Capitolo 14
Il padre di Davide stava apparecchiando il tavolo con due coltelli, alcuni tovaglioli e una brocca d'acqua insieme a dei bicchieri.
Stava ancora sistemando il tutto quando il figlio si presentò in cucina. Notò subito gli occhi gonfi e il viso triste e sperò che almeno la cena lo avrebbe tirato su di morale.
«Ho comprato la tua pizza preferita» disse cercando di essere allegro.
Il ragazzo si sedette sulla panca di legno, davanti al suo cartone, senza pronunciare una sillaba. Lo aprì mostrando l'"Olandese", una pizza con prosciutto cotto, funghi e maionese.
Il padre vide un'ombra di sorriso sul suo volto e ciò lo rinfrancó.
Sapeva che rivivere i momenti felici di quand'era piccolo, lo avrebbe aiutato.
Tempo prima, quando ancora era un semplice professore, ogni venerdì organizzava la serata "padre e figlio". Lui comprava due pizze, sempre un "Olandese" per Davide e una "Salamino" per sé, e passavano la cena da soli, mentre la moglie faceva il turno di notte all'ospedale dove lavorava.
Era il momento che più adorava di tutta la settimana, perché era l'unico in cui poteva stare con suo figlio e parlare un po' con lui.
Con la carriera e i vari concorsi a cui voleva partecipare per alzarsi di grado, aveva poco tempo per Davide, ma quella serata non la saltavano mai.
E fu così per un bel po' di tempo.
«Grazie papà, ma a cosa si deve questa sorpresa?» chiese il ragazzo tagliando la prima fetta.
«In questi giorni ti ho visto un po' giù e ho pensato che passare una serata come facevamo tempo fa, ti sarebbe piaciuto» rispose il rettore con sguardo amorevole.
Era da qualche settimana che aveva notato alcuni cambiamenti nel figlio. Si era fatto più scuro in viso, parlava e mangiava poco e si irritava per un nonnulla.
Aveva paura che potesse cadere in un circolo depressivo, che tutto quello fosse troppo anche per lui.
Dopo un periodo di riabilitazione, seguito da un medico esperto, aveva potuto ritornare a parlare, ma la via per eliminare il problema e tornare finalmente a cantare era molto più lunga di quanto si sarebbero aspettati. Dopo mesi c'erano quasi riusciti. Tutto sembrava passato, ma poi, improvvisamente, una mattina si era svegliato con un terribile mal di gola; la voce non gli usciva neanche in un flebile sussurro e tutto si era ripetuto come la prima volta.
Per fortuna, secondo il medico, era stato solo un momento di debolezza fisica provocata dallo stress, e in pochi giorni era tornato a parlare. Aveva ripreso gli esercizi, ma l'avvertimento del dottore era stato chiaro: non c'era la certezza che, anche con le cure, sarebbe riuscito a cantare di nuovo; quello che gli era accaduto ne era una prova.
A Davide non aveva mai voluto rivelare nulla per non fargli perdere la speranza, l'unica cosa che gli era rimasta, ma pian piano vedeva affievolirsi anche quella.
Dopotutto il canto era parte di lui. Era cresciuto con la stessa passione della madre nel cuore, ereditando anche il talento.
Se non potrò più cantare, che senso ha vivere? era una delle più frequenti domande che gli rivolgeva da mesi, e ciò lo aveva messo in allarme. Gli rimaneva solo lui ormai.
Guardò il ragazzo, ormai diventato quasi un uomo, rivedendo tutto della donna che aveva amato. La forma del viso, ovale e magro, il naso dritto ma non pronunciato e quegli occhi, quello sguardo identico al suo. Era uno di quelli che sapevano catturarti e che non volevi smettere di osservare. Profondo come pochi.
Distolse gli occhi da suo figlio e, con questo, anche dai suoi pensieri. Tagliò in quattro parti la sua pizza e iniziò a dare i primi morsi alla grande fetta.
Il silenzio, nella cucina, era quasi opprimente. Gli unici rumori erano quelli del coltello sul cartone e dei bocconi che venivano masticati lentamente, quasi come se i due fossero costretti a farlo.
Il padre si schiarì la gola, ottenendo l'attenzione del figlio, e poi parlò.
«Sabato prossimo andiamo a teatro. C'è uno spettacolo comico che mi piacerebbe vedere» annunciò aspettandosi già la reazione di Davide.
«E perché dovrei venire anch'io?» domandò con un tono di voce acido.
«Perché mi piacerebbe che tu venissi» rispose semplicemente. Vide l'espressione torva del figlio e perciò aggiunse: «vorrei che tu riuscissi a liberarti la mente per qualche ora. Sei troppo stressato in questo periodo».
Si fermò, appoggiandosi allo schienale della panca e guardando tristemente i due cartoni di pizza ancora mezzi pieni.
«Ed evidentemente questo non ti ha aiutato» disse, allargando le braccia per indicare il tavolo.
«No, è solo che... Non ho molta fame» spiegò il ragazzo abbassando lo sguardo sulle sue mani.
Il padre sbuffò, stufo di quel muro che si stava creando tra di loro.
«C'è qualcosa che ti preoccupa, Davide. Non mentirmi, lo vedo».
Il figlio alzò gli occhi sul padre, spaesato. Non sapeva da dove iniziare, talmente erano le cose che voleva confidargli, e perciò rimase zitto con lo sguardo perso nel vuoto.
L'uomo lo scrutò cercando di capire cosa stessa accadendo - quella sera era ancora più cupo rispetto al normale - e poi gli venne un'illuminazione.
«Ti sono arrivate le ultime analisi?» chiese ricordando che la consegna era stata indicata per quei giorni.
Davide non rispose, ma i suoi occhi si fecero di nuovo lucidi e piccole lacrime iniziarono a rigargli le guance.
L'uomo si pulì le mani con il tovagliolo, in modo da togliere eventuali residui di olio, e si avvicinò al figlio, abbracciandolo.
«È tutto inutile, papà» pronunciò il ragazzo tra i singhiozzi. «Niente tornerà come prima. Ho fatto un casino. Non avrei mai dovuto sforzarmi così per quel concerto» continuò, aggrappandosi alla maglia di lana del padre, come un bambino, senza smettere di piangere.
L'uomo cercò di tranquillizzarlo coccolandolo e accarezzandolo, proprio come faceva quando era più piccolo.
Rimase in silenzio lasciando che Davide si sfogasse il più possibile. Gli sembrava così fragile e tremante tra le sue braccia che non trovò nulla di confortante da dire, senza cadere nella menzogna.
Alla fine, quando l'unica cosa che si poteva udire era il pianto del ragazzo, riuscì a pronunciare «stai tranquillo, risolveremo anche questo», ma più ci pensava e meno riusciva a crederci.
***
«Ripetimi, un'altra volta, il motivo per cui siamo qui» mormorò Marianne lanciando uno sguardo torvo a Massimo.
«Voglio vedere una rappresentazione teatrale» rispose lui senza prestare attenzione alle occhiatacce della ragazza, continuando a camminare a una velocità incredibile e aumentando lo stacco dalla cugina.
«E dovevamo proprio venire a Pergine?» chiese lei sbuffando. «Ci sono tantissimi teatri a Trento...».
«Nessuno propone questo spettacolo» spiegò tranquillamente, mentre Marianne era costretta a correre per stargli dietro. Sapeva che adorava il teatro; per certi aspetti era un ragazzo di altri tempi, ma credeva che costringerla a seguirlo a quell'evento fosse eccessivo, soprattutto per il fatto che a lei quelle cose non interessavano particolarmente.
Finalmente lui si fermò, ma solo per aspettare che una macchina lo lasciasse passare sulle strisce pedonali.
Attraversarono la strada e, una volta sul marciapiede opposto, Marianne trattenne il cugino per la manica del giaccone.
«Aspetta, non ce la faccio più...» boccheggió. Aveva il fiatone per la corsa che era stata costretta a fare e si appoggiò con le mani sulle ginocchia per riprendere aria.
Massimo acconsentì di fermarsi un attimo e poi, quando si fu ripresa, ricominciarono a camminare, anche se più lentamente rispetto a prima.
«Perché hai voluto che ti accompagnassi?» domandò ancora la ragazza, cercando di capire come era riuscita a farsi convincere per andare a teatro.
Aveva già in programma un pomeriggio basato totalmente sullo studio, ma il cugino si era presentato da lei verso le tre, costringendola ad accompagnarlo a un evento, a detta sua, incredibile.
Di quale evento parlasse non lo aveva capito subito, e solo quando presero il treno diretto a Pergine, lui le raccontò di quello spettacolo teatrale.
Si era così trovata catapultata in quella città, in cui non aveva mai trovato la necessità di metterci piede, così simile eppure estremamente diversa da Trento.
Appena scesi dal treno, Massimo aveva iniziato a correre per raggiungere il prima possibile il teatro, con la scusa che, se non fossero riusciti a trovarlo subito, almeno avrebbero avuto il tempo per cercarlo in tutta calma.
In realtà la strada si era rivelata abbastanza semplice, essendo sempre dritta fino all'arrivo. Inoltre la struttura era anche abbastanza in vista, grazie alle luci che lo illuminavano di un rosa acceso.
«Volevo che tu ti divertissi» rispose il cugino quando furono davanti al teatro.
Marianne si guardò attorno impressionata.
Era fatto tutto in vetro ed era decorato solo con i vari cartelloni degli spettacoli teatrali o cinematografici proposti.
Accanto si trovava un bar con un piccolo patio in modo che, durante i giorni più caldi dell'anno, era possibile godersi le ordinazioni all'aria aperta.
Da fuori si sentiva la musica risuonare a tutto volume, grazie alla porta finestra spalancata, nonostante il vento freddo d'ottobre si facesse sentire prepotente.
Un'improvvisa folata d'aria la fece rabbrividire. Si strinse nella giacca e ritornò a guardare la struttura del teatro illuminata.
«Entriamo?» le chiese Massimo, notando i suoi brividi.
Lei annuì e così varcarono la soglia, ignari della direzione che avrebbe preso quella serata.
Finalmente, dopo un sacco di tempo, ho pubblicato il quattordicesimo capitolo. Se devo essere sincera, questa cosa mi ha messo un po' d'ansia, perché non so che impatto possa avere su di voi.
Non è un capitolo di grandi svolte, però spero vi piaccia 😊.
Se vi va, lasciatemi qualche commento con una vostra impressione ❤.
Stefy 🎵.
--
Prossimo capitolo sabato 09/03 🌹.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro