ora le libellule, ora i fili d'erba lucidi e sinuosi, tutto aveva preso a splendere di luce nuova. Un profumo di torta alle mele, proveniente da una casa lì vicino, ora le avrebbe invaso le narici se solo il respiro non le fosse stato negato dalla morsa del cappio, pensò Irene vedendo la vicina poggiare il dolce alla finestra per raffreddarlo.
Tornò a guardare i campi. Sentì il petto esplodere. La vista si offuscò ancora, pensò che magari, avrebbe voluto osservare ancora quei tramonti, forse se avesse resistito, li avrebbe saputi apprezzare. Tentò allora di rialzarsi. Con la mente cercò di coordinare le gambe. Non ci riuscì. Riuscì invece a sentire le orecchie dolere come infuocate, i suoni implodere, scomparire per poi apparire come palle di cannone. Riprovò ancora a rialzarsi.
Non ci riuscì.
La trovarono il giorno dopo Irene. Furono i suoi figli a trovarla. A guardarla bene adesso, sulla faccia di Irene qualcosa si leggeva.
Irene adesso viaggiava da qualche parte.
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