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34. Ancora di salvezza

Fisso lo schermo del cellulare, dubbioso. Vorrei fare denuncia per la scomparsa di una persona, ma so che se chiamassi la polizia per segnalare la sparizione della mia vicina di casa – con cui ho avuto una relazione fisica – che vive dall'altra parte del corridoio, mi prenderebbero per pazzo.

Lo so, un tantino esagerato, me ne rendo conto, ma è passata una settimana dalla nostra conversazione ed Elle è evaporata. Puff, sparita, nemmeno fosse un unicorno in libertà. O una gioia.

Mi piacerebbe quantificare l'assenza in ore, ma dopo le settantadue, diventa uno sforzo troppo grande che mi spossa per giorni interi. Quindi preferisco evitare.

So che è solo una settimana, ma sono i sette giorni più lunghi della mia vita, potrei giurarlo.

Ed è un tempo che non è servito a nulla, è solo andato sprecato.

Anche se, devo ammetterlo, al momento sono l'unico ad avere le idee chiare, se le serve spazio lo avrà. Io, però, continuo a pensare che ogni istante passato distante da Elle è tempo perso.

Devo solo aspettare per capire se anche per lei è così, o se invece non sono corrisposto, cosa a cui ormai sono tristemente abituato.

La sua assenza, non lo nego, è pesata quanto un macigno, si è rivelata un vuoto incolmabile. Mi sono reso conto che lei è una parte indispensabile della mia vita, l'unica che ora manca.

Io la amo, non ho bisogno di un solo minuto per pensarci o mettere in discussione la cosa, perché so che la parola amore è riduttiva per quello che provo.

Mentre mi perdo in questi pensieri, di solito rivolti al mio soffitto, il vero grande confidente di riflessioni così profonde, cerco la camicia azzurra che ho sparso da qualche parte nella mia stanza. Domani devo incontrare Francine e i produttori di Legacy per definire l'ultima parte delle riprese e, soprattutto, della promozione finale, perché alcune postille del contratto mi stanno un po' strette.

Fatto sta che quella dannata camicia non si trova da nessuna parte, nemmeno nel cesto delle cose da lavare, nell'ammasso indistinto dei vestiti da stirare e, soprattutto nel mio armadio moderno, conosciuto ai più come sedia su cui impilare indumenti a cazzo, dove appoggio quelli usati ma non ancora pronti per un giro di lavatrice.

Mi piaceva quella camicia, mi faceva due occhi da paura. Insomma, so di avere un bel culo, ma non posso far leva sempre su quello. Non sarebbe giusto per gli altri, non se voglio fingere di lasciare loro una scelta.

Ma, se non la trovo, sarò costretto a presentarmi all'incontro con un paio di jeans e a torso nudo. Certo, potrei pescare un'altra camicia dall'armadio, ma la cattività in cui mi sono chiuso da quando non vedo Elle mi porta a essere un po' melodrammatico.

«Hai visto la mia camicia?» domando a Dan, seduto in soggiorno a leggere un libro. Presumo sia quello da cui è tratto la pièce teatrale di cui sarà protagonista.

Stacca lo sguardo dal libro, curioso. «Quale? Quella azzurra?»

«Sì, quella».

«Oh». I suoi occhi si fanno luminosi, mentre un sorriso malizioso si distende appena sulle labbra. Porta un indice al mento, mentre ci pensa qualche secondo. «Mi pare ce l'avesse Elle con sé quando ti ha portato le cose in ospedale».

Alzo gli occhi al cielo e accompagno il tutto con una smorfia schifata. Ho già capito che fine possa aver fatto la mia camicia preferita: sminuzzata in pezzi grandi come coriandoli. Buon carnevale a tutti, a spese mie.

«Vado a vedere cosa ne è rimasto» replico, poco convinto.

Daniel, però, mi mostra un sorriso diabolico. «Per me poco». Ma è come se parlasse d'altro e non della camicia. «Vai e riprenditela».

Lo ignoro e prendo la scusa della camicia per andare a prendermi le risposte che il soffitto non mi può dare, e nemmeno l'attesta statica in cui vivo.

Tre passi e sono davanti alla porta dell'appartamento delle ragazze.

Busso, ma è impossibile che Elle – sola in casa perché Rachel e Jane sono a lavoro – possa sentirmi, sembra che abbia la musica a palla sparata in camera sua.

Abbasso la maniglia e la porta si apre. Per noi è così: porte aperte e inviti impliciti a entrare nel caso servisse all'altro appartamento qualcosa.

E Dio solo sa quanto ho bisogno di lei.

Entro in casa delle ragazze e riconosco Wonderwall ovattata da una porta chiusa. Annuisco, perché amo la canzone così come il significato che le appartiene. È legata ai Beatles, a un film con quel nome e a una pronuncia sbagliata di wonderful. La gente pensa voglia dire "muro delle meraviglie", ma gli Oasis le hanno attribuito il significato di "ancora di salvezza", che mi piace di più, perché te lo puoi cucire addosso e modellare al meglio per sentirti a tuo agio.

Arrivo davanti alla porta di Elle e sorrido. Eccola, la mia ancora di salvezza. Proprio lei, che ascolta questa canzone e non capisce il significato che può assumere, se associata a lei.

Apro appena la porta, perché con la musica così alta non mi sentirebbe bussare, e la osservo dallo spiraglio che mi sono ricavato. La vedo seduta sul letto, le gambe vicino al petto mentre, distratta, muove la bocca per seguire le parole che cantano Liam e Noel.

È così concentrata a guardare fuori dalla finestra che non si è accorta della porta aperta o della mia presenza.

La guardo meglio e, con sorpresa, mi accorgo di cosa indossa. Una camicia azzurra, troppo grande per il suo corpo, un qualcosa che mi è famigliare.

È di una bellezza che mi lascia senza parole e mi fa dimenticare quel po' di discorso che avevo in mente. La ricerca della mia camicia, di risposte. Del suo amore.

Ascolto la canzone e mi trovo d'accordo. Non credo che nessuno si senta come me nei suoi confronti, ora. Non con la mia stessa intensità. Perché immagino che Elle abbia stregato un sacco di ragazzi senza nemmeno saperlo, ma ho la certezza – soprattutto dopo Blaise – di essere l'unico a cui ha dato l'opportunità di conoscerla davvero, di vedere chi è veramente. Ogni frattura, ogni angolo tagliente, tutte le fragilità da cui è composta. Sono mie. 

Le ho fatte mie.

"Ci sono molte cose che mi piacerebbe dirti, ma non so come".

Wonderwall è così adatta da far male. È vero. Avrei voluto farle mille domande, dirle il doppio delle cose, ma sono qui, in silenzio, ammutolito al suo cospetto. Perché mi confonde, mi stordisce e inebria. Elle è il senso di tutte le mie parole, soprattutto di quelle che racchiudono i sentimenti che provo per lei.

Apro la porta è avanzo nella stanza, in modo da manifestarle la mia presenza. Elle si gira di scatto verso di me e smette di cantare, in imbarazzo. È avvampata mentre mormora un semplice: «Oh».

Come se fossi un inconveniente.

Sembra non credere ai suoi occhi, spalancati per la sorpresa.

"Perché forse puoi essere quella che mi salverà".

E, in linea con la canzone, ne ho l'assoluta certezza. Solo Elle può salvarmi. Un suo sì o un no. Ha il potere di annientarmi o farmi rinascere con due lettere. Io, però, non ho il coraggio per chiederle nulla. Le parole muoiono in gola, ho paura per me, della sua risposta definitiva.

Mi avvicino e le sfilo il libro tra le mani, quello che non era riuscita a continuare a leggere per la mancanza di concentrazione. Guardo la copertina e leggo Kingdoomed, il titolo del dell'ultimo romanzo della serie di Legacy. Mi siedo davanti a lei sul letto, con la gamba sinistra fuori dal materasso, il piede sul pavimento, quasi volessi darle l'illusione di potersi liberare di me.

Elle abbassa al minimo il volume di Wonderwall, che diventa il rumore bianco che sincronizza i nostri battiti.

«Cercavo...» te. Mi schiarisco la voce, roca a causa dei pensieri che non ho saputo esprimere. «la camicia».

Arrossisce, colpevole. «Un prestito». Alzo un sopracciglio, perché io di una cessione simile non ne sapevo nulla, fino a poco fa. «A tempo indeterminato».

E poi, dopo il silenzio che segue la sua affermazione, fa una cosa strana: si sporge in avanti e con la mano cerca la mia, che gioca con finta indifferenza sul lenzuolo. Dita smaniose che fremono per toccarla. È lei, però, a mettere fine alla loro agonia, intrecciandole. Per farlo avvicina tutto il corpo.

Non aggiungiamo altro, perché c'è un'atmosfera solenne, e se dicessimo qualcosa la bolla si romperebbe. Anche Elle sembra dello stesso avviso.

Le mani però, quelle stronze, tradiscono l'impazienza con cui mi sono presentato e la speranza che il gesto di Elle ha riacceso, e si posano sui suoi fianchi per aiutarla ad avvicinarsi. Ho bisogno di sentirla così vicino da perderla nei miei confini. La sistemo cavalcioni sulle gambe. I suoi talloni le sfiorano il sedere, le ginocchia accarezzano il materasso.

Diventa ancora più rossa, se possibile. Ma così posso sentire il suo respiro sulle labbra e mi sembra di tornare a vivere. Questa è la distanza giusta tra noi, l'unica che posso accettare se me ne darà l'opportunità.

Le sposto una ciocca dietro l'orecchio, così da studiare le sensazioni che le passano attraverso gli occhi, stelle cadenti che sono un affaccio sul suo universo. Le iridi blu che mi trovo davanti sembrano studiarmi in modo nuovo, diverso. Con la curiosità di voler conoscere la prossima mossa, non con la paura di doversi difendere da essa.

Elle solleva una mano e, con una delicatezza sorprendente, con l'indice disegna i contorni della mia bocca, soffermandosi sulla cucitura quasi al centro del labbro. Sospira.

Come se tutto questo facesse male.

Ma questo fa male.

Il suo tocco è l'acciaio incandescente che cauterizza le ferite. Doloroso, ma necessario.

Il modo in cui mi sfiora lascia una scia incandescente sulla pelle che, a contatto con l'aria estiva – che sembra fresca in confronto all'elettricità che emaniamo – , pulsa come se avesse lasciato un livido al passaggio.

Appoggia con delicatezza i gomiti sulle mie spalle. Sento gli avambracci sfiorare la testa, mentre con le mani mi risale tra i capelli, iniziando a giocherellarci. L'istinto mi porta a poggiare le dita sui suoi bicipiti, per non perdere il controllo di me stesso con una facilità che potrebbe essere definita imbarazzante, per evitare che si allontani.

Ma Elle si fa sempre più vicina e, con una calma tormentata, azzera quel poco di distanza e le bocche si ritrovano.

Un bacio lento, quasi mi scoprisse per la prima volta.

È pigro, diverso da tutti i precedenti. Li racchiude tutti e li annienta. L'intensità che richiede ci fa scappare dei lamenti sofferti, perché un bacio simile richiede ogni singolo sforzo di cui siamo capaci, ogni emozione che siamo in grado di provare.

La sento stringere la presa sui miei capelli, forse perché non vuole che scappi. Ma non posso, perché sono suo. O forse, invece, vuole che i confini tra noi si fondano fino a non trovarli più, e mi trova d'accordo.

Avido del nostro contatto, scendo con le mani sui fianchi, per avvicinarla ancora, per invitarla ad andare oltre le paure che la ancorano nello stesso punto da mesi.

È lei a dettare i tempi, ma sono io a provocarla e vedere fino a dove riesce a spingersi, con il corpo e i sentimenti. La faccio sdraiare con delicatezza, dandole l'opportunità in ogni momento di sottrarsi alla cosa, invece Elle segue paziente ogni mio movimento.

Le labbra si separano, in cerca d'aria, e osservo il suo viso alla ricerca di campanelli d'allarme che possano anticipare la fuga, ma scorgo soltanto una luminosità che vi mancava da tempo. Quasi io fossi la luce ed Elle il diamante che, con le sue sfaccettature, brilla e amplia ogni bagliore in un equilibrio che non ci è mai appartenuto.

Le sorrido perché mi sta osservando con uno sguardo cristallino che poche volte le ho visto, un regalo che mi permette di osservare quello che le passa dentro. E lo percepisco. Mi vede davvero. Glielo leggo nel cuore che indossa in faccia.

Si tortura il labbro, nemmeno avesse percepito i miei pensieri, e le si arrossano le guance, in imbarazzo perché sono intento a venerarla in silenzio.

Mi abbasso con lentezza sul collo, lì, dove ci siamo lei e io, tra la sua pelle e il colletto della camicia che mi appartiene. Bacio ogni centimetro fino ad arrivare al primo bottone, dove poso le labbra in attesa di un suo cenno per continuare il percorso.

Elle, che trattiene il respiro per l'attesa, si lascia poi sfuggire un gemito frustrato.

Alzo un solo angolo della bocca, soddisfatto, e la sostituisco con le dita, che volano a sfilare il bottone dall'asola. Poi riprendo a baciare la pelle che è rimasta scoperta.

Continuo la scoperta di Elle in questo modo. Raggiungo il bottone successivo seguendo una scia di baci che creo da solo, fino ad arrivare alla depressione in mezzo ai seni. Sento Elle tendere il corpo, ma non è un segnale di rifiuto. In realtà è il suo modo per dire che è al limite, che vuole di più, che questa tortura – nonostante tutto – le piace, tanto che inarca la schiena per avvicinare la pelle alle mie labbra.

Sto soffrendo con lei, la capisco. Le terminazioni nervose sono diventate ipersensibili, sembra stiano urlando a ogni tocco, avvenuto o mancato. Vorrei sfilarmi i vestiti subito e ritrovarmi in lei, ma la voglia di portarla al limite, di portarci al limite, è troppa, così continuo il lento tragitto sul corpo di Elle.

Imperterrito slaccio la camicia, un bottone alla volta, e le bacio ogni parte che lascio esposta, fino ad arrivare al bordo degli slip.

La osservo da dove mi trovo ed è uno spettacolo che leva il fiato: la pelle nuda arginata solo dall'azzurro della stoffa che ancora le copre i seni.

La mia esitazione la fa allarmare, tanto che alza il viso per capire cosa io stia per fare. I suoi occhi, fissi su di me, sono diversi: c'è desiderio misto a delicatezza in fondo allo sguardo, un'intensità nuova che non saprei descrivere, ma che mi fa rabbrividire di piacere.

Le accarezzo lo stomaco, vicino alla biancheria, per sentirla rabbrividire sotto le dita.

Elle, come risvegliata, si alza di scatto per raggiungere la mia bocca, con un'urgenza che non riesco a comprendere, quasi volesse assaggiarmi e imprimere il mio sapore sulla lingua, nella memoria, o più a fondo.

Con lentezza sposta una mano sulla cerniera dei miei jeans e, per farlo, solleva appena la maglia, che sfila subito dopo, quasi fosse un impiccio, per poi riempirmi di baci il torso. Una discesa lenta ma costante, composta da una pressione alla volta. Si ferma sul petto, dove lascia un morso, come se il suo passaggio non avesse già lasciato un segno sul cuore. Come se non ci fosse scritto il suo nome da tempo.

Le sfilo la camicia e il momento diventa febbrile e uno scambio equo: la mia maglia per un suo bacio, i miei jeans per i suoi slip, i miei boxer per il suo desiderio.

La mia anima per un suo sorriso. Uno soltanto. Un secondo che per me vale una vita intera.

Ci ritroviamo pelle a pelle, nudi un respiro alla volta, mentre le bocche si ritrovano, aggressive nella loro impazienza.

Elle mi fa spazio tra le sue gambe, in un tacito invito. Le chiedo conferma con ogni parte del corpo e lei, al posto di respingermi, si avvicina per accogliermi.

Ed è così che entro in lei. Un secondo dopo l'altro, con gli occhi fissi nei suoi per cercare il minimo barlume di pentimento, quel momento che mi dice che ci siamo spinti troppo oltre per l'ennesima volta, ma non c'è. E smetto di trattenere il rispiro.

Le mani di Elle, che solo ora mi accorgo essere accanto alle sue spalle sul materasso, sono tenute ferme dalle mie dita, salde attorno ai suoi polsi, mentre mi ritrovo nel suo calore.

La cosa che mi stupisce è che non tenta di liberarsi dalla presa, non le passa un minimo di paura o incertezza nello sguardo. Anzi, fa scivolare le mani verso le mie e, una volta arrivate alla stessa altezza, intreccia le nostre dita e stringe la presa.

Diventiamo allineati come i palmi, incastrati come le dita e sospesi come i sospiri che ci sfuggono dalle labbra.

Elle mi fissa e nel farlo c'è una determinazione nuova, un modo di cercami che la mostra nuda davvero per la prima volta, senza essere una questione di mancanza di vestiti. È il suo mostrarsi senza barriere, con i pezzi rotti che mi ha permesso di rimettere insieme, sono le crepe che la compongono e di cui non si vergogna più.

Ha lasciato che smussassi ogni angolo vivo e mi sta permettendo di constatare con ogni tocco quanto non sia più tagliente, letale.

È calda e appassionata, ma non è il sesso, è il suo modo di essere. È fragile, ma ancora tutta insieme, nonostante le ferite.

Le stesse ferite che mi permettono di vedere, per la prima volta, l'universo che ha dentro. Ogni affondo è un'amplificazione di questa visione, mentre ogni suo movimento di fianchi è una dichiarazione a osservarne un po' di più, a prendere un po' più di quel mondo che vuole mostrare soltanto a me, tra una crepa e l'altra che la compone.

È un dare e ricevere, il nostro, che ci accende di vita e schiettezza.

«Seb...» sussurra in un gemito lieve.

L'unica parola che riesce a dire è il mio nome, come se fossi la sintesi di tutto ciò che prova.

Sposto le mani intrecciate sopra la sua testa, mentre arrivo sempre più in profondità.

«Elle...» Mi sfugge, senza fiato. Una supplica, una conferma.

Siamo fatti di parole che non sanno dare forma ai nostri sentimenti.

Cerco i suoi occhi e li trovo aperti. Aperti su quell'universo che si espande attorno a me con la forza dell'orgasmo, che mi fa sentire il benvenuto e mi porta con sé, perché le appartengo.

È un piacere nuovo. Più consapevole e profondo, che mi fa capire che è stata davvero mia, realmente con me per la prima volta. Senza paure a dividerci, solo con la voglia e il coraggio di esserci.

Lascio che la spossatezza ci avvolga e che Elle si accomodi sul mio petto, beandomi al contatto. Sorride mentre mi prende il viso tra le mani e con i pollici ne sfiora il profilo. Le stringo i polsi con delicatezza, con un sospiro appagato e sereno.

Sembriamo rinchiusi in una bolla di perfezione troppo bella per essere vera. Ho paura che possa rompersi presto, alla prima difficoltà, per l'ennesima volta.

Si sdraia accanto a me e d'istinto io mi appoggio a lei. Le bacio la spalla e con il braccio destro la circondo, per accarezzarla. Ho solo paura che scappi, di nuovo, ma non posso tenerla ancorata a me, che sia un braccio attorno al corpo o una supplica.

Deve sentirlo. Deve volerlo.

Continuo a far scorrere le dita sulla sua pelle per memorizzarne ogni millimetro, quasi ne sentissi già la mancanza e le faccio un po' di solletico quando dall'interno del bicipite mi sposto verso l'alto.

Con la coda dell'occhio la vedo corrucciarsi, non capisce perché io sia intento a venerarla, non capisce quanto i sensi amplifichino questo momento.

«Cosa c'è?» Sembra preoccupata, mentre con l'indice cerca di appianare la ruga confusa che mi increspa la fronte. Vivo per questi momenti così piccoli, ma altrettanto intimi.

Le parole che seguono il discorso avvenuto tra i nostri corpi portano sempre strascichi che assomigliano a cicatrici di ferite che non sono in grado di rimarginarsi.

Lei sarà anche preoccupata, ma io sono terrorizzato dalle conseguenze.

«Pensavo». Alzo le spalle, sorrido e minimizzo, ma non la inganno.

«A cosa?» A te. A quello che provo per te. A quello che il tuo corpo mi dice, ma che ho paura di fraintendere per l'ennesima volta. A quante volte ancora mi posso spezzare davanti a un'illusione e uscirne comunque illeso, seppur ferito.

«Non so se riesco a dare senso ai miei pensieri». È tutta l'onestà che posso offrile. «Non riesco a fare in modo che mi rappresentino».

«Non è facile, vero?» Diventa rossa, quasi seguisse un filo logico che a me sfugge. «Intendo, trovare le parole giuste».

Eppure le ho lì, che mi frullano per la testa. Forse non sono parole mie, ma sono riuscito a farle mie. A viverle.

E, nel guardarmi attorno, noto quello che fa per me, il modo giusto per farle uscire.

«Ti dispiace se ti uso come cavia?» Sollevo un sopracciglio, curioso e divertito, e la vedo annuire mentre si copre il seno con il lenzuolo, in imbarazzo.

Prendo il pennarello che vedo sul comodino, accanto al libro che aveva tra le mani prima che arrivassi, e inizio a dare libero sfogo al flusso che ho dentro. Perché forse non sono in grado di esprimermi al meglio, ma ho le parole giuste per farlo e, per evitare di sbagliare, preferisco scriverle.

Viaggio alla ricerca del punto ideale dove mettere in atto la mia idea, e non ci vuole molto per trovare il posto perfetto.

Le appoggio il mento sul seno, mentre con parte del petto mi adagio sul suo corpo.

«Peso?» Mi preoccupo.

Nega con la testa e sorride per incoraggiarmi a proseguire.

«Non spiare». Il mio ammonimento è bonario. Solo ora mi rendo conto che il clima attorno a noi è trepidante, ma calmo, una novità per il post sesso. Difficilmente ci siamo concessi momenti di serenità e confessioni.

«No, voglio essere sorpresa». Mi metto all'opera sul suo braccio sinistro ma, prima di iniziare, contro che non stia barando.

Elle, in risposta, inizia ad accarezzarmi e passa più volte la mano tra i miei capelli, mentre mi studia con un'intensità che mi spoglia l'anima, quasi potesse capire dal mio viso cosa sto cercando di attuare nel concreto per mettere ordine al caos che ci circonda.

Sono ricorso alla musica perché è il linguaggio che più mi appartiene. Così, dopo aver disegnato le note nel pentagramma che ho abbozzato, scrivo il testo della canzone. La stessa che Elle sente sua, la stessa che sento che parla anche di me.

Rimiro la mia opera e, per quanto non sia niente di entusiasmante, sono soddisfatto. So di non essere Monet, conosco i miei limiti, quindi quando vedo che le parole che ho utilizzato sono in grado di rendere al meglio cosa provo, sono felice.

«Ecco. Ho finito».

«Posso guardare?»

Annuisco, di colpo incerto. Timoroso di essermi esposto troppo, come mio solito.

Elle alza il braccio per ammirare l'interno del bicipite, dove campeggia la mia opera d'arte.

«È She's» dico, nel caso non riuscisse a decifrare la mia calligrafia, non proprio perfetta.

Deglutisce a vuoto. «Lo vedo».

«Lei raggiunge la mia anima e tutti i miei dubbi vengono uccisi...» legge la strofa che ho riportato lì, sulla sua pelle, ed è commossa.

«Non la trovi adatta anche tu?»

Cerco di minimizzare con questa domanda, perché mi sembra che nella stanza, all'improvviso, manchi l'aria, ma il mio tentativo viene vanificato dalle mia parole successive. «È vero: da quando mi sei entrata dentro i miei dubbi sono spariti. Sei diventata una certezza, per me». Mi passo le mani sul viso, forse nel tentativo di cancellare tutta la speranza che ci sento dipinta sopra, o forse per schermarmi dal suo giudizio silenzioso. «In fondo, dopo tutto quello che mi hai fatto, sono ancora qui, pronto a farmi ferire per l'ennesima volta».

In pratica sono la vittima sacrificale dei coglioni di tutto il mondo. Dovrei metterlo nella bio di Instagram. Se solo ce l'avessi.

«Sono senza parole». Lacrime che cerca di trattenere le brillano agli angoli degli occhi e l'emozione le impedisce di parlare a dovere, incastrata in gola com'è.

E, Dio, di solito le lacrime post sesso sono ritenute eccessive da un uomo, anche se un buon segno, ma in questo momento non sono sicuro di nulla.

A quanto pare, però, soffro di un attacco potente di diarrea verbale, perché mi ritrovo a spiattellare ogni singolo dettaglio di quelle scritte. «Sai, il posto che ho scelto non è casuale. Ho scelto l'interno del bicipite sinistro perché è vicino al tuo cuore. Voglio che una parte di me sia dove deve stare, nella speranza di essermi ritagliato un angolo lì, seppur minimo».

Da dove viene tutta questa sincerità? Anche meno, mi dico, ma ormai è tardi. Il linguaggio del corpo di Elle, così diverso del solito e meno sulla difensiva, mi ha portato ad aprirmi, e ora non posso tirarmi indietro. Le parole che ho detto non posso rimangiarmele.

Lei, però, continua a fissarmi nel silenzio più rumoroso che esista, dove Elle è incastrata nei suoi pensieri, mentre io mi sento sempre più in imbarazzo e destabilizzato.

Appoggio il mento sopra il suo seno e con l'indice accarezzo le parole che le ho scritto addosso con tutta la concentrazione di cui dispongo, per evitare di pensare ad altro, a quanto poco manchi per la mia disfatta definitiva.

«Ti amo».

Mi giro di scatto verso di lei mentre la mia mano si ferma. Cerco di incontrare i suoi occhi, ma Elle, completamente rossa in viso, si nasconde sotto il lenzuolo.

«Come, scusa?»

Abbassa la coperta quel tanto che le basta per guardarmi male. «Hai capito benissimo».

«Se hai detto chi mi ami allora sì, ho capito bene». Ma sono cauto. Incredulo.

Non ci posso credere, ce l'ho fatta.

Sono riuscito ad abbattere i muri, a sconfiggere i dubbi, a scacciare le paure.

Glielo leggo negli occhi che Elle tenta di nascondere di nuovo dietro al cotone, a disagio per la sorpresa che mi ha lasciato senza parole.

Mi sollevo dal suo corpo per stendermi accanto a lei sul cuscino, abbasso quel maledetto lenzuolo e la bacio senza aggiungere altro. Sento il cuore volarle in gola per l'emozione.

Quando mi allontano le sollevo il viso con l'indice e il medio, alla ricerca dello sguardo che non vuole concedermi facilmente. «Ti amo anche io».

Si mette le mani sugli occhi, sollevata, mentre lascia andare un singhiozzo. «Per fortuna. Avevo paura che ti fossi accorto di non amarmi più, che mi odiassi dopo tutto quello che ti ho fatto». Ma tra le lacrime sorride, di quella gioia che io riesco a suscitarle.

«Secondo te mi faccio conciare così per una ragazza che non amo alla follia?» E mi indico la faccia, dove può ammirare il mio sopracciglio spaccato e l'altro alzato, in un'espressione ironica.

La vedo ridere a cuor leggero e la cosa mi fa stare bene, mi sento un Dio. «In effetti saresti un pazzo. Ma ho sempre temuto per la tua sanità mentale. A posto non lo sei proprio, se ti sei innamorato di me!» Mi accarezza il profilo del naso con una consapevolezza e un'intimità tutte nuove. «Sono stata una stupida. Ho avuto paura di essere ferita di nuovo, ma quello che più mi terrorizzava era il sentimento che è cresciuto in me. Non ho mai provato nulla di così travolgente. Mi sono spaventata da morire».

Ed è assurdo come in questo momento mi rendo conto che le cose semplici che una persona vede nella vita siano, in realtà, tutte complicate.

Le sue parole, all'apparenza facili, sono il frutto di un percorso doloroso, difficile, ma che ci ha portato a questo risultato, a far allineare quello che proviamo.

Mi prende il viso tra le mani per analizzare i lividi sul mio viso, che ormai hanno cambiato colore e sembrano avere l'intenzione di andarsene, con la dovuta calma. «Mi dispiace, non avrei mai voluto una cosa simile». Mi bacia con dolcezza uno zigomo. «Spero che possano guarire prima, in questo modo».

Rivolge la stessa delicatezza al sopracciglio e poi al labbro, mentre mi ritrovo a sorridere come un quindicenne che ha scoperto il significato della felicità per la prima volta.

«Secondo me sì, ma so che puoi fare di meglio». La stringo a me, mentre affondo le labbra nel suo collo.

La sento sciogliersi nel mio abbraccio, mentre mi sfiora le labbra con desiderio, ma uno messaggio sul cellulare rompe la magia. Fissa prima il comodino, senza capire cosa guardare, poi controlla l'ora sulla sveglia dietro di me.

«Cazzo». Si allontana di scatto, colta da un'urgenza che l'ha travolta dopo essere tornata alla realtà.

«È proprio la parte anatomica che speravo di poter far entrare in azione di nuovo». Rimetto la testa sul cuscino, arreso, con un sorriso da idiota alla mia battuta altrettanto idiota.

Elle scuote la testa, ma ridacchia divertita mentre cerca il reggiseno e gli slip in giro per la stanza.

«Cosa c'è?»

«Sono quasi le quattro. Alle sei ho la preparazione atletica con la squadra juniores per via di alcuni tornei estivi. Ma prima devo passare da un amico per un favore. E devo farlo per forza oggi, non posso rimandare». Saltella mentre infila dei pantaloncini sportivi con il logo della società, ma prima corre in bagno per lavarsi.

«Posso sapere di cosa si tratta?» Un suo amico è un mio amico? Sbagliato. Un suo amico sarà sempre una potenziale spina nel fianco, perché non so cosa vorrà da Elle. Ma, ehi, lei è innamorata di me e la vita è bella. Ciao amici di Elle, dovrete aspettare che io mi faccia da parte, e questo non succederà mai. «Sai, potresti dirmelo, dato che mi ami».

Oh sì, ora che so come stanno le cose ho intenzione di approfittare della situazione e rinfacciarle le sue stesse parole ogni volta che posso. Proprio perché posso.

Mi sento potente.

Elle spunta dal bagno e mette la testa in camera. «Oh, penso che lo scoprirai a breve. Se tutto va bene, ovvio». Ritorna in bagno con lo spazzolino da denti in bocca.

Riappare, senza spazzolino al seguito, solo per aggiungere: «La camicia...» poi si interrompe. «Beh, era un prestito davvero». Alza le spalle, ma è arrossita.

«L'avevo capito. Ma perché?»

«Perché mi mancavi». Sbuffa e poi indossa la maglietta da allenatrice, quella con scritto coach sia sul petto che sulla schiena. «Avevo bisogno di sentirti vicino, e quando ti ho preparato la sacca per l'ospedale l'ho trovata in camera tua. E aveva il tuo odore».

Praticamente un'altra dichiarazione d'amore.

È fatta, ormai è mia tanto quanto io sono suo.

Questa giornata dovrebbe diventare festa nazionale, come minimo.

In bagno la sento chiamare qualcuno con il vivavoce, immagino che stia facendo altro e cerchi di recuperare il tempo perduto in questo modo.

«Henry, ciao!»

«Ciao Elle, tutto bene? Pixie sente la tua mancanza, appena riprende l'uso della zampa sarà di nuovo tutta tua».

Mi affaccio al bagno con addosso solo i boxer, recuperati dal pavimento, e la spio. Si sta pettinando, motivo per cui ha messo il vivavoce. Vedo un elastico per capelli sul piano d'appoggio vicino al lavandino, si vede che è pronta a calarsi nel suo ruolo da allenatrice.

«Non vedo l'ora!» risponde con un sorriso a cui Henry non può rispondere.

«Posso fare qualcosa per te?» Questo tizio non perde un secondo e mi piace. È schietto e non sembra interessato a Elle e sono contento che sembri sinceramente legato a lei da un semplice rapporto professionale. Non sono geloso, ma immagino che per una donna non sia sempre facile farsi apprezzare per il modo in cui lavora e non per il proprio aspetto fisico.

«In effetti sì. Ho bisogno di un favore enorme». Cerca l'elastico per i capelli e glielo indico, perché non sembra ricordare di averlo già preparato. Mi ringrazia solo con le labbra, in un "grazie" silenzioso.

«Sono tutto orecchi».

«Ho bisogno di una bozza. Ne ho bisogno adesso». Mi guarda con fare nervoso, ma io non sto capendo nulla di quello che si stanno dicendo.

«Mh, è complicato. Ho un appuntamento tra poco più di mezz'ora». Henry non sembra molto contento. Io sì, invece, perché se lui ha un appuntamento e non può vedere Elle, vuol dire che non ha alcun interesse.

Quindi ok, non sto capendo nulla di quello che si dicono, ma almeno so che non devo diventare verde. E no, non intendo Hulk, ma verde dalla gelosia. Si sa che Hulk non è famoso per il suo sedere da urlo, come il sottoscritto.

«Posso essere lì in massimo venti minuti» "Mi chiami un taxi?" mima con le labbra. E io sarei pronto a mordergliele di nuovo, ma annuisco e vado a prendere il telefono per velocizzare la procedura.

«Sicura?» Henry, ormai sento di avere una certa confidenza con lui, non sembra convinto.

«Ok, venticinque al massimo. Di sicuro arrivo prima del tuo appuntamento. Avrai un ritardo minimo, te lo giuro». Elle saltella sul posto, mentre controlla di avere tutto nella sacca sportiva.

«Ma cosa devi fare?»

«Oh, non posso dirlo, ma lo vedrai quando arrivo». Mi sorride dopo aver recuperato una borraccia piena d'acqua.

«Ok». Henry cede, perché anche lui ha capito di avere a che fare con una persona che non è disposta a ricevere un no come risposta. «Allora ti aspetto. Ma solo perché ti devo un favore».

«Sei un angelo. A tra poco». Sorride e chiude la chiamata prima che il poveretto abbia il tempo di ripensarci.

«Non ho capito nulla, ma ok». Alzo le spalle, fingendo indifferenza, nella speranza che la psicologia spicciola faccia il suo corso.

«Oh, piccolo Ford, non devi capire». Si alza sulle punte per arrivare ai miei capelli e scompigliarli. «È una sorpresa. Lo scoprirai a tempo debito».

«Devo aver paura?» Inarco un sopracciglio, preoccupato.

«Devo averne di più io». Si rabbuia un po', tesa, ma si riprende subito.

«Spero non sia niente di illegale». Perché ora che le cose tra noi sono sistemate non posso sprecare il tempo così, con lei in un carcere e io fuori, in attesa. Con la fortuna che ho uscirebbe dalla prigione giusto il giorno prima del mio imbarco per gli Stati Uniti, pronto a girare l'ultimo capitolo di Legacy.

Elle ride. «Qui di illegale c'è solo il tuo sedere». Mi da un leggero schiaffo sulla chiappa per sottolineare la cosa. Chris Evans, è ufficiale: puoi lasciare il posto al migliore, cioè il sottoscritto. «Ora devo andare, altrimenti non ci sto con i tempi».

«A breve arriverà Fred, il mio autista. Ti porterà lui dove vuoi». Mi ricordo di dirle. Ok, non è proprio un taxi, ma è come se lo fosse.

«Non dovevi». Mi fissa a bocca spalancata, a metà tra il riconoscente e l'incazzosa. Spero che prevalga la prima parte, perché non ho intenzione di fare arrabbiare Elle. Non ora.

«Per una volta cosa vuoi che sia». Mi appoggio allo stipite e alzo le spalle per minimizzare. Sono ancora mezzo nudo nel suo appartamento e mi trovo a mio agio, la cosa mi piace.

«Ti perdono solo perché ho fretta». Si protende sulle punte dei piedi, mi cinge il collo con un braccio e mi stampa un bacio sulla labbra. Per facilitarle il compito mi piego appena verso di lei. Niente più difficoltà tra noi due, mi sembra il minimo. «Se vuoi rimanere per me non c'è problema, ma sappi che tra poco Jane e Rach potrebbero rientrare. Non so se hai voglia di dare loro spiegazioni sul perché ti aggiri in boxer per casa nostra».

Mi rivolge un sorriso ironico e malefico. Immagino che si divertirebbe ad assistere alla scena, ma non avrà fortuna, ho intenzione di tornare a casa mia subito dopo che lei se ne sarà andata.

«No, non voglio dare spiegazioni a nessuno su noi due. È così e basta». Mi giustifico. Non so se diremo la cosa o ci comporteremo semplicemente di conseguenza, so solo che non mi interessano le reazioni dei nostri amici, anche se penso che saranno felici di non vederci in guerra e arrabbiati. L'importante, per me, è che tra noi sia tutto ok.

«Mi trovi d'accordo. Non c'è bisogno di nessun proclama, non siamo il Papa». Ok, anche oggi si conquista il Vaticano domani. Meglio così, non ho le forze per organizzare un colpo di stato.

«Elle...» Mi siedo sul letto, mentre lei è sulla porta. Sto per infilarmi i jeans, ma mi blocco, sia con le parole sia con i gesti. «lascia perdere».

Lei, però, non demorde e torna sui suoi passi.

«Ti amo». Anticipa i miei pensieri. Appoggia le mani sulle mie cosce e lo sguardo, a quel contatto, corre a cercare il suo, pronto a tranquillizzarmi. «Non ho mai amato nessuno così. Quello che provo mi fa stare bene, ed è la prima volta che mi succede. Non cambierò idea. Ti amo, e ti amerò domani, dopodomani e il giorno dopo ancora».

Muove il pollice e mi bacia la fronte, come se per lei fosse impossibile evitare di toccarmi.

«Ti amo anche io». Sussurro, più sereno, e la guardo uscire dalla stanza.

Hello peeps!

EBBENE SÌ. Avete letto giusto, è tutto vero.

Elle ha vuotato il sacco e ora sono felici.

Ma tranquill*, alla fine della storia manca ancora un bel po'. 15 capitoli non ve li leva nessuno. Ce ne sono, di cose da raccontare ♥️

Soprattutto: chi è Henry e cosa deve fare Elle?

Poi, cosa dire?! Ah, ok. Chi mi segue su Instagram sa che questo capitolo dovrebbe avere un doppio POV, ma che ho deciso di tagliarlo. So che è brutto togliere un POV ELLE, che sarebbe stato il prossimo, ma penso che abbia parlato in questo, che abbia dimostrato, e che anche nel capitolo precedente abbia avuto modo e spazio per dire tutto il necessario.

Quindi via di forbici, tagliamo il superfluo e andiamo avanti dritt* alle parti più succose.

E, questa volta, siccome mi sono preparata, vi cito subito le canzoni del capitolo, anche se sono facilmente intuibili: Wonderwall degli Oasis e She's di Ryan Cabrera.

Ok, ora vi saluto, spero che il capitolo vi sia piaciuto.

Ci sentiamo tra due settimane,

Cris

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