Capitolo 45
«Davide!»
Schivò alcuni ragazzi che le stavano bloccando la strada all'ultimo momento, continuando a correre, per quanto poteva, in modo da raggiungerlo.
«Davide, aspetta per favore.»
Sapeva di star dando nell'occhio; molti studenti si era girati a causa delle sue continue grida, ma non le importò. Il suo unico obiettivo era fermarlo, anche a costo di inseguirlo e urlargli dietro per tutta la città.
Approfittò del fatto che una ragazza avesse aperto le pesanti porte antincendio, per uscire nel cortile dell'università senza dover perdere tempo, sgusciando tra il suo corpo e quella della sua amica. Borbottò un lieve «scusa» quando sentì la sua spalla colpire una delle due.
Continuò a correre e chiamare il suo nome, e finalmente lui rallentò, fermandosi appena raggiunto un posto un po' più appartato, dove potevano parlare senza fare teatrino davanti agli altri. Avevano già dato troppo spettacolo per i suoi gusti.
La ragazza gli fu subito affianco. Boccheggiò un «grazie», facendo respiri profondi per prendere più aria che poteva e far passare il fiatone velocemente. Aveva paura che potesse di nuovo andarsene e lei aveva bisogno di parlargli.
Aveva ragione Massimo: non poteva più stare ferma e aspettare.
«Allora?» la incalzò quando il silenzio si prolungò un po' troppo. «Mi sono fermato solo per farti smette di urlare; non ho tutto il tempo di questo mondo, perciò dimmi ciò che vuoi così posso tornarmene a casa» la informò, talmente gelido che un brivido scorse lungo la schiena di Clarisse. Non poteva credere che lui fosse cambiato così tanto; che i suoi sentimenti per lei si fossero volatilizzati, lasciando il posto alla sola rabbia.
Gli si avvicinò con passo incerto, non sapendo bene da dove cominciare. Ora che aveva la possibilità di spiegarsi, la sua lingua le sembrò attaccata al palato.
Avrebbe preferito rimanere così, occhi negli occhi, a comunicare con lo sguardo invece che con le parole, come tante altre volte avevano fatto.
In quei giorni di silenzio, aveva compreso appieno il significato della frase: non ti rendi conto del vero valore delle cose fintanto che non le perdi; aveva sentito la mancanza di ogni suo piccolo gesto, e più volte aveva rimpianto i bei momenti passati con lui, desiderando ardentemente di poter tornare indietro nel tempo per riviverli ancora una volta.
Il suo istinto, unito al bisogno di toccarlo, la fecero agire senza troppi ripensamenti. Alzò la mano avvicinandola con lentezza alla sua guancia. Notò lo sguardo di lui indurirsi mentre seguiva i suoi movimenti, ma solo quando sfiorò la sua pelle, Davide si discostò da lei, costringendola ad abbassare il braccio.
«Perché ti comporti così?» domandò, incredula del suo atteggiamento. «Fino a un mese fa dicevi di amarmi, e ora fai così? Sono sempre io! Non è cambiato nulla...»
«Sei sicura? Perché io non so neanche più come chiamarti» rispose, facendole subito comprendere quanto fosse ancora ferito da quella scoperta.
«Marianne? Clarisse? Non lo so» continuò aprendo le braccia e alzando le spalle, mostrando con tutto il corpo la sua irritazione.
«Va bene Clarisse...» riuscì a mormorare la ragazza, raccogliendo tutto il suo coraggio per mantenere gli occhi su di lui, ormai accecati dallo sdegno.
«Vedi? Tutto questo è assurdo.» Davide allargò ancora di più le braccia, come a indicare tutta l'area circostante. Poi le abbassò.
«Per me Clarisse è sempre stata la gemella morta. L'ombra che ti seguiva ovunque e ti impediva di essere te stessa. Invece...» sospirò, chiudendo gli occhi e passando una mano tra i capelli.
Aspettò che lui continuasse a sfogarsi, permettendogli di esprimere la rabbia e l'indignazione che da troppo si teneva dentro, ma appena si accorse che non avrebbe detto altro, prima che potesse interpretare il suo silenzio in modo errato, si accinse a parlare.
«Lo so che è difficile da metabolizzare e so anche che sei arrabbiato, ma...»
«Ti sbagli» la bloccò. «Non sono arrabbiato. Sono deluso.»
«Lo so» continuò, in realtà sorpresa da quella risposta, ma intenzionata a mantenere il discorso sulla via che si era prefissata. «Ma devi comprendere che non l'ho fatto per capriccio o per riceve più attenzioni. Era veramente una cosa necessaria...»
«Non lo capisci, vero?» ancora una volta la fermò, ma il suo tono di voce era diverso, come la sua espressione. Era più sofferta, come se nel suo cuore, l'amore che aveva provato per lei stesse finalmente combattendo contro quei sentimenti negativi che l'avevano reso cieco.
«Non è questo che mi importa veramente.» Si avvicinò a lei, posizionandole i palmi sulle spalle. La osservò per qualche istante, sperando che lei riuscisse a cogliere ciò che stava cercando di spiegare, ma visto che la sua bocca rimase sigillata, continuò, staccandosi dal suo corpo.
«Mi fa male il fatto che tu non me lo abbia detto prima. Non ti fidi di me, forse?» aspettò qualche secondo, sperando che intervenisse per smentirlo. La ragazza, però, abbassò il capo, scuotendolo appena, in un movimento che lui non riuscì neanche a cogliere.
«Oppure non ti importa niente di me...» mormorò allora.
A sentire ancora quelle parole, Clarisse lo guardò; gli occhi leggermente socchiusi.
«Smettila di ripeterlo» pronunciò. Sentire quelle parole era come venir colpita da una grossa lancia nel cuore. «Sai anche tu che non è vero» continuò alzando un po' di più la voce. «Ti amo, accidenti, ti amo.»
«E allora perché?»
«Non lo so» fu ciò che la giovane riuscì a dire. «Era sempre più difficile man mano che il tempo passava e mi legavo a te.»
Davide scosse la testa, trattenendo una risata quasi isterica.
«Cosa c'era di così difficile?»
«Perché ti accanisci così? Alla fine te l'ho detto, no?» domandò a sua volta Clarisse, confusa da quella discussione di cui non capiva il principio. «E, sinceramente, non conta come mi chiamo realmente. L'unica cosa che dovrebbe importare sono i miei sentimenti per te.»
Il ragazzo incrociò le braccia al petto, diventando di nuovo scostante.
«Il problema è che non riesco più a crederti» disse in un sussurro, dando voce a quello che aveva capito in quei minuti.
Tutti i messaggi che gli aveva mandato, tutte quelle continue rassicurazioni che gli stava dando, neppure la rincorsa per i corridoi dell'università era bastata a fargli svanire quella continua sensazione. Non riusciva a togliersi dalla testa quei pensieri: se gli aveva tenuto nascosto una cosa del genere per così tanto tempo, era capace di mentirgli su tutto.
La vocina dell'insicurezza che tanto odiava continuava a ripetergli che, molto probabilmente, stava cercando di chiarire solo perché si era accorta che la sua presenza le stava facendo meglio di qualche pillola e seduta psicologica; le sarebbe bastato trovare qualsiasi altro migliore di lui e l'avrebbe lasciato in tronco.
Neanche l'istinto, che lo spronava a dare una seconda possibilità a l'unica persona che l'aveva fatto tornare a sorridere, riuscì a farlo desistere in ciò che stava per fare.
«Meglio finirla qui» disse, abbassando lo sguardo quando vide gli occhi della ragazza spalancarsi. Fino a un mese prima l'avrebbe interpretato come terrore, ma ormai non era più sicuro di nulla.
«Non stai dicendo sul serio...»
Clarisse iniziò a tremare; nonostante non ci fosse neanche un filo di vento, non riuscì a placare i tremiti. Il suo viso divenne pallido, facendo vacillare per un istante le sicurezze di Davide.
«Dimmi che è tutto uno scherzo, ti prego.»
«No...» rispose lui distogliendo di nuovo lo sguardo. «La fiducia deve essere alla base di ogni rapporto. Se non c'è crolla tutto» continuò, sentendo il suo cuore frantumarsi per quello che stava dicendo.
«Tu hai perso la mia» concluse in un sussurro, mentre la stretta del rimorso gli strinse lo stomaco, costringendolo a chiedersi se stava facendo la cosa giusta.
Non voleva far crescere un rapporto sul dubbio nell'altra persona; non voleva doversi chiedere continuamente se gli stava dicendo la verità o meno.
Però, non riusciva a smettere di amarla, e non sapeva se ci sarebbe riuscito in futuro.
«Mi dispiace» disse, infine, andandosene prima di cambiare idea, non lasciando neanche tempo a Clarisse per ribattere.
Lei rimase immobile, sconvolta dalle sue parole. Il suo cervello elaborò quelle informazioni tardi, quando ormai lui era già troppo lontano per fermarlo allungando semplicemente il braccio.
Obbligò le proprie gambe a muoversi per raggiungerlo, ma qualcosa dentro di lei si era bloccato.
Sentiva solo un macigno pesarle sulla bocca dello stomaco che le faceva venire la nausea.
Non riusciva neanche a versare una lacrima; forse credeva ancora che fosse tutto uno scherzo, ma la figura di Davide che si allontanava sempre più dalla sua vista, uscendo dai confini dell'università, le mostrava tutt'altro.
Ebbe un impulso come una scarica elettrica e, neanche il tempo di accorgersene, si stava muovendo, rincorrendolo per la seconda volta, non accettando quella fine così assurda.
Aveva ragione lui: tutta quella situazione era assurda. Non poteva finire così.
Loro due era nati per stare insieme. Lo sapeva. L'aveva capito già alla prima conversazione.
Non voleva perderlo, non in quel modo.
Il cuore stava colpendo forte la sua gabbia toracica. Era l'unica cosa che riusciva a sentire chiaramente: né le voci delle persone che sorpassava, né i suoi muscoli doloranti che chiedevano un po' di riposo. L'unico punto fisso era Davide.
Lo vide sul marciapiede opposto e accelerò, attraversando la strada senza neanche badare al rosso del semaforo per i pedoni.
Il clacson di un camioncino che rombava furiosamente, le grida di qualche studente dietro di lei e il stridore di freni, furono le uniche cose che riuscirono finalmente a fermarla nella sua furiosa corsa. Le bastò girare lo sguardo verso sinistra per ritrovarsi due fari che la puntavano.
Le immagini dell'incidente con sua sorella scorsero davanti a lei e il panico si impossessò del suo corpo, impedendole qualsiasi movimento. Non riuscì a far altro che tenere gli occhi fissi sui due cerchi che si avvicinavano velocemente, troppo velocemente, diventando sempre più grandi.
In lontananza le sembrò di sentire le ultime parole che avevano lasciato le labbra di sua sorella prima dello schianto e le sue braccia che la stringevano forte, proteggendola con tutto il corpo nel suo ultimo gesto d'amore.
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