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Capitolo 19: La città di Codogno




Arrivai nel piccolo comune di Codogno nelle prime ore della sera. Durante il viaggio avevo deciso di far perdere le mie tracce a partire dal cellulare: lo buttai fuori dal finestrino del treno.

Camminai fino a un piccolo cancello in legno seguendo l'unico indirizzo di una villa privata in questa cittadina e mi fermai esattamente dove mi trovo adesso.

Non so se sono pronta.

Che cosa troverò oltre questo cancello?

Come supero questo cancello?

Cazzo.

Sono stata precipitosa un'altra volta.

«A che cosa pensi?» chiede una vocina.

Mi volto e al mio fianco vedo Francesco in compagnia dei suoi amici fantasmi: Terri, Alboin e Vittorio Emanuele II.

«Ciao, ragazzi» mormoro.

«Buonasera, Demetra» mi saluta Terri, gentile come al solito.

«Francesco ci ha detto che vuoi entrare in questa villa. Vogliamo aiutarti» afferma Alboin con voce gutturale.

«Come fareste?» esorto.

«Ricorda: il segreto è l'energia» dichiara Vittorio Emanuele II.

«E userete l'energia per aiutarmi a trovare quelle due pagine?» domando.

«Esatto» risponde Terri aprendo le braccia in modo elegante.

Al suo movimento la porta di fianco, sulla pietra, si apre e mi permette di entrare.

«Le telecamere sono state disattivate» informa Vittorio.

Oltrepasso la piccola porta e cammino lentamente sui ciottoli grigi. Mi trovo in un giardino al cui centro c'è una grande villa. Anche se è nel buio, riesco a descrivere perfettamente l'edificio in stile Liberty del 1900, con mattoni scuri e delle scalinate adatte alle principesse.

Con l'aiuto di una torcia inizio a cercare tra i mattoni. Giro intorno alla villa per un'ora e il sonno inizia a farsi sentire.

«Basta, ho perso le speranze» affermo dopo un po'. «Voi non potete darmi una mano?»

«Devi trovare la soluzione da sola» risponde Francesco.

«Io me ne vado!» esclamo.

Cammino rapidamente verso il cancello d'ingresso, quando inciampo su qualcosa e cado a terra.

«Cazzo» borbotto. La torcia finisce lontano da me e mi ritrovo con un gomito sbucciato.

Come diamine ho fatto se ho il giubbotto?

Brucia, dannazione!

«Demetra, guarda!» esclama Francesco.

Seguo il dito del bambino fantasma e scorgo la luce della torcia illuminare un mattone incastrato in un grande albero.

«Il mattone! È quello il mattone!» esulto.

Mi alzo velocemente, corro verso l'albero e con forza cerco di tirare fuori il mattone. Provo una, due, tre, infinite volte, fino a quando finisco di nuovo a terra, con il mattone in mano. Era incastrato davvero bene!

Mi rimetto in piedi e prendo immediatamente i fogli mancanti del libro, dove le parole sono scritte in grande e in corsivo.

Parlando di stregoneria e malocchi, esiste un uomo che funge da passaggio per l'aldilà, paradiso e inferno, e il suo nome è Viktor, il capo clan del continente Americano. Quando si parla di spiriti, benevoli e malvagi, si intende l'energia che li compone e per poter permettere a queste fonti di passare nell'aldilà Viktor deve entrare in contatto con essi.

Volto pagina e sussulto nel leggere il nome al centro.

È un certificato di nascita. C'è il mio nome, ma non il cognome. È datato lo stesso giorno del mio compleanno: il 2 ottobre del 2000. Tuttavia il luogo e le firme non sono le stesse di quello che avevo a casa mia a Milano.

Qui dice che sono nata a Sydney e le firme dei genitori sono...

Viktor e Mirea. E il testimone presente era Lestat Defendi.

Non sono io, dai... penso nella mia testa.

«Chi è questa Demetra?» rido. Alzo la testa e davanti a me vedo che i fantasmi mi guardano con occhi malinconici.

«Non sono io» mormoro sentendo arrivare le lacrime agli occhi.

Francesco, Terri, Alboin e Vittorio rimangono in silenzio e mi fissano con occhi sgranati.

«Sono io?» sussurro.

Il piccolo bambino fantasma si avvicina e, a testa china, annuisce.

«Sono la figlia di Viktor e Mirea?» singhiozzo.

Terri fa un cenno con la testa.

«Non posso esserlo. Insomma, non sono un vampiro e non ho mai avuto... No. No. No.»

Un vigoroso tuono mi fa sobbalzare.

«Sta arrivando un forte temporale» afferma Alboin.

«È meglio entrare in quella villa. Come riparo...» propone Vittorio Emanuele II.

Chiudo gli occhi e incomincio a piangere, proprio come fa il cielo.

Non posso essere io. Io sono Demetra Romano. Non solo Demetra.

All'improvviso non percepisco più la pioggia sulla mia testa e apro gli occhi. Mi trovo all'interno della casa, in un salotto antico decorato con una carta da parati spettacolare. Tutto è in legno e mi basta respirare per far scricchiolare ogni cosa che mi circonda.

Dei passi pesanti provenienti dal secondo piano mi fanno sobbalzare e mettere in posizione di difesa. Mi volto e vedo Daniel Micio, che indossa una felpa e un paio di pantaloni comodi, arrivare fino ai piedi delle scale.

«Daniel» squittisco.

Mi fiondo su di lui, lo abbraccio e nascondo il viso sprofondando nel suo petto.

Lui non ricambia. Le sue braccia rimangono lungo il suo corpo e i suoi muscoli sono tesi. Non sembra nemmeno più lui: le spalle sono più minute e la schiena più piccola. Sento il suo respiro: è diverso. Alzo la testa e osservo il suo viso teso e rigido. I suoi occhi grandi e azzurri mi scrutano con attenzione e un certo imbarazzo.

«Perché sei andato via?» sussurro piangendo.

«Andato via da dove?» chiede scacciandomi.

Faccio fatica a respirare: il mio petto si alza e si abbassa velocemente.

«Roma» bisbiglio.

La porta d'ingresso si apre di scatto facendo entrare il rumore tumultuoso del temporale e compare Adriel, bagnata fradicia.

«Daniel, dobbiamo farti uscire di qui!» esclama la mia amica.

Alza lo sguardo e non appena mi vede sussulta, rimanendo a bocca aperta.

«Che cosa ci fai qui?» domanda sbalordita Adriel.

«Non lo so» rispondo sconcertato Daniel.

«Non importa. Adesso dobbiamo andare» insiste la mia amica.

«Non posso uscire da qui, lo sai...» mormora il mio amico.

In preda ai singhiozzi, rivolgo uno sguardo ai miei amici fantasmi, rimasti per tutto il tempo in disparte a osservare la scena.

«Posso farti uscire io...» sussurro a testa china.

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