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2 ▪️ BENTORNATO ALL'INFERNO

22 dicembre 2018

Spense il motore dell'auto e si strinse nel lungo cappotto nero, percorso dall'ennesimo brivido di freddo. Aveva impiegato più di due ore di viaggio per raggiungere quel luogo ma non si sentiva affatto stanco. Aveva solo freddo. Piccole scosse che continuavano a torturarlo, strisciando sotto pelle fin dentro le ossa. E poi c'era quella strana sensazione che da quando era partito gli torceva lo stomaco. Si diede dello stupido. Stava tornando a casa. All'interno di quelle mura ci sarebbe stata la sua famiglia ad attenderlo... perché avere paura?

Sospirò e staccò il navigatore satellitare dal cruscotto, riponendolo nel cassetto portaoggetti, pensando che quel luogo disperso nel nulla, senza l'aiuto di quell'aggeggio, non lo avrebbe mai raggiunto. Lanciò un'occhiata veloce fuori dal finestrino. Nell'oscurità campi incolti si distendevano a perdita d'occhio. In lontananza, le sagome scure e frastagliate di alcuni alberi e i fari di qualche auto che di tanto in tanto squarciavano il buio.

Aprì la portiera e scese dalla macchina, che aveva parcheggiato sul retro della struttura, vicino ad altre tre vetture. Un intenso profumo di carne alla brace gli riempì le narici e suoni di canti e risate gli giunsero alle orecchie. Provenivano dal campo Rom lì accanto, proprio dietro alla recinzione che circoscriveva l'area di quel sito industriale. Vecchie roulotte, capanne improvvisate con lamiere e pannelli di legno truciolare, stracci appesi a improbabili appendiabiti, biciclette dai telai deteriorati. Il tutto sommerso da valanghe di rifiuti.

Non si distrasse ulteriormente e si incamminò verso l'entrata principale della fabbrica: un enorme capannone abbandonato, dalle grandi vetrate e dai muri scuri, dal quale proveniva una musica violenta.

Una volta di fronte all'ingresso con un pugno batté forte sulla lamiera, sperando che in quel caos qualcuno lo sentisse. Nello stomaco ancora quella strana sensazione. Si sentiva come se, non appena quella porta si fosse aperta, avesse varcato la soglia dell'inferno. O meglio, il suo inferno. Tutti i peccati riuniti in un solo girone in un luogo affascinante quanto pericoloso, caldo e accogliente quanto gelido e brutale. Un rifugio nel quale si era ripromesso di non tornare... ma di cui da troppo tempo ne sentiva nostalgia.

La musica si fece ancora più assordante non appena il portone si aprì.

Davide era tornato. Il figliol prodigo aveva finalmente fatto ritorno a casa e Manuel, detto "il King" non ci poteva credere. Per diversi secondi lo fissò incredulo, in piedi sulla soglia. Era passata una vita dal loro ultimo incontro, ma osservandolo sembrava non fosse trascorsa nemmeno una settimana. Stessa corporatura gracile, stesso sguardo vispo, e persino lo stesso taglio di capelli: lunghi fino alle scapole sul lato destro e rasati su quello sinistro.

Il King invece era cambiato. Gli anni in carcere l'avevano consumato, dentro e fuori: lo sguardo spento e scavato, e gli zigomi ancora più pronunciati, l'avevano reso un'altra persona. Persino i lunghi capelli castani, un tempo lucenti, erano diventati crespi e rovinati.

Solo dopo un po', accennando un sorriso, indietreggiò, lasciandolo entrare. Non era mai stato un tipo di molte parole, il King, ma in compenso un grande leader, che Davide stimava.

Ricambiò il saluto con un cenno del capo, e con cautela avanzò nella penombra, calpestando i resti di una festa ormai finita: bottiglie di vetro, mozziconi di sigaretta, cocci e siringhe.

La maggior parte della gente ormai se n'era andata, ma non i suoi fratelli: compagni di avventure e di sventure con i quali aveva condiviso gli anni più belli della sua vita. Anni vissuti sul filo del rasoio, sospesi nel vuoto, in bilico sopra al baratro della follia.

Riconobbe Vale e Sami, accucciati a terra, con la schiena appoggiata contro a una fila di bancali. Mezzi nudi e con il naso sporco di polvere bianca, dormivano abbracciati. Di fronte a loro, un altro uomo collassato a terra, con gli occhi sbarrati e la bocca semiaperta: "Fox".

Continuando ad avanzare nella penombra, diversi metri più in là, ingobbito su una sedia di plastica bianca, riconobbe l'inconfondibile chioma bionda e riccia di Claudio, detto il "Draugen". Tenendo in una mano una sigaretta e nell'altra una bottiglia di birra, a occhi chiusi muoveva la testa a ritmo di musica. Davide si chiese come facesse a non spaccarsi i timpani così vicino alle casse.

Infine, seduta a qualche metro a lui, c'era Marina, la sorella del King, detta "Mary". Non appena lo vide gettò lo spinello a terra, per poi corrergli incontro e buttarsi tra le sue braccia, appiccicandosi a lui come una piovra. Indossava un buffo pigiama di colore rosa, che emanava un odore nauseante.

Seccato, Davide la prese per le spalle, cercando di togliersela di dosso. Non le era mai piaciuta quella ragazza, sebbene lei, per qualche strana ragione, a lui vi fosse molto legata. Riuscì ad allontanarla, scansandola da un lato. Lei (apparentemente fuori di sé come tutti gli altri) emise un verso stizzito e corse via.

Il ragazzo si andò a sedere su una pila di bacali barcollanti e poco dopo l'ombra del King lo sovrastò. Sollevò il capo, incontrando, oltre alla sua figura, anche due paia di gambe lunghissime, sode e nude. Due belle fanciulle completamente svestite, gli erano avvinghiate addosso come edere rampicanti. Nelle mani del compagno, appoggiate sulle spalle delle ragazze, una bottiglia di birra e un sacchetto di polvere bianca. «Un piccolo regalo di benvenuto?»

«La mora va benissimo.»

«Lei magari te la presto più tardi.»

«Allora solo un po' di birra.»

Con una smorfia delusa il King posò sia il sacchetto che la bottiglia a terra, ai piedi dell'amico, che lo ringraziò con un cenno. In compagnia delle due signorine si allontanò, scomparendo nella penombra.

Davide assaggiò la sua birra e iniziò a rilassarsi.

Eccola casa sua. Non quello squallido luogo: quella era una vecchia fabbrica come tante, che avrebbero occupato al massimo per una nottata. Loro erano la sua casa: i suoi fratelli. Dopo "l'incidente" le loro vite avevano preso direzioni diverse e temeva di averli persi per sempre. Vederli di nuovo uniti lo fece sentire vivo, come non lo era da troppo tempo.

«Sapevo che alla fine avresti accettato il mio invito.» Finalmente il Draugen, accorgendosi della sua presenza, l'aveva raggiunto, portando con sé la sedia ma prendendo posto accanto a lui, sulla pila di bancali. «Un po' tardi, ma almeno sei arrivato.»

«Ma dove caspita mi avete fatto venire?» Tossì. I muri di quell'enorme stanza erano scuri, divorati dall'umidità, e l'aria era intrisa del forte odore dei fumi e dell'alcol, che a quella festa dovevano essere scorsi a fiumi.

«Non ti piace qui?»

«Non è che non mi piace, è che per trovare 'sta fogna di posto ho dovuto usare il navigatore e ci ho messo più di due ore. Non potevamo rincontrarci a Trento come i vecchi tempi?»

Da una tasca del giubbotto il Draugen estrasse un sacchetto di polvere bianca che svuotò sulla sedia.

«Sicuro di non volerne un po'?»

«Oggi no, magari un'altra volta.»

L'altro lo guardò sorpreso. «Che ti prende?»

«Ho promesso a Tasha che avrei smesso.»

Il Draugen scoppiò in una fragorosa risata, prendendo una carta di credito e una banconota dalla tasca dei suoi Jeans. «Ecco perché sei diventato così noioso. "No, non la voglio la droga", "'sta fogna di posto"» imitò in maniera buffa la voce di Davide. «Una volta non eri così. A forza di stare con quella lì stai diventando come lei.»

L'amico lo ignorò, gustandosi un sorso della sua birra, e il Draugen si fece nuovamente serio, rigirandosi la carta di credito tra le dita e fissando il vuoto. «E comunque siamo venuti in questo posto perché il King si è appena trasferito a Quarto Oggiaro, che è poco lontano da qui.»

Ancora una volta Davide rimase in silenzio. Il suo sguardo si posò su Mary, ora accucciata a terra, in un angolo, in lacrime. Con la testa china e il volto seminascosto dietro a una chioma di capelli ramati, con una mano continuava ad accarezzare il gattino peloso sulla maglia del pigiama.

«Che le è successo?» Domandò, indicandola con un cenno del capo.

«Un mesetto fa il King ha ammazzato il suo gattino. Una mattina lei l'ha trovato impiccato al tubo della doccia e da quel giorno quell'assurdo pigiama non se lo è più tolto di dosso.»

«Quindi piange per uno stupido gatto?»

Il Draugen non rispose, non aveva voglia di addentrarsi in certi argomenti. Ingobbito sulla sedia di plastica, con cura prese a prepararsi le dosi.

«Stiamo organizzando una celebrazione tra un paio di giorni. Ci sarai?»

«Quando?» Bevve un altro sorso di birra.

«Pensavamo la notte di Natale.»

«In questa zona?»

«No, non credo. Ma non lo sappiamo ancora.»

«Mah sì... perché no.»

Raddrizzò la schiena, e roteò il capo massaggiandosi il collo indolenzito. Il suo sguardo si posò sugli avambracci del suo interlocutore, ricoperti di cicatrici. «Ivan e Tasha...»

Davide sospirò, portandosi una ciocca scura dietro all'orecchio. «Lascia stare. Ho inventato una scusa patetica per venire qui. Non appena sarò a casa Tasha mi farà una ramanzina...»

«Immagino. Sicuro di non volere un po' di polvere magica?»

A quella seconda offerta la sua mente per un attimo vacillò. Ecco perché non sarebbe dovuto tornare. Ma ormai era lì, avvolto (o meglio intrappolato) nel caldo abbraccio del suo personale inferno. Pericoloso e bellissimo.

«Una striscia. Una sola.»

L'amico sorrise compiaciuto. «Ottimo.» Gli passò la banconota arrotolata, che l'altro prese tra le dita, seppur ancora un po' titubante.

«Cosa aspetti? Hai paura che la tua fidanzatina lo venga a scoprire?»

"No. Una sola striscia. E non succederà un bel niente."

A quel punto, non esitò ulteriormente. Chiuse la narice con l'indice e inserì l'estremità della banconota nell'altra. Si chinò sulla sedia e aspirò.

Le vite di sette persone si erano di nuovo mescolate in un pericoloso cocktail di perdizione e follia. Niente avrebbe spezzato il sottile filo che le univa. Peccato che quel cocktail, per uno di loro, sarebbe stato letale.

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