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Epilogo

«Quindi, alla fine, sei riuscita a vincere la tua paura e salire sul palco. Credi che la presenza di quel ragazzo abbia influito nella tua decisione?»

Apro gli occhi, riportata violentemente alla realtà dall'uomo seduto accanto a me. Giro il viso verso di lui osservandolo con sguardo torvo.
«Davide ha influito su tutta la mia vita da quando l'ho conosciuto» preciso marcando il suo nome e accigliandomi. «L'ha resa migliore e mi ha fatto capire che è inutile nascondersi dietro l'ombra dei morti.»

«Oh, capisco» mormora l'uomo, scrivendo qualcosa sul piccolo quaderno che tiene sulle ginocchia accavallate.
Mi sporgo leggermente dalla poltrona, cercando di captare anche solo una parola.
Lui solleva gli occhi su di me, coprendo il foglio con la mano e sorridendomi amabilmente.
«Scusami se te lo chiedo, ma... Se questo Davide ti ha aiutato così tanto, perché sei qui?»

La sua domanda è così schietta che faccio fatica a trovare una risposta.
Che ci faccio qui, in questa stanza, a raccontare di me a un perfetto sconosciuto? A mostrare le mie debolezze; le mie cicatrici e le ferite ancora aperte?
Ripenso alle parole di mia madre. Alla preoccupazione impressa sul suo volto fino a pochi giorni fa.
Senza quasi accorgermene, do una rapida occhiata al piccolo zainetto nero sull'attaccapanni.

Ho passato settimane orribili, chiusa nel mio silenzio, quasi ventiquattro ore su ventiquattro stesa sul letto, a piangere.
Ho versato tutte le lacrime che una persona normale può contenere, per poi sentirmi ancora più vuota e sola, e con una grande voglia di urlare contro il mondo intero.
È stato in quel momento, credo, quando la tristezza ha fatto spazio alla rabbia e il dolore è diventato insopportabile, che mia madre mi ha convinto a fare la terapia.

«Mi ha abbandonata» dico in un sussurro. «Se ne è andato, e con lui, il suo sostegno. Ora è peggio di prima; non ho niente a cui aggrapparmi.
«La mia famiglia e Massimo mi stanno sempre accanto, ma non è la stessa cosa. Ho perso una parte di me che è impossibile recuperare» concludo, sorprendendomi della mia franchezza. È come se quelle parole fossero uscite in automatico, senza neanche darmi il tempo di elaborarle.

«No, non puoi recuperarlo» mi da ragione, «ma puoi, in qualche modo, colmare quel vuoto. Con l'amore dei tuoi cari, magari.»
Scuoto la testa.
«Questo non significa cancellarlo» continua.

«Lo so, ma...» prendo un respiro e volgo gli occhi alla finestra; a quel sole che ancora illumina le giornate, nonostante non scaldi più la mia vita. È tutto così freddo ora, ma non potrei mai cancellare quello che Davide ha significato per me.
«Forse non sono ancora pronta a lasciarlo andare» ammetto in un sussurro, sorprendendo me stessa. Guardo di nuovo l'uomo accanto a me, che continua a osservarmi con quegli occhiali sempre pronti a scivolargli sul naso. Sta in silenzio e così anch'io, chiedendomi se ho osato troppo; se mi sono spinta oltre una linea immaginaria che neanche sapevo esistesse.
Alla fine chiude il suo taccuino, sistemandosi le lenti e arricciando le labbra in un sorriso di convenienza.

«Il tempo a nostra disposizione è finito, ma in due settimane di terapia sei migliorata tantissimo, te lo posso assicurare» dice alzandosi e avvicinandosi alla sua scrivania. Scendo dal lettino pensando ancora una volta a quanto inutili siano queste sedute dallo psicologo. Nelle quattro volte che mi sono presentata all'appuntamento ho parlato quasi esclusivamente io. Lui scriveva; solo ogni tanto alzava la testa e mi guardava, come a controllare se stessi dando di matto di lì a poco, e facendomi domande più precise sullo stato d'animo di quei momenti che avevo vissuto.

L'unica cosa buona, dovetti ammetterlo mentre scendevo le scale del grande palazzone, era che raccontargli tutta la storia di quest'ultimo anno mi ha fatto rivivere i momenti che ho passato con Davide.

L'amore che ho provato e che sempre proverò per lui.

Continuo a camminare senza una meta ben precisa, finché una leggera brezza autunnale mi fa alzare il capo dall'asfalto e dalle mie scarpe facendomi accorgere di essere alla stazione delle corriere. Davanti a me vedo l'autobus per Pergine pronto a partire e il mio istinto mi fa agire senza pensare molto al perché delle mie azioni. Mi faccio fare un biglietto direttamente dall'autista per evitare di cambiare idea, e arrivo a malapena a trovare un posto a sedere che l'uomo alla guida mette in moto.

Cerco di godermi il paesaggio senza pensare alla preoccupazione di mia mamma nel non vedermi arrivare a casa, e nel mentre, la mia mente provata vaga, trasportata dalle parole dello psicologo che ancora aleggiano su di me.

Stingo di più al mio corpo lo zaino che da qualche settimana mi porto sempre dietro. Ci appoggio il mento, ma questo fa aumentare ulteriormente il mio dolore.

Tutti i ricordi dei miei momenti passati con Davide mi passano veloci davanti agli occhi, facendomi soffermare qualche secondo in più su quelli che hanno avuto l'impatto più significativo: il nostro primo bacio, magico per entrambi, i nostri abbracci, le nostre risate... Pure i litigi sembrano una preziosa rarità ora che tutto è finito.

Cerco di trattenere le lacrime che pungono i miei occhi e lottano per uscire, pensando a tutto tranne che a lui; mi focalizzo su le persone che hanno intrapreso il mio stesso viaggio: alcuni signori anziani seduti dietro il conducente, animati in una conversazione, una donna di colore con i suoi due figli, un gruppo di ragazzi in fondo all'autobus con la musica a tutto volume, come a voler far capire di essere i padroni di quell'automezzo. Non molti in realtà, ma la tattica sembra funzionare fino a quando non arrivo a destinazione.

Scendo subito dopo la madre con i suoi figli e appena tocco il marciapiede, il mio cuore si stringe. Non avrei mai creduto che questi posti, una volta luogo delle mie felicità, ora potessero darmi tanto malessere.
Mi metto lo zaino in spalla e inspiro l'aria, cercando di mantenere un'espressione il più neutrale possibile. Non ho intenzione di crollare proprio adesso, davanti a sconosciuti che aspettano l'arrivo della loro corriera o del treno.

Riesco a controllarmi distraendomi con i vari edifici e monumenti che incontro: la chiesa dei frati con di fronte la fontana, il lungo viale leggermente oscurato dalle fronde degli alberi, una scuola materna e il parco; dall'altra parte della strada ricordo esserci il teatro, ma mi costringo a non darci neanche un occhio. I ricordi rischierebbero di inondarmi un'altra volta, e non riuscirei a sopportarlo.

Passo davanti a una fioreria e d'istinto, come ormai tutte le cose che faccio da quel giorno, entro. Controllo i risparmi rimasti e mi faccio dare i fiori più belli che posso permettermi. Aspetto pochi minuti, il tempo di unirli tutti in un bouquet, ed esco.

Ritorno a camminare per poi fermarmi qualche metro più lontano. I cancelli del cimitero sono aperti; forse avrei sperato che non lo fossero per avere la scusa di tornare indietro, a casa. So di non essere pronta, ma in realtà, non sono mai stata pronta a fare nulla nella mia vita; c'era sempre qualcuno che doveva spronarmi perché io, da sola, il coraggio per fare le cose non l'ho mai trovato.
Ma questo è diverso; è una cosa che so di dover fare. È per il mio bene.

Sospiro ed entro, stringendo tra le dita il mazzo di fiori colorati e profumati. Spero possano piacergli.

Mi incammino tra le lapidi silenziosa come un fantasma, osservando di tanto in tanto alcuni parenti venuti a fare compagnia ai propri cari, finché non raggiungo la sua. Appena vedo la foto mi sembra di cadere in un limbo. Non scoppio immediatamente in lacrime come mi ero immaginata; mi inginocchio solo, togliendo i fiori più secchi dall'unico vaso presente, e inserendo con difficoltà i miei.

"Serve acqua" penso, e mi alzo come un automa per riempire uno dei piccoli annaffiatoi a disposizione. Mi occupo della cura di quelle piante appena comprate con molta più dedizione di quanto sarebbe necessario. So che lo sto facendo per paura di incrociare i suoi occhi; per paura che tutti i momenti belli passati insieme possano di nuovo travolgermi appena alzo lo sguardo.
Ma poi mi sembra di ignorarlo con questo comportamento, perciò appoggio l'annaffiatoio accanto a lui e lo guardo. Osservo il suo viso come se fosse la prima volta e mi meraviglio quando mi ritrovo a chiedermi se anche da vivo era così bello.
La risposta mi arriva subito: sì, lo era. Era ancora più bello di quanto una semplice foto possa mostrare: i capelli sempre scompigliati e quel sorriso sincero che gli illuminava il viso.

Gli occhi mi si riempiono di lacrime e, incapace di trattenerle, le lascio scivolare lungo le guance e sul mento; alcune scendono fino al collo e solo a quel punto ci passo una manica sopra per asciugarle.

Quando mi sono un attimo calmata, prendo lo zaino e tiro fuori il suo quaderno. Suo padre me lo ha dato qualche tempo dopo il funerale. Distrutto anch'esso dal dolore per la perdita dell'unico figlio, aveva comunque voluto fare visita alla nostra casa per darmi quel regalo.

Qualche giorno prima, mi aveva rivelato, prendendo coraggio, era entrato nella sua camera. Non aveva spostato nulla, ma la sua attenzione era subito caduta sul suo zaino aperto da cui si intravedeva quel piccolo block notes. Mi aveva rivelato di aver subito pensato a me; sapeva cosa contenesse, e sapeva che lui avrebbe voluto che lo avessi io.
Così lo avevo preso, ma non ho mai avuto la forza per scoprire cosa c'era scritto; l'ho lasciato nello zaino, e da quel momento li porto entrambi sempre con me, come per sentirlo più vicino.

Solo ora mi accorgo di voler capire cosa Davide mi ha voluto lasciare. Perciò lo apro e, come mi aspettavo, lo trovo pieno di scritte e cancellature. Lo sfoglio per qualche secondo, non riuscendo a comprendere bene cosa possa significare, finché non raggiungo una serie di fogli fin troppo familiari. Sono staccati dal resto del blocco e con qualche piega. Capisco subito perché. È la nostra canzone, quella che avevamo cantato alla festa di ferragosto; quella che, mesi fa, avevo stropicciato con rabbia per la paura di aver fatto un torto a Marianne nel cantare per la prima volta.

Illuminata da un pensiero scorro di nuovo il quaderno, facendo maggior attenzione alle scritte, e accorgendomi, in fondo a tutto, della presenza di una serie di fogli pentagrammati, numerati in base alle pagine precedenti.

"Sono canzoni" mi accorgo meravigliata. Canzoni scritte per me, che avremmo dovuto cantare insieme dopo l'operazione.

Era andato tutto male un'altra volta.
Quando il medico era uscito dalla sala operatoria, avevo già il presentimento che qualcosa fosse andato storto. Era una delle operazioni meno complesse, avevo letto; mezz'ora era più che sufficiente, eppure quel giorno era passata molto di più e nessuno ci aveva dato notizie. Avevo creduto che l'edema fosse peggiorato nell'ultimo periodo - l'avevo sentito molto più affaticato nel parlare - magari trasformandosi in un nodulo importante o in qualcosa di ancora più grave. Mi ero preparata a sostenerlo anche se non avrebbe più potuto parlare normalmente o se sarebbe stato costretto a rimanere attaccato a qualche macchina, ma mai avrei pensato di dover sentire quelle parole.
«C'è stato un problema durante l'intervento» aveva annunciato lo specialista.
A quel punto già avevo capito, e tutto intorno a me sembrò capovolgersi. Sentii il medico continuare a spiegare, anche se ormai facevo difficoltà a dare un significato alle sue parole: allergia, componente dell'anestetico, furono le uniche frasi che si impressero nella mia mente.
Non ne avevamo idea; nessuno ne aveva, né Davide né suo padre, e i medici si erano fidati delle sue parole.

Avevo sentito parlare ancora di stessi casi, ma avevo creduto che, nel 2015, fossero eventi più rari di quanto i giornali volevano farci credere.
Mi sbagliavo.

Io, non so con quale forza di volontà, ero rimasta in piedi, sconvolta, intontita, sperando che fosse un incubo e che, proprio Davide, da un momento all'altro mi svegliasse e mi stringesse a sé.
Sentii, invece, suo padre crollare sulla sedia vicino a me; urlare dalla disperazione e pregare Dio affinché prendesse lui e non suo figlio, pregare il medico di fare il possibile per salvarlo. Ormai era tardi, gli fu detto, e in quel momento mi sentii come spezzata in due.

Mi sento ancora spezzata in due; mi sento condannata a una specie di maledizione.

Leggo le frasi del quaderno. Chissà se pensava a me quando scriveva.

So che avrebbe voluto che io riprendessi in mano la mia vita di prima, con o senza di lui. Era il suo ultimo desiderio, me lo aveva fatto promettere la sera prima dell'intervento e anche prima che venisse portato in sala operatoria.
Fino ad ora, non sapevo se l'avrei mai mantenuta, ma vedere tutte quelle canzoni nate per mano sua mi dà l'impressione che cantarle sia l'unico modo per farlo ritornare ancora vicino a me.

Con un leggero sorriso, richiudo il quaderno rimettendolo nello zaino. Mi chino per dare un bacio alla sua foto, augurandomi che, dovunque sia, abbia finalmente trovato la felicità. Riporto l'annaffiatoio dove lo avevo preso e butto i fiori secchi nel cassettone dei rifiuti appena fuori il cimitero.
Mi giro un'ultima volta a osservarlo da lontano e in quel momento il vento si alza scompigliandomi i capelli. Lo sento scivolarmi sul viso, come se fosse una carezza, e sulla bocca; per un attimo, solo pochi secondi, mi sembra di sentire ancora le sue labbra morbide sulle mie.

«Prenditi cura di lei come hai fatto con me» sussurro sicura che possa udirmi.

Dopodiché mi giro; il cuore palpitante per quello che il futuro mi vorrà riservare, e finalmente mi sento serena, conscia del fatto che Davide e Marianne saranno sempre con me, qualsiasi strada io intenda percorrere.

Eccoci giunti alla fine di quest'avventura.
È sì, tutta la storia è il racconto di Clarisse al suo psicologo durante le quattro sedute. Una morte, quella di Davide, che ha sconvolto la sua vita una seconda volta; eppure è come se lui non l'avesse mai abbandonata. Potrà vivere ancora attraverso le parole e la musica che aveva scritto nella speranza che un giorno avrebbe potuto ritornare a cantare...

Un finale che lascia un po' l'amaro in bocca, devo ammetterlo, però spero che sia stata una degna conclusione!

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