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17. Giro di confessioni

La verità è che, da quando hanno spostato il Dungeon lungo le rive del Tamigi nella zona più turistica della città, non dobbiamo andare molto lontano.

«Aspettami qui». Le dico, mentre la accompagno vicino al parapetto che separa il Dungeon da un salto nel fiume. «Fuma una sigaretta, guarda la gente che passa, insultala se ti fa stare bene, fai quello che vuoi, ma non scappare. Non ti muovere».

Fidarsi è bene, ma non fidarsi di Elle – soprattutto in questo momento – è lecito.

Se potesse fuggirebbe anche sulle mani. Tutto, per togliersi da questa situazione imbarazzante, ma è ora di affrontare l'elefante nella stanza e lo faremo a modo mio.

Mi guarda mentre mi allontano, per capire dove sto andando, così cerco di confonderla smarrendomi tra la folla. Allungo il tragitto verso la mia meta e, una volta sicuro che Elle mi abbia perso di vista, torno verso il mio obiettivo.

Vado verso la biglietteria del London Eye e mi metto in coda, ma l'attesa mi rende nervoso. Ho paura che l'occasione passi, che Elle cambi idea e mi pianti in asso su due piedi, così cerco qualcuno del personale a cui rivolgermi dopo aver trovato le informazioni necessarie di quel che mi serve sul loro sito. Per attirare l'attenzione su di me c'è solo un modo: farmi riconoscere. Per questo mi levo il berretto e gli occhiali da sole.

Dopo aver convinto un ragazzo dello staff a farmi saltare la fila, mi ritrovo in poco tempo in una cassa che è stata aperta solo per me e davanti, per fortuna, ho una ragazza. So che non è carino, ma uso la mia fama per velocizzare il procedimento e cercare di ottenere quello che voglio.

«Ciao». La saluto con il sorriso più accattivante che possa riuscirmi e sfodero il mio asso nella manica. Un gesto naturale che, però, so che stende le mie fan. Basta leggere i blog e le pagine tumblr sul mio conto per rendersene conto. Mi passo una mano tra i capelli per scompigliarli.

No, non sono narcisista, sono solo curioso e ho scoperto che leggere quello che le mie fan dicono di me è prezioso: sono armi che tornano a mio vantaggio, come in questo caso. Pensano che io in una determinata città alloggi in quell'hotel? Bene, prenoto anche lì e poi mi dirigo da un'altra parte. È sopravvivenza.

La cassiera arrossisce subito e assume un'espressione sognante. Bene, direi che mi ha riconosciuto. E che forse spera anche lei di fare un giro sul London Eye con me. Mi dispiace, dolce creatura, non sei compresa nel pacchetto. Sarà per la prossima volta. O la prossima vita.

«Ciao, Sebastian» Balbetta adorante, con il respiro incerto, ho quasi paura possa svenire da un momento all'altro. «Come posso esserti utile?»

Per darle il colpo di grazia leggo il nome sul cartellino. «Allora, Mary». Sobbalza quando pronuncio il suo nome, non si aspettava una simile confidenza. «Mi serve una cabina. Ho visto il pacchetto San Valentino».

Ebbene sì, sto per sperperare la bellezza di quattrocentocinquanta sterline in questo modo. Una cabina riservata a noi due. Con gli stessi soldi, se mi impegnassi, complice un po' di organizzazione e lungimiranza, organizzerei una vacanza per otto persone al Four Season di New York nella settimana di capodanno, ma ho uno scopo da raggiungere e mi metto una mano sul cuore per la causa. E l'altra sugli occhi mentre estraggo la carta di credito.

Una volta effettuata la transazione passo alla contrattazione.

«Mi raccomando, Mary, ti chiedo discrezione. Questa follia rimarrà tra te, me e al massimo il tuo collega che mi farà accedere alla cabina. Posso contare su di te?» Mi sento uno stronzo a trattarla in questo modo, ma ho bisogno davvero della sua riservatezza e di tutta la collaborazione possibile.

Arrossisce, come se le avessi chiesto di mantenere un segreto che ci lega per la vita. La vedo annuire con eccessiva convinzione. «Certo, non c'è nemmeno da chiederlo».

«Sei un tesoro!» Sorrido con un solo angolo della bocca. «La migliore».

Ora devo passare al secondo punto, che mi è stato anticipato dal sito.

«Per quanto riguarda il personale in cabina, è proprio necessario?» Non mi piace che qualcuno ascolti i nostri dialoghi, non quando si tratta di argomenti che potrebbero rivelarsi delicati.

«Sì, per una questione di sicurezza. Se non ci fosse l'addetto non potremmo farvi entrare in cabina». È dispiaciuta, ma è irremovibile sulla questione.

«Lo supponevo, ma ci dovevo provare». Lo sospettavo, ma non mi impedisce di rimanere deluso, almeno in parte. «Posso chiederti una persona molto discreta? Magari che non mi conosca e che faccia orecchie da mercante?»

Uno sordo e cieco sarebbe l'ideale, ma non posso aspirare a tanto.

«Dammi un momento». La vedo controllare una tabella su un foglio, per poi fare un paio di chiamate. «Ho fatto assegnare Bert alla vostra cabina. È un uomo maturo ed è un po' sordo, penso possa fare al caso tuo». Sorride, soddisfatta del proprio lavoro. «Tra venti minuti finisce il giro e voi avrete la vostra cabina».

Sono così sollevato che potrei baciarla, ma è meglio evitare lo scandalo. «Dimmi il tuo cognome».

«Fletcher, perché?» Sbatte gli occhi, confusa.

«Perché ho intenzione di scrivere una mail al direttore del personale per complimentarmi a riguardo della loro dipendente più capace, che mi ha aiutato in modo egregio». Le strizzo l'occhio e mi allontano dopo che mi ha affidato a un suo collega che, per evitare un bagno di folla a me e caos a loro, ci farà passare da un'entrata secondaria, quella disposta per i dipendenti. «Buona giornata!»

Vado a recuperare Elle che, a quanto pare, mi dava già su un aereo per il Messico, nemmeno mi avesse detto di essere incinta. «Pensavo mi avessi abbandonata qui!»

La sua preoccupazione mi sorprende, soprattutto se considero il fatto che non avrebbe voluto un appuntamento. Ed ecco la fiammella di speranza che si rianima nel petto e cresce di intensità.

Sarei un pazzo a farmi fuggire un'occasione simile, ma non glielo faccio notare.

«Dai, andiamo». Le prendo la sigaretta, aspiro e le indico la ruota, prima di trovare un cestino in cui spegnerla. Sapeva di lei, ma dobbiamo andare, perché Harry, l'addetto incaricato di scortarci all'entrata secondaria, ci aspetta.

«Lassù?» Indica il London Eye a bocca aperta. Mi fa piacere averla sorpresa.

Mentre aspettiamo di salire mando la mail al responsabile delle risorse umane come ho promesso a Mary. O meglio, la faccio scrivere dalla mia agente di modo che ci sia la firma ufficiale e tutte quelle cose che la rendono una voce fuori dal coro.

Harry ci fa strada e ci porta ai cancelli delle cabine, tra le lamentele della gente che si lamenta dei soliti privilegiati. Beh, questa volta non mi trovo d'accordo. Ho pagato per un trattamento di favore e succede ovunque, non vedo cosa ci sia di strano.

Quando vedo un uomo dai capelli bianchi e i baffi folti, capisco che Bert è ciò che fa al caso mio e ringrazio ancora una volta Mary per essere stata la persona più efficiente del pianeta.

Quando siamo dentro e le porte si chiudono dietro di noi, Elle rimane spiazzata. «Ma le cabine non contengono una trentina di persone?»

«Certo, se non avessi preso quella privata». Sgrana gli occhi, a metà tra l'essere sorpresa e preoccupata. «Un bagno di folla forzato di mezz'ora non rientra tra i dieci modi preferiti in cui mi piace trascorrere il mio tempo libero».

Sembra che la mia spiegazione sia sufficiente a farla rilassare, tanto che si siede sulla panchina nel bel mezzo dell'abitacolo e nota lo champagne e i cioccolatini, tutti compresi nel – caro – prezzo.

«Qualche comfort». Alzo le spalle per minimizzare. Non vorrei mai che Bert si mettesse in mezzo e dicesse che quello che ho acquistato fosse il pacchetto cupido, Elle troverebbe il modo di espellermi dalla cabina nel punto più alto della ruota.

«C'eri mai stata?» Chiedo mentre iniziamo a salire con costante lentezza.

Si gira a guardarmi, sorpresa da una domanda così semplice e sentita. Mi studia, prima rivolgermi un sorriso sereno. «No, e tu?»

«Nemmeno». L'ho sempre considerata troppo turistica e pacchiana come attrazione, ma solo gli sciocchi non cambiano idea.

E poi mi rendo conto della mia stupidità. Mentre il sole cala e il tramonto si tinge di rosa e arancio, mi accorgo che avere una cabina tutta per noi non tutela la riservatezza che mi ero aspettato, perché le cabine accanto alla nostra possono spiarci come meglio credono. Spero che nessuno mi riconosca e che siano tutti intenti ad ammirare Londra rispetto a me.

Mi concentro su questa tonalità incandescente, che rende Londra vibrante, e mi lascio avvolgere dalla sensazione di pacatezza che sembra schiantarsi sulla città. Ne ho bisogno.

Piano, con la stessa pigrizia con cui saliamo, il profumo di Elle riempie la cabina e arriva violentemente ai miei sensi e li tortura con inaspettata dolcezza. Forse la calma è merito suo, non del paesaggio.

«Devo ammetterlo: come appuntamento è inaspettato. Mi hai stupita». Elle si butta sui cioccolatini senza alcun dubbio.

Io, invece, devo distendere i nervi e, per aiutarmi, prendo lo champagne e ne bevo un bicchiere tutto d'un fiato. Sono più tipo da birra, ma in mancanza d'altro va bene anche il vino. L'importante è che sia alcool.

C'è un silenzio tra noi carico di aspettative che ci costringe a sfogare il nervosismo su quello che abbiamo a disposizione.

Anche Elle percepisce che c'è un discorso che pende sulle nostre teste come la spada di Damocle, ma sta facendo di tutto per evitare la cosa. E io l'ho portata qui per impedirle di continuare ad andare avanti in questo modo.

Si siede sulla panchina con le gambe incrociate, mentre io rimango in piedi, troppo teso per stare seduto.

Ho deciso di correre il rischio. Non posso rimanere con i dubbi, con i rimpianti e i rimorsi, con gli "e se" appesi. Mi logora troppo, non sono abituato a vivere così e, sinceramente, non voglio nemmeno iniziare.

«Grazie». Annuisco mentre fisso il tramonto all'orizzonte, che ha gli stessi confini delle mie paure. «Sai perché ti ho portato qui?»

Mi volto a guardarla ed Elle, incuriosita, incastra i suoi occhi nei miei. Entrambi leggiamo la fatica reciproca di sorreggere lo sguardo dell'altro durante questo discorso, ma solo io so quanto potrà diventare ancora più difficile a breve.

«No. Perché?»

«Per due motivi. Il primo è che tu mi mostri sempre le cose da un punto di vista differente e, per una volta, ho voluto restituirti il dono. E ho pensato di farlo con Londra».

È arrossita e, per dissimulare l'imbarazzo, torna a fissare lo skyline della città, che rimbalza sulle sue superfici i riflessi infuocati della golden hour. «E l'altro?»

«Il secondo è che non puoi scappare». Mi appoggio con la schiena al vetro della cabina, ho bisogno di ogni sostegno possibile. Vorrei che non ci fosse Bert, ma ho anche sentito la necessità bruciante di affrontare il discorso in un territorio neutro, non legato ai ricordi che ho costruito in sua compagnia. Non voglio correre il rischio di infettarli.

«Perché dovrei scappare?» Lo chiede, ma è come se sapesse già la risposta.

«Perché dobbiamo affrontare un discorso che non ti piacerà» ammetto calmo, di una serenità che non mi appartiene in questo momento. Il cuore mi batte frenetico nel petto all'idea di dare voce a quello che sento, ma non riesco più a tenermelo dentro.

«E se non volessi affrontarlo?»

«Mi dispiace, Elle, non decidi per tutti». Le ho permesso di farlo già fatto troppe volte e non è mai finita nel migliore dei modi, preferisco fidarmi del mio istinto, sospinto dalla fiamma della speranza che lei stessa ha alimentato. «E poi l'appuntamento è il mio e le regole le faccio io».

Mi fissa con aria di sfida, in un tacito invito a parlare, ma la verità è che, ora che siamo arrivati al fatidico momento del faccia a faccia, non so cosa dire, non mi sono preparato un discorso.

Mi schiarisco la gola e inizio con una domanda. «Ti rendi conto di cosa sta succedendo tra noi?»

«Scopiamo». È lapidaria, tagliente come una punta d'acciaio sul marmo. Prova a scalfirmi, a sminuire, a colpire dove pensa di farmi male, ma io sono troppo deciso per farmi toccare da una sola parola, così riduttiva per descrivere quello che sta accadendo.

Sussulto in modo impercettibile e controllo la reazione di Bert che, arrossito, ha capito che qui dentro, di legato a cupido, non avverrà poi molto, così ci dà le spalle e si concentra sul tramonto, come dovremmo fare noi. Forse dovremmo suggerire anche la cabina "bollore", per i più intrepidi e per chi ama essere osservato in certi momenti.

«Non è solo quello. Tu monopolizzi il mio tempo libero e io il tuo». Le faccio notare, pratico, ancora rilassato sia nei gesti sia nelle parole, un modo per dimostrare che, per una volta, posso essere più stagno di lei.

«Beh, si chiama scopa amicizia per questo. Sarà più amicizia che scopare». Alza le spalle, a voler liquidare l'argomento.

Si morde la lingua, quasi posso sentire l'odore metallico del sangue nella sua bocca. So che avrebbe voluto dire che, se fosse così, c'è qualcosa che non va, ma si è frenata perché avrebbe voluto dire darmi ragione o, peggio, affrontare argomenti che non le va di discutere.

Spiacente, Elle, oggi non deve essere il tuo giorno fortunato.

«Spiegami com'è allora che iniziamo i preliminari con lo sguardo e riusciamo a toccarci anche solo con le parole». Sono contento di come riesco a trovare le cose giuste da dire, quelle che riescono a definire esattamente quello che mi passa per la testa, soprattutto perché Elle non sembra pronta allo stesso modo, al contrario mio. «Questo non è soltanto scopare».

«Stai ingigantendo la questione». Ormai è sulla difensiva e non fa nulla per nasconderlo, e la cosa mi dà soddisfazione. È la reazione degli animali selvatici quando si trovano con le spalle al muro: attaccare per difendersi. Forse non ha poi molte armi nel suo arsenale come pensava.

«Elle, Cristo, tu mi hai lasciato entrare. Piccoli pezzi di te hanno la mia impronta, e per me vale lo stesso, senza il minimo dubbio». È una frase melensa, me ne rendo conto, ma è proprio così che ci immagino. Io le ho dato i pezzi del mio puzzle e lei ha scelto di ricomporlo, un tassello alla volta. E ogni parte lei l'ha toccata, modellata e ci ha lasciato più colore sopra di quanto ce ne fosse prima. Di sicuro il risultato completo sarà diverso da come doveva delinearsi all'inizio perché lei l'ha arricchito. E so che lei non mi ha dato tutti i talloncini per permettermi di ricostruire il suo disegno, ma io sto rimettendo insieme i pezzi che ho a disposizione e quel poco che ne emerge mi piace, mi ha catturato. Incastrato tra un bordo asimmetrico e l'altro, in quelle intercapedini che combaciano alla perfezione, come noi due.

«Tu non sai niente di me». È tesa e ha un tono accusatorio, si sposta in avanti con il busto per essere più minacciosa. So di aver toccato un nervo scoperto, quello che lei cerca di nascondere con tutte le sue forze.

«E allora i regali di compleanno? Il tetto? Il sessomesiversario?» Sono piccole cose che, per me, hanno un significato immenso, perché mi ha studiato, ha osservato me e quello che mi piace e mi ha regalato quello che più desideravo, compreso lei stessa.

«Sono gesti di premura tra amici». Si difende, ma le manca la convinzione, come se il fatto che io avessi notato cose simili gliele facesse osservare sotto una luce diversa, che rende tutto più pericoloso.

«Stronzate. E lo sai bene». Mi avvicino, forte di quello che sto per dire, perché sembra che mi dia un vantaggio impossibile da colmare rispetto a lei. «Daniel è tuo amico da mesi, eppure non l'hai portato nel tuo posto segreto. Eppure non ci fai sesso».

«Non sono attratta da Daniel, come invece lo sono da te. E poi era troppo interessato alla cosa, non gliel'avrei mai data vinta». Si alza anche lei, troppo nervosa per stare seduta, ma si pone a una distanza di sicurezza, quasi emotiva, lasciando tra noi la panchina a fare da cuscinetto.

«Quale onore, vostra grazia». La prendo in giro, il suo discorso non ha il minimo senso. «Ma le senti le cazzate che dici? Io non sono troppo interessato? Sono sotto mille treni per te dal primo momento in cui ti ho vista. E non ho mai fatto niente per nasconderlo...»

Ammetto con più sincerità del previsto. Mi è sfuggito dalle labbra prima che potessi contenerlo, un pensiero che aspettava di scappare ancora prima che io lo formulassi.

«Basta». Mi ammonisce, uno sguardo di supplica che mi chiede di avere pietà di lei.

Ma io voglio avere pietà di me stesso, me lo devo.

«"Basta" lo decido io. Ti ho assecondato pure troppo».

Metto un punto alla situazione e cerco di riprendere il controllo. Lo so che cerca la lite per far degenerare il discorso, prima che tutta la verità venga a galla, ma non riuscirà a farmi cedere, a prevaricare sul mio intento originale. La verità è che siamo qui sopra da quindici minuti e ne abbiamo altrettanti prima che il giro finisca, non c'è modo di mettere fine in anticipo a quello che abbiamo iniziato.

Mi passo le mani tra i capelli per cercare di racimolare i pensieri e capire come continuare.

E, all'improvviso, so cosa dire, perché sono arrivato fino a qui apposta, anche non lo rende meno facile. Però, per dirlo, le do le spalle. Sento il bisogno di non vedere la sua reazione, ho paura di perdere la risolutezza.

«So di andare contro le regole, ma non me ne frega niente». Devo sembrare stanco, e forse lo sono, perché mi sento logorato, consumato da quello che provo e che non ho mai potuto esternare. Mi ha divorato dall'interno e mi ha sputato così, provato, ma con un po' di coraggio in più. «Sono sempre stato interessato a te. Troppo, fin dal primo momento. Mi piaci così tanto che mi sono innamorato di te. Perché sì, ti amo, e sono arrivato al punto di accettare ogni tuo compromesso pur di avere un briciolo della tua attenzione, nella speranza di farti cambiare idea».

Ecco, l'ho detto. Non si torna indietro.

Elle l'ha sentito, non può scappare.

E penso che il suo odio nei miei confronti, ora, possa esplodere come una granata e lasciarci agonizzanti qui, sotto gli occhi di tutti, nel cuore di Londra.

Il suo silenzio è quasi un segno, è più determinante di ogni parola che avrebbe potuto pronunciare, deleterio quanto un viaggio a Chernobyl. Di quella nocività che ti rimane addosso, che la pelle assorbe e fa penetrare fino a raggiungere il nucleo per infettarlo.

Sono così attratto e spaventato dal suo mutismo che finalmente mi giro a guardarla e la trovo seduta di nuovo sulla panchina, rivolta verso di me, con le mani sulla faccia e i gomiti appoggiati sulle ginocchia.

Una posizione di contenimento, non capisco se è un trattenere le emozioni o i suoi pezzi rotti. Potrei essere il martello che ha infranto il vetro, oppure potrei essere la cornice che i frammenti li lega di nuovo e li protegge dagli agenti esterni.

Il silenzio di Elle non mi permette di interpretare la sua non reazione, anche se inizio a preoccuparmi perché sembra che non stia nemmeno respirando.

Senza fiato.

È questa la sensazione che una dichiarazione d'amore dovrebbe lasciare. Ed è un'altra folata che alimenta la fiamma.

Mi rannicchio davanti a lei, vicino al suo viso per togliere le mani che lo nascondono, ho bisogno di vedere i suoi occhi per cercare di capirla. Quel verde scuro che è sottobosco, fresco e rassicurante, ma che riesce a sembrare anche radioattivo, fulminante.

E mi ritrovo davanti a un qualcosa che mi pietrifica.

Il suo sguardo è lo specchio di un dolore così radicato che non riesco a spiegare, gli occhi son gonfi di lacrime che non vogliono abbandonarli. Perché Elle è così, cerca di trincerarsi dietro le sue barriere fino all'ultimo, anche se stanno crollando.

Eppure è lei ad azzerare le distanze e a baciarmi.

Un tocco lento e delicato, sofferto. È un dialogo che non mi dà il tempo di capire, ma ha un che di definito, come la fine di un viaggio e non l'inizio, quando la magia svanisce e tu torni sì più ricco, ma svuotato.

È salato, come le due sole lacrime che bagnano le nostre labbra, come quando torni dal mare e la salsedine te le screpola, fino a farle sanguinare. Elle è così, ed è così l'amore che provo per lei: profondo fino a ferirmi, se lasciato attecchire.

Quando si allontana da me sembra pronta a dire qualcosa, il verdetto che decreterà la mia morte o la mia assoluzione. Elle è Ponzio pilato e io sono l'uomo che rischia la crocifissione davanti a lei, sarà il suo gesto a permettermi di continuare a vivere o meno.

Mi accarezza una guancia con il pollice, prima di interrompere quel tocco che sembra tranquillizzare entrambi.

«È tutto sbagliato. Non doveva andare così. Io sono legata a te, ma non sono innamorata. Te l'ho detto che non sarebbe successo, avevo messo la cosa in chiaro per evitare drammi. Perché hai rovinato tutto?»

È in questo momento che tutto crolla su di me. Perché lo dice con la sincerità di chi crede in ogni parola pronunciata e, soprattutto, perché lo fa con una delicatezza che non dovrebbe farmi male, ma lo fa, perché non è il tono a infierire, quanto il contenuto.

Il mio amore sarebbe un dramma? Io cerco di farle ammettere la palese verità contenuta nei suoi gesti e lei addossa questo fallimento a me?

Ora sono io sulla difensiva. Non so se lo faccio per farle del male come lei ne ha fatto a me o se, invece, è un modo alquanto fallimentare di dimostrare che non ne sono rimasto ferito.

«Non voglio sembrare presuntuoso, ma le tue azioni contraddicono ogni tua cazzo di parola». Sputo tra i denti, furioso per averle mostrato ogni singolo angolo di me, di quello che sono e che provo, e scoprire che non è stato abbastanza, che è stato preso, considerato non meritevole e buttato come se fosse spazzatura.

«Non volevo questo» ammette con una serenità che mi manda in bestia. Preferivo la sua versione arrabbiata, perché ho il bisogno viscerale di litigare ed Elle non vuole concedermi questo lusso. «Tu meriti tutto, Seb. Il meglio, e non sono io. Qualcuno che ti sappia amare come meriti. Non è colpa tua, sono io che non sono in grado di amare. Non più».

Come se una frase simile potesse bastarmi per liquidare la questione. Non dico di essere ricambiato, ma non può soffrire tanto nel rifiutarmi, se non provasse niente. Non può non darmi delle spiegazioni, se vuole che io accetti la cosa.

Vorrei risponderle, ma sono davvero a corto di parole, un corto circuito emotivo che lascia spazio ai suoi pensieri, più sconnessi dei miei.

«C'è un motivo se dico certe cose, se agisco in determinati modi, ed è un qualcosa di cui porterò sempre le cicatrici». Elle tenta di giustificarsi, ma la verità è che il suo tono, ormai remissivo, e le sue poche argomentazioni, non mi bastano.

«Vorrei sapere cosa ti è successo, anche solo per aiutarti a superarlo». Provo ad adattarmi al suo tono, perché la disperazione che sento nelle sue parole non mi ha lasciato indifferente, magari riesco ad arrivare da qualche parte.

«Non me la sento di parlarne, è una ferita ancora aperta». Si torce le dita fino a farle diventare bianche, a disagio con se stessa più di quanto lo sia con me.

«Ottimo. Ora siamo in due a essere feriti». Le rinfaccio prima di iniziare a camminare avanti e indietro nella piccola cabina.

Povero Bert. Non me ne frega che abbia assistito alla mia più grande umiliazione, non mi importa di me, penso a come si stia sentendo in questo momento. Beh, come lui, al momento vorrei fuggire pure io.

«Cosa ti sto facendo?» Elle si tira le ginocchia al petto e affonda la faccia lì, nell'unico posto sicuro che sente di aver trovato: tra i suoi cocci.

«Mi stai uccidendo. E lo fai lentamente, come se godessi a vedere ogni goccia di sangue che mi abbandona» rispondo sfinito, in una semplice constatazione che ormai ha lasciato da parte ogni tono belligerante.

Mi ha ucciso piano, ogni giorno, e ora mi sta dando il colpo di grazia.

E sono così stupido da non riuscire a odiarla, perché non ho ancora metabolizzato, come se la cabina avesse creato al suo interno un clima surreale.

Sono un idiota, lei l'aveva detto. Ma no, io ho voluto confessarle i miei sentimenti, forte delle mie false convinzioni, nella speranza di cambiare le cose. E ora?

Sono vuoto, lei mi ha svuotato. Sento i tonfi pesanti del mio cuore riecheggiare nel silenzio agonizzante di quello che rimane di noi, sempre che un noi ci sia mai stato, e lei non se ne rende nemmeno conto.

Fino a che punto è sorda? Quanto, invece, non vuole sentire?

Ho cercato di aprirle gli occhi ed Elle, in cambio, mi ha aperto il torace per estrarne il cuore e calpestarlo senza la minima esitazione.

Eppure non riesco a dirle niente di tutto quello che penso, mi mancano le forze per farlo, perché sarebbe come combattere una battaglia già persa in partenza.

C'è una cosa che, se non fossi così disperato, mi farebbe sorridere.

Elle inizia a piangere. Prima lacrime sparse, poi sempre più costanti, fino a diventare un pianto a dirotto, con singhiozzi che le scuotono il petto in modo innaturale. C'è tutta la stanchezza di anni, la devastazione di esperienze che non riesce a condividere e a superare, fatte di cicatrici che si porta sul cuore, speculari a quella che lei ha inferto a me, anche se questa è ancora fresca.

Quindi Elle mi ferisce a morte, quello agonizzante sono io, ma lei è in grado di guardare la lama sporca di rosso e sanguinare per me. Sono io quello a pezzi, ma l'istinto di consolarla è più forte. Se mi rompo in pezzi più piccoli c'è differenza, ormai? Fa più male ancora?

Sono arrivato alla soglia limite del dolore, non penso di sentire di più, se anche accumulo la sua disperazione.

C'è un'ironia feroce in un quadro simile, la vittima che – nel proprio sangue – consola il carnefice. Quel tipo di umorismo crudele che mi porta a pensare che vorrei essere ovunque, tranne che qui, e invece – come ho detto io stesso a Elle quando siamo entrati qui dentro – siamo chiusi in un posto da cui non si può scappare.

I singhiozzi si placano un po', ma la sua preghiera è disperata. «Aiutami. Aiutami a difendermi da me stessa. Sono io che ho qualcosa che non va. Sono io che sono il male, ogni volta che tocco qualcuno lo distruggo. E ora l'ho fatto anche con te».

E forse non vorremmo fuggire dalla cabina, o dai sentimenti non corrisposti, ma da noi stessi.

«Come posso aiutarti, se non mi permetti nemmeno di provare dei sentimenti per te?»

So che l'amore non è la soluzione a tutto, ma se lasciasse che almeno le persone si avvicinassero a lei, potrebbe provare a rialzarsi. Rattoppata, magari, ma ancora in grado di sentire. Richiudere le cicatrici di cui ha parlato e ripartire. Vorrei essere io, quella cura, ma so di non poterlo essere.

Elle, abbandonato ogni spirito bellicoso, si aggrappa alla mia maglietta per non andare in pezzi, incapace di rispondere.

«Dovresti lasciare che quello che provi – qualsiasi cosa sia – ti pervada, non devi frenare quello che senti. Devi lasciarti amare».

Ormai non so nemmeno se quello che dico ha un senso, so solo che è l'ultimo patetico tentativo di farle ammettere quello che so di non essermi sognato.

«Insegnamelo tu, perché io non sono più capace di permettere alle persone di fare un simile sbaglio». Affonda la faccia nella mia spalla, sconsolata, esausta.

Il giro sta per giungere al termine e con lui anche quello che siamo sempre stati.

«Provare dei sentimenti e non esserne spaventata ti aiuterebbe. Aprirsi perché gli altri si aprano con te».

E glielo do come consiglio sincero, non solo per l'amore, ma per qualsiasi campo affettivo. Se non riesce a mostrarsi agli altri per quello che è, non riuscirà mai a sentirsi completamente a casa con qualcuno. Penso che almeno gli amici meritino un simile coinvolgimento.

«Posso provarci, ma non posso fare promesse che so che poi non manterrò». Soffoca le parole tra la mia maglia e il corpo.

È come sbattere contro un muro, lo stesso muro contro cui ogni mia speranza si schianta.

*

Quando torniamo a terra siamo esausti, quasi la ruota l'avessimo dovuta far girare noi con la forza delle nostre braccia. Mi allontano dalla folla per cercare di chiamare un taxi, ma Elle mi ferma.

Si asciuga le lacrime con il dorso della mano e torna da me. «Dobbiamo finire il discorso». Le costa ammetterlo, glielo leggo in faccia, ma a quanto pare ora le preme mettere un punto alla situazione, mentre io vorrei soltanto chiudermi nella mia stanza per metabolizzare quanto appena avvenuto.

«Di cosa parli?»

«Ci siamo appena feriti in modo esplicito, tanto vale completare l'opera» dice con una smorfia sofferente sul viso. «Ora sta a te. Se vorrai possiamo dimenticare le tue parole e continuare come abbiamo sempre fatto. Se no...»

Dimenticarle. Come se non fosse mai successo. Facile per lei, che non si è messa completamente a nudo davanti a una persona.

«Se no, cosa?» Domando davanti a quell'aut aut.

Ci pensa un attimo. «Se no non lo so nemmeno io».

Lo sa, ma non ha il coraggio di dirlo ad alta voce. Perché dopo quello che ci siamo detti è difficile tornare indietro e fingere di non conoscere i nostri corpi e i rispettivi sentimenti, ma è impossibile ignorare quello che è appena successo.

La naturalezza con cui continua a infierire su ciò che provo mi irrita. Non sono i suoi sentimenti a essere stati calpestati, non è l'unica a stare male, perché questo glielo riconosco.

Vorrei soltanto chiudere qui la faccenda ma, e non so davvero come mi esca la cosa, le dico che va bene, dimentichiamo, riprendiamo pure da dove eravamo rimasti, come se nulla fosse accaduto.

Come se fosse possibile.

In qualche modo arriviamo a casa, nel silenzio innaturale che cade su di noi nel taxi, tra un singhiozzo di Elle e un mio sbuffo stanco.

Saliamo a casa devastati, lei fisicamente e io a livello psicologico. Non so dire chi sia messo peggio tra noi due.

Ci dividiamo salutandoci a malapena con un gesto della mano, ansiosi di lascarci alle spalle la giornata. Questo la dice lunga su quanto il nostro rapporto sia cambiato, anche se Elle non lo vuole ammettere.

La sto perdendo, se non l'ho già persa, e non posso fare niente per evitarlo. Non voglio nemmeno, in realtà, perché ho rischiato e ne sono felice, anche se il risultato è stato catastrofico. Ma lo dovevo a me stesso.

Entro in casa e mi fiondo in camera mia, dopo un saluto generale ai miei amici a cui non voglio rivelare nemmeno la minima parte della verità, che grazie a Dio sono distratti da una partita online alla play, ma appena arrivo a destinazione le pareti sembrano opprimermi e mi sembra di soffocare, così con una scusa mi precipito di nuovo fuori dall'appartamento e, istintivamente, mi dirigo verso il terrazzo a una velocità imbarazzante, soprattutto per me. Ringrazio che, qualche tempo fa, mi abbia fatto una copia della chiave.

Entrare nel suo spazio e farlo mio mi dà soddisfazione. Vorrei distruggerlo, dilaniare quella parte di lei per restituirle un po' del mio dolore, ma non ho le forze e so che Elle non capirebbe mai il mio gesto, penserebbe a un semplice dispetto.

Così arrivo sul tappeto e mi sdraio con la testa su un cuscino che ha l'odore del suo shampoo.

Nella mia testa regna il caos e lascio che vaghi libero, senza le restrizioni che camera mia sembrava impormi.

Ripercorro i momenti vissuti oggi con l'amaro in bocca, ma soprattutto i ricordi che ho vissuto insieme a lei. Quelli belli, spartiti tra noi due, che ora sembrano già lontani e dissolti nel nulla. Inafferrabili con le dita e la mente. Eppure, nonostante tutto, non sembrano volersene andare, anche se paiono sbiaditi, appartenenti a un tempo che sembra passato troppo in fretta.

Il respiro si fa irregolare, la vista si appanna e la testa mi scoppia. Il petto sembra implodere in se stesso e io non riesco a reagire. È da tanto che non mi capitava una reazione simile, ma è talmente totalizzante che l'unica cosa che riesco a fare e raggomitolarmi su un fianco nella speranza che passi.

A quanto pare per me è più facile affrontare giovani fans in delirio e lo stress che mi viene buttato addosso quotidianamente, che scoprire che la ragazza che amo non prova lo stesso per me.

Fa male, cazzo. Lo capisco, è un suo diritto, ma mi ha distrutto.

È un colpo non indifferente, soprattutto perché ho sempre fatto fatica ad accettarmi e a sentirmi accettato per quello che sono, ed Elle mi ha fatto capire che no, quello che sono non è abbastanza. Non per lei.

Un calcio nel pieno centro della mia già scarsa autostima.

Con una mano sul petto, a massaggiare lì dove sento un vuoto al posto del cuore, mi addormento.

Mi risveglio dopo non molto quando sento qualcuno che cerca di forzare la porta, ma io ho usato il sistema di chiusura esterna che ho inventato una volta in compagnia di Elle, con uno spago e un chiodo a cui gira attorno.

Ed è lei, che sta scoprendo di non poter accedere al suo posto, perché è anche il mio, che è così che ci si sente a far entrare qualcuno e poi a essere derubati di quello che si è conosciuto.

Vattene, vorrei dirle, ma sembra aver capito che è inutile provare a vincere, la porta la terrà dov'è.

Si arrende e ne sono felice. Non voglio ascoltare il suo dolore, sentirlo che si schianta su di me, sono stufo e ne ho già abbastanza del mio.

Per una volta, dunque, ho vinto io. Ma a che prezzo? È una magra consolazione quando in una sola giornata ho perso così tanto.

E le domande che mi vorticano per la testa sono soltanto due: cos'hai fatto, Elle?

Cos'ho fatto?

Ciao!

È abbastanza chiara come gif, no?

Lo so che dopo un capitolo simile rischio la vita, ma Seb era arrivato a un punto in cui doveva provare a mettere chiarezza alla cosa.

Ci ha provato e direi che gli è andata un tantino male. Ma giusto un po'.

Però almeno ha messo in chiaro chi dei due è il vero temerario della storia, cosa che all'inizio non si sarebbe detto.

Eppure, ancora una volta, Seb ha ceduto e ha dato a Elle quello che voleva. Come finirà la cosa?

A presto,

Un saluto dal mio bunker privato,

Cris

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