Capitolo 6: Informazioni
Arrivo in classe e la campanella dell'istituto Carlo Tenca suona: sono le otto del mattino e sono già in ansia. Mi giro verso i due banchi ancora vuoti di Adriel e Daniel e tiro fuori i libri allo zaino.
«Buongiorno.» La professoressa Marchese entra, accende le luci e mi fissa, sedendosi dietro la cattedra.
«Buongiorno» rispondono alcuni di noi.
«Facciamo prima storia o italiano?» chiedo.
«Italiano. Oggi iniziamo Pascoli» ci informa l'insegnante.
Tiro fuori il blocco e inizio a prendere appunti.
«Giovanni Pascoli nacque nel 1855 a San Mauro di Romagna, in provincia di Forlì, da una famiglia benestante come il quarto di otto figli. Il 10 agosto 1867 il padre, un amministratore di una tenuta dei principi Torlonia, mentre rientrava venne assassinato per motivi sconosciuti. Questa tragedia incise in modo determinante sulla formazione e sulla visione della vita del poeta, quindi ricordatevela» esordisce Eva Marchese.
Il mio cervello non funziona. Non vuole afferrare le parole che escono dalla bocca della professoressa.
Qualcuno bussa alla porta della classe, che si apre subito dopo, ed entrano Daniel e Adriel, a testa china.
«Ci scusi, professoressa. Eravamo in presidenza» mormora Daniel. Il suo corpo è curvo, come quello del gobbo di Nôtre Dame, ma più si avvicina alla prof più le sue spalle si allargano, conferendogli nuovamente lo sciatto atteggiamento di Daniel lo sbruffone.
La professoressa Marchese annuisce e prende il foglio che Adriel le consegna, mentre i miei due compagni raggiungono i loro posti, fortunatamente lontano da me.
Sospiro profondamente e abbasso la testa, fingendo di sistemare gli appunti che ha appena dettato la Marchese.
La mia compagna di banco mi tocca la spalla e mi fa segno di girarmi.
«Che c'è?» mimo con le labbra.
Mi volto e vedo Adriel sbracciarsi verso di me. Accanto a lei, Daniel mantiene la copertura da sbruffone della classe, sdraiandosi sul banco.
«Cosa vuoi?» chiedo in un bisbiglio ad Adriel, mentre la Marchese ricomincia a parlare di Pascoli.
«Fra poco c'è l'intervallo. Dobbiamo parlare» sussurra Adriel scandendo ogni parola con la bocca.
«Con te? Neanche per sogno» ribatto alzando leggermente la voce.
«Vi disturbo, per caso?» interviene la professoressa Marchese con tono di rimprovero.
«No, mi scusi» rispondo lanciando un'occhiataccia ad Adriel. All'improvviso suona la campanella dell'intervallo e tutti si alzano entusiasti.
«Ci vediamo alle ultime due ore con storia» ribadisce l'insegnante prima di uscire dalla classe, anche se nessuno le dà ascolto.
Ho tre opzioni: rinchiudermi nel bagno fino alla fine dell'intervallo, rimanere al mio posto fingendo di essere sola o affrontare Adriel.
Opto per la prima, ma... penso che sia troppo tardi, perché vedo Adriel camminare con decisione nella mia direzione.
Mi tremano le gambe. Perché Adriel mi fa così paura, adesso? Ho fifa perché è un vampiro? No. Non lo so.
La mia amica prende la sedia dal banco davanti al mio e si siede di fronte a me.
«Ciao» mi saluta.
«Ciao» ricambio senza guardarla negli occhi.
«Com'è andata ieri?» chiede.
«Bene» taglio corto. Non voglio parlarne, anche perché non...
«Lestat ha risposto a tutte le tue domande?» insiste.
«Sì. Non pensavo potessimo parlarne qui» le faccio notare.
«Non urlare e possiamo parlarne» ribatte facendomi l'occhiolino.
«Dovrei urlare?» domando.
Ancora una volta pongo questa domanda... Dovrei farci l'abitudine?
Spero di no.
«Hai paura?» chiede e io alzo le spalle.
«Non pensavo di farti paura» continua Adriel. China la testa e, dopo un attimo di silenzio, se ne va.
Suona la campanella e tutti tornano ai loro posti, aspettando che entri il professore di matematica.
Mi volto leggermente nascondendo il viso fra i capelli e provo a osservare Adriel. Sembra triste. L'ho offesa?
Daniel, pur mantenendo il suo finto atteggiamento da sbruffone, le parla, ma non capisco di cosa.
Scuoto la testa e ritorno con lo sguardo sui miei appunti di italiano pasticciati.
Com'è possibile? Perché sta succedendo tutto questo? Lestat Defendi mi ha proprio incasinato la testa: ha un corpo da favola, degli occhi ammalianti e un sorriso divino, ma il suo sguardo... Quello mi inquieta. I suoi occhi sembrano stonare rispetto a tutto il resto, soprattutto perché emanano un qualcosa di malvagio che mai avevo visto prima.
Rabbrividisco e sposto lo sguardo sul banco – che si trova nella colonna centrale della classe – di Chiara Sole. Sarà morta a quest'ora?
Alzo di scatto la testa verso la finestra e aguzzo la vista, cercando di vedere qualsiasi macchia presente sulla torre dell'Unicredit, visibile dalla nostra scuola.
Niente di niente.
All'improvviso la porta dell'aula si apre e sulla soglia compare la bidella del piano, che ci informa dell'assenza del professore di matematica, lasciandoci così scoperti per due ore.
Alcuni dei miei compagni decidono di andare fuori a fumare, mentre altri di andare in mensa a mangiare.
«Dai, raga!» urla Daniel all'improvviso, richiamando l'attenzione di tutti.«Dobbiamo fare i seri. Quest'anno abbiamo la maturità!» esclama per poi scoppiare a ridere, mentre gli altri lo seguono fuori dalla classe.
Scuoto il capo confusa. Ho troppi pensieri per la testa. Mi alzo e vado in bagno. Busso a tutte e tre le porte, che non si aprono. Non risponde nessuno.
Sbuffo e mi volto, quando improvvisamente uno scatto mi fa sobbalzare.
«C'è qualcuno?» sussurro con voce tremante.
Mi avvicino lentamente alla porta da cui proviene un suono meccanico e... improvvisamente mi arriva un colpo al naso, che inizia a sanguinare.
«Cazzo!» esclamo.
Apro gli occhi, che avevo chiuso per il colpo subito, e vedo una ragazza normale, che mi guarda dall'alto al basso con un'espressione schifata e che si mette a ridacchiare maliziosamente.
«Riprenditi, sfigata» afferma la ragazza andandosene.
Sospiro. Questa storia mi sta sfuggendo di mano: ho i nervi a fior di pelle.
Metto una mano sotto il naso per impedire al sangue di sporcarmi i vestiti e mi volto verso il lavandino. Apro il rubinetto con una mano e faccio scorrere l'acqua, lavandomi lentamente il muso sporco di sangue.
«Cos'è successo?»
Alzo di scatto la testa e davanti a me vedo Adriel riflessa nello specchio, in piedi alle mie spalle.
Espiro e chiudo il rubinetto, mentre Adriel mi porge un panno bianco da mettere sotto il naso.
«Grazie» mormoro. «Ho preso una porta in faccia» dico facendo spallucce. Mi guarda con occhi pieni di parole, ma non dice nulla.
«Possiamo parlare?» sussurra distogliendo lo sguardo.
Annuisco e ci sediamo a gambe incrociate per terra, nell'angolo più nascosto del bagno.
«Com'è andata sabato con Lestat?» domanda Adriel.
«Sono così confusa» ammetto. «Tu e Daniel siete vampiri. Chiara Sole è un... Akira... Che poi... Mai sentiti questi Akira... Non ne parla nessuno ed esiste un Clan d'Europa dei vampiri...» balbetto velocemente.
«Lo comprendo. È tutto nuovo da capire ed è più che logico che tu sia confusa» afferma Adriel.
«Vorrei tanto capire... Insomma... Mi avete risposto, però non riesco a comprendere a fondo ciò che intendete. Forse perché sono umana...»inizio a blaterare. «Poi avevate individuato l'Akira, ma perché avete aspettato? Perché ne volevate la conferma? Perché siamo amiche? Ma... siamo amiche? Perché dovete fingere? Tu sei realmente così? Che cosa nascondi? Chiara Sole è morta? Dov'è il suo corpo? Aveva una famiglia?»
«Fermati, ti prego» ridacchia la mia amica vampiro. «Una domanda per volta. Permetti ai tuoi polmoni di prendere aria.»
Sbuffo e alzo gli occhi al cielo.
«Demi, tu sei la prima umana con cui entro in sintonia da oltre cinquant'anni. Il nostro rapporto è speciale e con te mi sento me stessa, soprattutto adesso che sai la verità» sussurra Adriel.
«Quindi non mi nascondi nulla?»
«Ci sono segreti che non possono essere rivelati subito» afferma.
«Vero, ma adesso puoi dirmi tutto. Oppure quel Lestat vi tiene sotto torchio?» borbotto.
Adriel scoppia in una fragorosa risata.
«Cos'hai contro Lestat?» domanda.
«Non lo so» rispondo facendo spallucce. «Ma è il tuo capo?»
«È il leader del Clan d'Europa» spiega.
«Quanti anni ha?»
«Un po' tanti» sogghigna.
«È stato lui a trasformarti?» esorto.
«Più o meno» risponde rimanendo sul vago.
«Ti prego, voglio capirne di più» la supplico.
All'improvviso Adriel scatta in piedi e mi fa segno di rimanere in silenzio.
«Cosa succede?» provo a bisbigliare.
Adriel scuote la testa, prende il suo cellulare e inizia a digitare.
La tensione è alle stelle: mi sembra di essere in una delle mie serie tv.
La vibrazione del mio cellulare, nella tasca posteriore dei miei pantaloni, mi fa sobbalzare.
Abbasso lo sguardo per prendere il telefono e guardo il messaggio. È di Adriel: Possiamo vederci a casa tua?
Scuoto la testa confusa: perché mi ha mandato un messaggio se è qui davanti a me?
Alzo la testa ed è sparita. Esco dal bagno, completamente disorientata, e ritorno in classe.
Perché tutto questo mistero?
È successo qualcosa che l'ha allarmata?
Cerco Daniel tra i gruppetti di gioco che si sono creati, ma non lo trovo. Deve essere successo qualcosa... L'unica soluzione è aspettare la professoressa Marchese.
«Dove sono andati tutti?» squittisce qualcuno.
Giro la testa in direzione della voce acuta e vedo la bidella in piedi davanti alla porta, con le mani sui fianchi e uno sguardo arrabbiato.
«Al bar» risponde un mio compagno mentre gioca a carte.
«Richiamateli subito. Il preside Migliaccio vuole vedervi e devo portarvi da lui!» esclama la bidella, lasciando tutti senza fiato.
Dopo aver passato cinque minuti al telefono, tutti i miei compagni di classe tornarono – inclusi Daniel e Adriel – e seguimmo l'inserviente fino a un'aula che pensavamo fosse un ripostiglio in disuso.
«Perché il preside vuole parlarci qui?» chiede qualcuno.
«Le mie istruzioni erano di portarvi qui» spiega la bidella per poi andarsene, lasciandoci soli davanti alla porta.
Lancio uno sguardo ad Adriel di sfuggita e alzo le spalle, sospirando rumorosamente, mentre i miei compagni iniziano a bisbigliare sempre più forte.
«Oh, bene. Siete arrivati!»
Alzo la testa e vedo il preside Migliaccio, con un completo nero, venire verso di noi.
«Buongiorno» mormoriamo in coro.
«Buongiorno» ricambia lui. «Vi ho fatto chiamare perché in questi due mesi ho approfondito i comportamenti e il quoziente intellettivo di ciascuna classe nell'istituto...»
«Perché siamo delle scimmie» borbotta Daniel, ottenendo dei risolini dagli altri compagni.
«E voi siete l'eccellenza dell'eccellenza. I voti migliori dell'istituto e, nonostante alcuni casi particolari, i nostri migliori studenti; pertanto ho deciso di scegliervi come classe sperimentale» afferma.
«Classe sperimentale?» domanda qualcuno.
«Esatto» risponde eccitato il preside Migliaccio. «Abbiamo fatto ristrutturare questa stanza e l'abbiamo trasformata in un'aula di musica. Sarete la nuova band del Carlo Tenca.»
«Ma... mi scusi, noi quest'anno abbiamo la maturità» spiega qualcuno.
«Proprio per questo dovete dare un buon esempio» ribatte il preside Migliaccio.
Il dirigente scolastico, infischiandosene delle lamentele della classe, apre la porta dell'aula e invita tutti a entrare.
«Ciascuno di voi deve avere uno strumento... Daniel Micio, perché non provi il pianoforte?» propone il preside.
Tutti i miei compagni sbuffano e cercano lo strumento più adatto a loro.
Mentre Daniel prova il piano, suonando in un modo così orribile che Beethoven si sta rivoltando nella tomba, e comprendendo che quello non è il suo strumento, i miei occhi puntano un violino in legno scuro, riposto su uno scaffale.
Lo prendo delicatamente e lo accarezzo. «Ottima scelta, Romano!» si congratula il preside Migliaccio, sorridendomi.
«So che a breve avete la simulazione di Seconda Prova, perciò vi lascio andare a casa, ma sappiate che due giorni alla settimana dovrete fermarvi qui per imparare a suonare il vostro strumento» spiega il dirigente.
Guardo di sottecchi Daniel e Adriel con i loro nuovi strumenti: lei ha scelto una chitarra classica e lui la batteria.
«È tutto chiaro?» esorta il preside, ottenendo un sì corale.
Corriamo tutti fuori, quando il preside aggiunge: «Ah, ragazzi. Mi sono dimenticato di dirvi una cosa: avete sentito al telegiornale cos'è successo? Una ragazza stufa scappa di casa, due morti: i genitori muoiono di freddo.»
«Perché deve fare finta di essere simpatico?» si lamenta qualcuno.
Arrivata in classe, sistemo il materiale scolastico all'interno del mio zaino e, accompagnata da Adriel, vado a casa.
«Adesso mi dirai tutto?» borbotto lanciando lo zaino per terra.
«Tua mamma?» domanda Adriel sedendosi sul divano.
Apro lentamente la porta della sua stanza: la vedo sdraiata sul letto a pancia in giù, circondata da numerose lattine di birra, molto probabilmente vuote. «Sta dormendo» rispondo dopo aver chiuso la porta.
«Va bene» ribatte Adriel.
«Non avresti dovuto percepirla?»
«Sì, ma volevo sapere cosa mi dicevi tu. Anche tu hai un po' di segreti. Sento l'odore d'alcool da un chilometro.»
Abbasso la testa e respiro lentamente. «Non mi va di parlarne.»
«Anche io ci sono passata. Quando vorrai... io sarò qui» dichiara sorridente, mettendomi una mano su un ginocchio.
«Grazie...» sussurro.
Adriel sospira e mi guarda alzando gli occhi al cielo, cercando di nascondere un sorriso.
«Sono stata trasformata quando avevo ventun anni da Lestat Defendi» afferma.
«Perciò se hai ottant'anni... dovresti essere nata nel 1939?» chiedo sbalordita.
«Sì. Ero ebrea...»
«Ciò significa che sei andata nei campi di concentramento?»
«Avevo solo sei anni...»
«I bambini li uccidevano subito. Come sei sopravvissuta?» domando.
«Avevo la mani molto piccole e mi misero in fabbrica. Costruivo le canne delle pistole e i proiettili» continua Adriel.
«Deve essere stata dura... Di che paese eri?»
«Germania. Sono tedesca di nascita.»
«Come mai Lestat ti ha trasformato?» chiedo.
«Nonostante tutte le liberazioni e i patti di pace, con la divisione di Berlino, la capitale era piena di gente crudele. Tutte le proprietà della mia famiglia erano lì, perciò ci tornammo, ma all'età di ventun anni venni stuprata da dieci uomini ubriachi mentre tornavo a casa da scuola e se non fosse stato per Lestat sarei morta per strada» dichiara a bassa voce.
«È una bella persona...» mormoro tra me e me. Allora perché mi sembra così cattivo...?
«Ne ha passate tante. Non è facile. Circa tre anni fa ha avuto un crollo e si è isolato per qualche settimana qui vicino a Milano...»
«La causa del suo crollo?» domando sentendo di saper già la risposta.
«Te!» ribatte.
«Io?»
«Sì!» esclama. «Si è sentito strano appena ti ha vista nei corridoi del Tenca... I vampiri provano questa sensazione solo in due casi: quando hanno fame e quando provano amore» aggiunge Adriel.
«Provano amore?» chiedo. «È una cosa rara?»
«Rara no, ma unica sì. Puoi provare amore soltanto una volta nella vita e solo nei confronti di un'unica persona.»
«E perché dovrei essere io il suo unico amore?» sbotto.
«Perché non lo decidi tu.»
«Tu l'hai provato? Hai l'amore?» esorto.
«Sì. Si chiama Deva Simmun» risponde con gli occhi a cuoricino.
«Cambiamo argomento» dico scontrosamente agitando le mani. «Che tipo di vampiri siete? Insomma... Non brillate e non andate a fuoco al sole... Avete per caso degli anelli?» chiedo prendendo le mani della mia amica vampiro.
Lei ridacchia e scuote la testa. «Niente di niente.» È vero, non ci sono anelli in stile The Vampire Diaries.
«Avete bisogno di dormire?» domando.
«Sostanzialmente no, ma se vogliamo farlo ci riusciamo.»
«Potete mangiare cibo umano?»
«Sì, ma il nostro organismo lo rigetta dopo qualche ora. Dipende dal tipo di allenamento» risponde.
«Uccidete gli Akira perché vi sottraggono il cibo?»
«Più o meno.»
«Non capisco» mormoro confusa. «Si tratta della stessa cosa che fate voi con gli umani: vi nutrite di loro perché ne hanno bisogno. Perché loro devono essere così odiati?»
«Perché non sono esseri naturali» ribatte.
«In che senso?»
«Nel 960 d.C. papa Giovanni XII fece degli esperimenti nell'occulto, coalizzandosi con i pochi scienziati del tempo, e il risultato di questi furono gli Akira. All'epoca solo due esemplari, ma questi ultimi riuscirono a scappare e a riprodursi velocemente... Arriviamo così ai giorni nostri, dove il dieci percento della popolazione mondiale muore per il loro sostentamento» spiega Adriel.
«E la vostra percentuale?»
«Sette percento.»
«Mi avevate detto che... bevete sangue. Come ve lo procurate?»
«Abbiamo degli accordi con la banca del sangue europea e con il Vaticano, che ci permette di uccidere fino a un massimo di centomila esseri umani all'anno.»
«Che razza di interrogatorio è questo?»
Sobbalzo: era la voce di Daniel?
Mi volto e, infatti, lo vedo. È in piedi nella mia cucina.
«Come sei entrato?» domando.
«Dalla finestra» risponde.
«Non ti hanno visto, vero?» chiede Adriel. «Siamo in pieno giorno...»
«Certo che no» ribatte lui.
«Che cosa vuoi?» sbotto.
«Voglio essere interrogato anch'io. Siamo amici anche noi...» sussurra Daniel fingendosi indifeso.
Adriel mi mette una mano sulla spalla e mi fa segno di non insistere, perciò decido di ignorarlo.
«Quindi usate la banca del sangue e avete rapporti con il Vaticano...» ragiono ad alta voce. «Ma cosa c'entra il Vaticano?»
«Abbiamo un piccolo problema con la Chiesa... Stiamo male non appena qualcosa di sacro ci si avvicina e poi... da dove pensi che arrivino tutti i cacciatori di vampiri?» ribatte Daniel.
«Sono soldati del Vaticano. Ci osservano, ci schedano e ci monitorano» continua Adriel.
«Come funziona questo accordo con il Vaticano?» domando. «Sono infiltrati? Quanti sono?»
«Sono dieci membri da generazioni, dalle stesse famiglie» risponde.
«E hanno dei criteri per uccidervi?»
«Se noi seguiamo le regole, lo fanno anche loro» spiega Daniel.
«E le regole sono di non uccidere più di centomila esseri umani all'anno, ma come li contano?»
«Il Vaticano ordina loro di fare dei censimenti frequenti attraverso i loro contatti nelle forze pubbliche» mormora Adriel.
«Potete uccidere un cacciatore? Come lo riconoscete?»
«Ha un tatuaggio a forma di cerchio sul polso sinistro, al cui interno è rappresentato un nastro. E no, non possiamo ucciderli, altrimenti l'accordo salta» dice Daniel seccato. «Perché non hai fatto queste domande a Lestat?»
Abbasso gli occhi e mugugno: «Non sono affari tuoi.»
«Ha sofferto tanto e ti ha trovata, Demetria. Perché farlo soffrire ulteriormente?»
«Perché è cattivo!» sbotto alzandomi in piedi. Sospiro chiudendo gli occhi e mi dirigo verso la porta dell'appartamento.
«Demi, dove vai?» chiede Adriel preoccupata.
La ignoro. Prendo il cappotto ed esco da casa mia.
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