Capitolo 6
Faith
Le cicatrici sono i segni che la vita ci lascia addosso. Certe cicatrici durano mesi, altre un'esistenza intera, e tu ti ritrovi a guardarle e a chiederti perché debbano restare lì.
Le cicatrici diventano tali quando non fanno più male, quando il dolore diventa solo un fantasma che ci portiamo attaccato al collo perché crediamo che sia giusto ricordare.
La gente ha cicatrici in posti impensabili che, con molte probabilità, non vedremo mai. Sono mappe nascoste che portano a luoghi sconosciuti e inesplorati, lettere consumate dal tempo scritte in giorni di pioggia.
Ci sono cicatrici tangibili e cicatrici segrete, quelle che non fanno più male e quelle che aspettano solo un piccolo sollecito per riprendere a sanguinare. C'è gente che le cicatrici se le porta dietro come trofei e chi, invece, le nasconde perché, se solo la luce le illuminasse, si scoprirebbe che sono più brutte di quello che si credeva e riprenderebbero a fare male.
Ci sono cicatrici che dovrebbero semplicemente trasformarsi in rondini e volare via, perdersi tra le nuvole per non tornare più. Certe cicatrici si prendono tutto di noi o siamo noi che diventiamo le nostre cicatrici, la differenza è così sottile da potercisi perdere.
Le cicatrici sono solchi profondi tra le montagne della vita, onde increspate in un mare di lacrime, crepe su strade scoscese che siamo costretti a percorrere, ancora e ancora, per ricordarci che i segni ce li portiamo addosso ma quelli che, invece, ci portiamo dentro fanno sempre più male; perché le cicatrici sulla pelle si rimarginano, lasciano segni che ripercorrerai con le dita, che ti ricorderanno tempi passati che non torneranno, ma le cicatrici sull'anima... quelle restano aperte per sempre, sono varchi che danno su posti infinitamente bui e sarai costretto a ritornarci ogni volta che ti affaccerai su te stesso, ogni volta che l'anima tremerà un po' di più.
In medicina le cicatrici sono solo tessuti fibrosi che si vengono a formare per riparare una lesione; in poche parole il nostro corpo si protegge, si rigenera da solo, risana e richiude una ferita che, in caso contrario, resterebbe aperta e sarebbe soggetta ad infezioni. Nella vita, invece, le cicatrici sono segni di un tempo che vorremmo non tornasse, segni di eventi che non hanno lasciato ferite solo sulla nostra pelle ma hanno spezzato qualcosa dentro di noi e sono le cicatrici sull'anima che riprendono a sanguinare quando meno te lo aspetti.
Di cicatrici ne avevo viste così tante da saperne distinguere il tipo a chilometri di distanza ed era proprio per quel motivo che non riuscivo a non pensare alla pelle segnata del barista del Rammer Jammer.
La sua pelle e le sue cicatrici non erano di certo le prime cose che i miei occhi avevano notato ma, di certo, erano quelle che più mi avevano destabilizzata insieme ai suoi occhi impenetrabili. La pelle delle braccia, lasciate scoperte dalla maglia a mezze maniche, mi aveva tanto ricordato il cielo di notte e le sue cicatrici mi erano sembrate stelle pronte ad essere sfiorate. Ero convinta che dietro quella mappa di stelle che si portava sulla pelle ci fosse una storia da dover raccontare e che meritava di essere ascoltata, dietro la grande cicatrice che si portava negli occhi c'era qualcosa di molto più grande, qualcosa di più.
Era proprio nei suoi occhi verde scuro che avevo intravisto la cicatrice più grande, invisibile a qualsiasi sguardo ma non al mio che era sempre in cerca di quel qualcosa in più ed ero così sorpresa di averlo trovato in lui, in uno che non era stato capace di essere gentile nemmeno con una sconosciuta, che proprio non riuscivo a smettere di pensarci, di arrovellarmi il cervello nel disperato tentativo di capire il motivo del suo comportamento così scostante e diffidente.
Affondai le mani nella sabbia fredda e alzai lo sguardo verso il cielo stellato. Ascoltai il mare parlarmi una lingua che non conoscevo, i granelli di sabbia solleticarmi le dita e la brezza estiva della notte carezzarmi la pelle, mentre la sua immagine tornava ad affollare i miei pensieri. Era bello, tanto da far male agli occhi, tanto da attirare ogni sguardo femminile su di sé come fosse una calamita; aveva gli occhi verdi, o marroni, o entrambi ed erano così scostanti e freddi da darmi i brividi anche in quel momento, mentre erano lontani da me; i capelli neri come la pece e la barba incolta marcavano i suoi lineamenti mascolini, conferendogli un aspetto ancora più attraente e seducente. Ma non era la sua bellezza disarmante ad avermi scossa, non erano i suoi capelli corvini o le labbra perfette, i muscoli delle braccia o lo sguardo sfuggente. No, il suo aspetto non centrava niente con l'insistenza dei miei pensieri che proprio non ce la facevano a lasciarlo andare; era il buio che sembrava portarsi dentro e sulla pelle ad avermi destabilizzata, era quello sguardo arrabbiato ad essermi entrato sotto pelle, ad aver bruciato tutto ciò che aveva trovato sulla sua strada. Il fuoco che aveva negli occhi poteva essere solo una conseguenza della vita e le cicatrici che marchiavano la sua pelle una dimostrazione di quanto essa può essere difficile. Quelle cicatrici, quella rabbia e quel gelo erano riusciti a toccare me, una perfetta estranea che di sentire certe cose era abituata, che di essere toccata dai sentimenti delle persone non si stancava mai.
La mia mente si era persa, cullata dal rumore delle onde e l'odore di salsedine ma qualcosa che vibrava nella mia tasca mi riportò alla realtà.
«Pronto?» Portai il telefono all'orecchio senza controllare chi fosse.
«Scommetto che ti stai godendo la spiaggia e le stelle!»
La voce di Ethan mi fece sorridere. Non lo vedevo da sole 48 ore e già sentivo la sua mancanza. «Ed io scommetto che sei sul terrazzo di casa tua, con una sigaretta tra le dita ed un buon bicchiere di vino rosso.»
«Mi conosci così bene, speedy.» lo sentii sorridere e lo immaginai mentre scuoteva la testa e il suo ciuffo restava immobile. «Adesso dimmi come sta andando lì giù.»
«Questo posto è meraviglioso, Ethan. Vivo in una baita sulla spiaggia, la mia vicina di casa è la persona più dolce che abbia mai incontrato ed ho già trovato lavoro in un bar» ero entusiasta di come fosse iniziata la mia nuova vita e volevo che lui lo sapesse, che si tranquillizzasse perché stavo davvero bene lì. «Ho trovato il mio posto nel mondo!»
«Non lo dici solo per non farmi preoccupare, vero?» mi domandò, apprensivo come sempre. «Se ti senti sola, potrei prendere delle settimane libere a lavoro e...»
«Ethan,» lo interruppi. «sto bene, davvero. Credo sul serio di aver trovato il mio posto, quello dove potermi sentire libera, dove poter trovare me stessa» alzai gli occhi al cielo e contemplai la bellezza di quel posto. «Il cielo a Seattle non è come qui» sussurrai, come se gli stessi svelando un segreto. «Non ho mai visto così tante stelle in tutta la mia vita.»
Percepii il suo sorriso anche da dietro un telefono e mi si scaldò il cuore. «Voglio solo che tu non ti senta sola.»
«Non lo sono.» lo rassicurai. «Non devi preoccuparti per me, sto bene. Starò bene qui.»
Sbuffò. «Sono il tuo migliore amico, è mio compito preoccuparmi per te.»
Risi. «Mi manchi anche tu, testone.»
«Tu non mi manchi» ribatté. «Non mi manchi per niente.»
Non lo avrebbe mai ammesso, perché lui era così: ti voleva bene anche se non te lo diceva ed io non avevo mai sentito il bisogno di sentirglielo dire perché mi bastavano i suoi abbracci improvvisi, i baci che mi lasciava sulla punta del naso ed il suo essere sempre così protettivo.
«Hai sentito Iris?» mi domandò, deviando il discorso sulla mia migliore amica, quella che mi avrebbe staccato la testa quando avrebbe saputo della mia partenza.
«Non ancora. Tu l'hai sentita?»
«L'ho sentita ieri e so cosa stai per chiedermi quindi no, non le ho detto della tua partenza improvvisa perché spetta a te farlo e perché ucciderebbe prima me.»
«Stanne certo, quindi tieni la bocca chiusa fino a quando non sarò pronta ad affrontarla. Okay?»
«Va bene speedy, ma devi dirglielo. Tra qualche settimana tornerà a Seattle per qualche giorno e a quel punto non potrò più mentirle» mi avvisò, con il suo solito tono di rimprovero. Da quando era diventato così serio?
Mi passai una mano tra i capelli, districando i nodi mentre continuavo a guardare il cielo. «Credi che si arrabbierà?» Era una domanda stupida, lo sapevo.
«Stiamo parlando di Iris, certo che si arrabbierà, urlerà e romperà qualcosa ma poi capirà.»
Annuii anche se non poteva vedermi. Iris avrebbe capito.
«Andrà tutto bene, Faith. Ti vuole bene, sei la sua migliore amica e capirà il motivo per cui non glielo hai detto subito.»
«Tu avresti capito?» gli domandai, ma già conoscevo la risposta.
«No, ma io non sono Iris.»
«Tu sei un idiota!» lo presi in giro.
«E tu sei sempre la solita stronza!»
Buttai la testa all'indietro e risi di gusto, perché tra noi era sempre stato così fin da ragazzini.
«Adesso devo andare» mi annunciò. «Ho una bella ragazza da soddisfare stanotte.»
Alzai gli occhi al cielo. «Mi chiedo quando cambierai.»
«Mai, speedy, io non cambierò mai!» Si raccomandò un'ultima volta e poi staccò la chiamata.
Mi mancava. Ethan ed Iris erano la mia famiglia da un tempo così lungo che saperli così lontani da me mi faceva mancare il respiro. Erano sempre stati al mio fianco, due pilastri importanti nella mia vita così precaria; erano la mia luce, avevano illuminato le mie giornate più buie, erano stati i cuscini dove poggiare la testa in notti infinite, la cura a tutte le cicatrici che avevo sull'anima.
Iris si sarebbe arrabbiata, lo sapevo e la cosa mi spaventava. Non le avevo mai mentito, non avevo mai nascosto niente a lei e farlo in quel momento mi metteva in uno stato di agitazione. La stavo tenendo fuori ma proprio non me la sentivo di interrompere la sua vita, perché sapevo che se le avessi parlato della mia partenza, lei avrebbe abbandonato gli studi e New York per venire da me, per esserci anche in quel momento. Iris avrebbe cercato di convincermi a restare oppure avrebbe fatto le valige e sarebbe partita con me. Non potevo permettere che succedesse, non potevo lasciare che mettesse in pausa la sua vita per aiutarmi a riprende in mano la mia. Era una cosa che dovevo fare da sola, era un percorso che dovevo intraprendere senza di lei, senza Ethan.
Restai in riva al mare ancora per un po', godendomi un cielo così limpido da lasciarmi senza parole. Ero lì da ore, forse, cercando una risposta nelle stelle che mi guardavano, nel mare che continuava ad infrangersi sulla battigia e nel vento leggero che mi scompigliava i capelli. Sapevo di non poterla trovare su quella spiaggia, non ancora almeno, ma essere lì a godermi quel momento era già abbastanza.
Mi alzai lentamente, guardai un'ultima volta il cielo e poi mi voltai per tornare in casa ma, quando alzai lo sguardo, le mie gambe si bloccarono sul posto e il mio sguardo si assottigliò. Indossava una maglia nera con sopra una camicia a quadrettoni arrotolata fino ai gomiti, un jeans scuro che fasciava le gambe lunghe e il suo sguardo di ghiaccio. La notte copriva le sue cicatrici come se fossero segreti da non poter rivelare. Fu quando lo vidi su quella spiaggia che capii che era lo sconosciuto con cui avevo condiviso l'alba. Il tizio del Rammer Jammer era il mio vicino di casa.
Mi guardò attentamente, mentre continuava ad avvicinarsi a passo lento, come se non si aspettasse di trovarmi lì, come se la mia presenza lo infastidisse. Non dissi nulla, continuai ad osservarlo fino a quando non mi passò accanto, inondandomi con il suo profumo: menta e tabacco, un connubio che mi diede alla testa.
Mi aveva ignorata, mi aveva guardata ed era passato oltre come se non fossi lì, su quella spiaggia.
Aggrottai la fronte e mi voltai di scatto. «Ma che problemi hai?»
S'irrigidì ma non si voltò. «Non ti hanno mai detto di non parlare con gli sconosciuti?» disse, atono in voce.
«A te non hanno mai detto che non si risponde ad una domanda con un'altra domanda?» Ero infastidita dal suo modo di fare, dal suo sguardo freddo e indifferente che, in quel momento, non riuscivo a vedere perché continuava a darmi le spalle.
Non rispose, si limitò ad infilare le mani nelle tasche dei jeans e guardare in alto, verso il cielo.
«Mi hai dato dello stronzo.» affermò, con voce irritata.
«Ti stai comportando da stronzo e nemmeno mi conosci» ero così infastidita che non riuscii a trattenere il tono della voce accusatorio. «Mi aspettavo che i miei vicini di casa mi dessero il benvenuto con una torta o, meglio ancora, una bottiglia di vino rosso.»
«Non sono quel tipo di vicino.»
«No, infatti. Tu sei il tipico vicino stronzo, di quelli che ti rubano il parcheggio e portano il proprio cane a fare i bisogni nel tuo giardino.»
Si voltò verso di me e mi guardò con un sopracciglio alzato. Aveva gli occhi di un verde così scuro che sembravano confondersi con il buio della notte. «Ti hanno mai detto che parli troppo?»
Inclinai il capo e sorrisi. «Qualche volta.»
Scosse il capo ma non sembrava più infastidito, sembrava... divertito. L'angolo destro della bocca era leggermente tirato in un ghigno impercettibile e mi sembrò ancora più attraente. Era con quello che rimorchiava o con i suoi occhi?
«Da domani saremo colleghi, oltre che vicini di casa, quindi mi sembra giusto presentarci» gli dissi, aspettando che lui dicesse qualcosa di pungente ma se ne restò in silenzio, così continuai: «Faith. Io mi chiamo Faith.»
Lo vidi assottigliare lo sguardo e guardarmi ancora più attentamente, ma senza dire una parola. Quel tizio era strano e, visto che era intenzionato a continuare con quel suo comportamento da stronzo, gli feci un piccolo gesto con il capo e mi voltai per tornare in casa.
Feci pochi passi prima di sentire di nuovo la sua voce. «Gabriel.»
Sorrisi soddisfatta ma non mi voltai, continuai a camminare fino a quando non fui sul pianerottolo di casa, aprii la porta ed entrai, chiudendomi la porta alle spalle.
Gabriel. Non potei fare a meno di pensare che quel nome, associato a lui, fosse l'antitesi più bella che avessi incontrato.
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Ricordate il capitolo 1? Abbiamo scoperto il significato del nome "Faith".
Qualcuna ha capito perché lei pensa che il nome Gabriel sia una contraddizione associato alla sua persona?
Vi lascio con questa piccola domanda ❤️
Ary.
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