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Capitolo 6

Il silenzio la accerchiava mentre percorreva le scale di quella che, un tempo, era stata una scuola. Il visore non le dava più fastidi eccessivi, quel giorno si limitava a sfarfallare di tanto in tanto. Con le dita a sfiorare il corrimano – la polvere depositata le si appiccicò addosso, a formare un nuovo strato di pelle – Elettra raggiunse il secondo piano.

Si bloccò sulla soglia delle scale, ad ammirare il modo in cui raggi del sole attraversavano i vetri delle finestre e si abbattevano sui muri. Muri che un tempo erano stati di un azzurro brillante, e che ormai ricordavano i reparti di un ospedale; eppure il sole donava loro un aspetto rinnovato, vivace. Quasi le sentiva, le voci dei ragazzini intenti a scorrazzare di qua e di là fra una lezione e l'altra. Si immaginò lì, a uno degli ultimi banchi, seduta composta, con il naso fra le pagine di un libro.

Camminò fra le aule abbandonate. Le porte la accoglievano spalancate su classi piene di banchi vuoti. Elettra ne contò cinque, prima di trovare quella giusta.

I fulmini le si concentrarono nel petto, le avvolsero il cuore in una spirale. Un respiro, e tornarono al loro posto, relegati nelle profondità della sua persona. Entrò in punta di piedi, come se temesse di disturbare l'equilibrio fatto di silenzio all'interno.

Una persona aspettava in piedi, affacciata alla finestra. Non emetteva suoni né si muoveva, una creatura quasi perfetta nella sua immobilità. Tanto che, per un attimo, Elettra si chiese se fosse reale.

Poi però la ragazza si voltò. I capelli le ricadevano di lato, scomposti. Le ciocche le terminavano a metà del collo, dove si arricciavano verso l'alto. Aveva un'espressione neutra in viso, leggermente contrariata. Il sole accentuava il pallore della sua pelle: i raggi sembravano trapassarla, come se non fosse nemmeno una creatura appartenente a quel mondo ma solo un'illusione, destinata a svanire da un momento all'altro.

Elettra si aggrappò alla finta pelliccia del proprio cappotto, se lo strinse addosso. E mosse un paio di passi in avanti, prima che l'altra si dileguasse. «Salve.»

Ottenne un cenno del capo come risposta.

Spense il visore, la guardò attraverso il buio. La sconosciuta emanava un'aura particolare: i suoi fulmini si concentravano sulla parte superiore della sua figura, e anziché scoppiettare di impazienza, scorrevano liberi e folli nelle vicinanze. Una figlia della Tempesta, per di più diversa da qualsiasi altro avesse mai incontrato prima. Riaccese il visore; la luce dei fulmini si spense, rimpiazzata dal sole.

La ragazza inclinò la testa, le labbra tremolarono appena verso l'alto. «Salve.» Elettra si ritrovò i suoi occhi incollati addosso, accesi di una consapevolezza che le diede i brividi. «Ero qui per il circolo di aiuto per i figli della Tempesta. Mi hanno detto di aspettare qui.»

Perfino la sua voce era atona.

Elettra si tolse la giacca, la ripose sull'appendiabiti accanto all'entrata. «Sì, è qui. Tra poco dovrebbero arrivare anche gli altri.» Azzardò un sorriso, che le morì sulle labbra davanti alla serietà dell'altra. Si schiarì la voce e riprovò. «Mi chiamo Elettra, gestisco io gli incontri.»

Le porse la mano. L'altra la sfiorò appena con le dita in una presa sgusciante. «Io sono Maxine. Anche se preferisco Max e basta.»

C'era qualcosa, in Max, che la incuriosiva. Non tanto per l'aspetto androgino o per il blazer troppo freddo dall'aria tutta stropicciata che vestiva. Qualcos'altro, nella sua presenza, nel modo in cui lo sguardo le si posava addosso, la confondeva.

Max aggrottò la fronte, e l'impassibilità dietro cui si nascondeva si sgretolò in mille pezzi. «Come funziona? È come una specie di psicoterapia di gruppo?»

Elettra spostò una delle sedie, ruppe il cerchio imperfetto che formavano. Si diresse al centro, verso il proprio posto, ma se ne stette in piedi. «No,» sorrise. «Non sono qualificata per psicanalizzare la gente. Qui puoi venire a sfogarti, parlare con qualcuno che possa capire i tuoi problemi.»

«Oh.» Max era un tipo difficile da decifrare, eppure la delusione le lampeggiò sulle labbra, arcuate verso il basso.

Elettra strinse lo schienale della sedia accanto a sé, si aggrappò a quella plastica del colore del legno come se temesse di affogare. «Ma il vero scopo è quello di imparare a controllare la Tempesta,» aggiunse. L'altra sollevò la testa, incuriosita. Elettra sentì i fulmini girarle attorno al cuore, in una corrente veloce.

«Come?» chiese Max in un sussurro.

Ecco il vero motivo per cui era lì.

Elettra non poté fare a meno di sorridere. Forse qualcuno davvero interessato al suo circolo c'era davvero. «Ci sono delle tecniche molto utili. Per imparare a conoscere i nostri fulmini, accettarli, prima di poterli controllare.»

E allora Max si mosse: si allontanò dalla finestra, lenta. Lasciò un senso di vuoto, lì dove si trovava, dove i raggi del sole adesso battevano contro il pavimento. «Vorrei partecipare a un incontro, per provare.»

«Certo, sei la benvenuta.» Allentò la presa sulla sedia. Con il braccio libero, indicò uno dei posti attorno a sé. «Prego, siediti. Fra poco dovrebbero arrivare anche gli altri.»

Max impiegò del tempo per prendere posto. Soppesò ogni possibilità, finché si accomodò il più vicino possibile alla finestra.

Elettra si tirò il lobo dell'orecchio, pensierosa: per quanto ci provasse, non trovava un senso nel comportamento di quella ragazza. Era un mistero, un rebus che non riusciva a decifrare. «Come mai sei qui?»

«Ho qualche problema a controllare la Tempesta. Ultimamente.»

«Prima quindi ci riuscivi?» Raro incontrare qualcuno con un minimo di controllo, fra gli ibridi. Un'altra repressa, avrebbe detto Altair.

La maschera di fredda distanza tornò a coprire il volto di Max. Lei tese il busto in avanti, assorta, come se stesse ascoltando qualcosa, una voce che esisteva solo per lei. «Più o meno.» Non aggiunse altro, e forse era il caso di chiudere lì l'argomento.

Anche Elettra si sedette. Diede qualche colpetto sulla gonna lunga, per togliere dei residui di polvere. Cercò un argomento da tirare fuori per conversare, passare il tempo in attesa dell'arrivo degli altri; Max però si teneva aggrappata allo schienale, voltata verso la finestra alle sue spalle. Osservava il mondo fuori, il cielo bianco.

Elettra non osò fiatare. Aspettò soltanto, cullata da un silenzio pacato, confortevole. Proprio in quel silenzio, notò un sorriso appena accennato sulle labbra di Max, e la imitò di riflesso.

La tranquillità si disperse con il rumore di passi in avvicinamento. Tre persone diverse, che varcarono la soglia quasi in simultanea.

«C'è una stronza nuova?» Altair la indicò con la mano, poi sollevò il mento in un saluto.

Mira degnò Max di un'occhiata sfuggente e un mezzo grugnito, poi si accomodò di fronte a Elettra, come il primo giorno. Distante da Max almeno di tre posti. Altair le andò dietro, sprofondò sulla sedia accanto.

Vega rimase sulla soglia qualche istante di più. «Le ho beccate a prendersi a parolacce mentre venivo,» spiegò. E mentre Elettra nascondeva una risatina dietro il pugno chiuso, lui sventolò il braccio a salutare Max. «Benvenuta,» disse sedendosi.

«Grazie.»

Elettra li indicò a uno a uno. «Max, loro sono Vega, Mira e Altair. Qualsiasi cosa dicano, non prenderla sul personale.»

«Quindi, che si fa oggi? Ci confessiamo?» Altair picchiava il pavimento con la punta della scarpa.

La solita idiota.

In un sospiro, Elettra si rilassò al suo posto. Tutte quelle energie diverse la attiravano, la chiamavano da quattro direzioni differenti. I suoi fulmini si allungavano, cercavano quelli altrui; finirono per non raggiungere nessuno, si annullarono a vicenda, costretti nei loro confini, al centro esatto del suo petto.

«Pensavo di ascoltare cos'ha da dirci Max, visto che è la nuova arrivata?» Suonò come una domanda, eppure nessuno si oppose.

Max annuì in silenzio, senza nemmeno guardarla. «Cosa devo dire?»

«Presentati. E magari puoi spiegarci come mai sei qui.»

Altair si esibì in uno sbuffo teatrale, i pollici che tamburellavano sulla gamba a un ritmo veloce. «Quindi ci confessiamo,» sbottò.

Le arrivò un ceffone dietro la nuca. Vega. «La lasci parlare?»

Fra tutte le reazioni che si sarebbe aspettata da Max, il suo ridacchiare sotto i baffi di certo non rientrava nella lista. Elettra sentì i fulmini lasciarle il petto, scorrere via, verso i rimasugli di una scatola; respirare le divenne tutt'a un tratto più facile. «Non ho molto da dire su di me. Sono una musicista. E l'altro giorno mi sono resa conto di avere un problema con la Tempesta.»

«Che è successo, ti sei data la scossa da sola?» disse Altair.

Max alzò il mento nella sua direzione – una sfida?, o una presa in giro? – ma la ignorò. «I pensieri del pubblico mi hanno assalita, e non sono riuscita a tenerli a bada. Mi hanno confusa, e sono svenuta durante un concerto. Ora non riesco più a zittirli.»

Mira incrociò le braccia al petto. «I pensieri?»

«Sì.»

«Leggi nel pensiero?» Elettra fece scivolare la sedia verso di lei, senza rendersene conto. Il suono delle gambe che stridevano contro il pavimento la fece rabbrividire.

Max scrollò le spalle. «Leggere non è la parola giusta. I pensieri sono parole, sì, ma sono anche immagini, odori, sensazioni.»

Un pezzo del rebus era appena stato risolto. La capacità di Max spiegava tante cose, dalla sua aura tanto peculiare, al modo in cui si bloccava come ad ascoltare qualcosa che esisteva solo per lei. In quei momenti era impegnata a scrutare nelle loro menti, udiva i pensieri inespressi dietro le loro parole.

Una capacità incredibile.

Elettra si ritrasse, le dita a tirarle il lobo dell'orecchio. Incontrò l'orecchino, se lo rigirò fra i polpastrelli.

«Come?» chiese Mira.

«Ci prendi per il culo?» disse Altair.

Non era difficile, comprendere il come. Avevano già incontrato un ibrido capace di manipolare le menti altrui; la telepatia doveva avere un funzionamento simile.

Vega teneva una mano ferma sulla nuca, lo sguardo incollato sulle mattonelle ingiallite. «Sfrutti l'elettricità dei neuroni.» Alle sue parole, perfino Altair si zittì: si morse il labbro e schiantò un pugno contro la sua stessa gamba.

«Non so il funzionamento preciso.» Max reclinò la testa. I capelli le ciondolavano verso il basso. «Non ci ho mai capito un'acca di fisica. C'entra con gli impulsi elettromagnetici, credo.»

«Che stronzata.» Altair scattò in piedi, il pollice puntato contro di sé. «A che numero sto pensando allora?»

Max si prese del tempo per contemplarla. La osservava come se avesse un esemplare di una qualche creatura leggendaria di fronte. Un paio di secondi, e le labbra le si distesero, la testa ondeggiò. «Al sessantanove.»

C'era da aspettarselo.

Vega scacciò l'aria con la mano. «Troppo facile. Questa la sapevo anch'io.»

Altair gli mostrò il medio. «Lei, allora. A che cazzo pensa la pazza sadica?» Indicò Mira, che si strinse nelle braccia.

Un osso duro, Mira. Eppure non così difficile da leggere. Anche Elettra lo vedeva, adesso che ci faceva caso, che qualcosa la turbava. Cosa però non le era dato saperlo. Così accostò il palmo alla guancia e attese in una risposta più precisa. Chissà, forse con l'aiuto di Max avrebbe ottenuto qualcosa di più di una semplice sfilza di "normale".

Con un cipiglio divertito, Max si passò la lingua fra le labbra. «È preoccupata per te, a quanto pare.»

«Stronzate,» sbottò Mira.

Altair piombò di nuovo sulla sedia. Le spinse il gomito nella spalla, ammiccante. «Guarda che puoi dirlo, che pensi a me tutto il giorno. Tanto lo sappiamo tutti.»

«Perché sei preoccupata per Altair? È successo qualcosa?» Elettra andò a recuperare una penna da uno dei banchi addossati alle pareti. La trovò accanto al taccuino dalle pagine bianche. Prese entrambi, fiduciosa: se lo sentiva, con l'arrivo di Max avrebbe ottenuto dei risultati con il suo circolo.

Avrebbe davvero aiutato gli altri figli della Tempesta.

«Niente.» Fu Altair a risponderle, secca.

Elettra si accomodò al proprio posto, aprì il taccuino e stappò la penna. «Non ti credo,» rispose, distratta, mentre scriveva la data.

«E non credermi, sai quanto me ne frega?» Il ginocchio le si agitava di propria volontà. Un semplice segno del suo problema di iperattività, di solito, eppure quella volta sentiva qualcos'altro, un'inquietudine nei suoi fulmini.

«Bugiarda,» mormorò Max.

Mira annuì. «Bugiarda,» ripeté, voltata verso Altair.

«Stronze.» La sedia volò all'indietro, travolta dal movimento; Altair avanzò di un paio di passi, superò Elettra, spargendo il suo profumo di ambra e Tempesta. Sulle braccia le scorrevano i fulmini scalpitanti.

Puntava contro Max. Vega si mosse per primo: si frappose fra le due, un braccio a tenere lontana Altair. «Ti dai una calmata?»

«Levati dal cazzo, superuomo.» Lo spinse, ma lui teneva i piedi inchiodati al pavimento. Non si postò di un millimetro.

«Dovresti dirglielo.» Max restava seduta, le gambe larghe e il mento sollevato. Non la temeva. La sua aura era tranquilla.

«Dirci cosa?» chiese Vega.

Partì un calcio. Altair scagliò una sedia vuota contro il muro. Il frastuono fu improvviso, ed Elettra sobbalzò sul posto. La penna le cadde dalle dita. Per fortuna nessuna scheggia di plastica schizzò via, e a parte lo schienale crepato al centro, la sedia rimase intatta.

Poi Altair si portò una mano al fianco, i muscoli del viso contratti. Dalle braccia, i fulmini le migrarono verso l'anca, si concentrarono poco più su, come per risanare una ferita che non c'era. Sparsero la loro luce rossa per un paio di istanti, prima di dileguarsi.

Elettra le prese la spalla, le fu subito a fianco. Si aspettava l'energia pungente dell'altra scorrerle sotto i polpastrelli, richiamare le sue saette. Invece la invase solo il calore della sua persona e la ruvidezza della maglia. Nient'altro. «Che hai? Stai bene?»

Perfino Mira si era alzata, benché restasse a distanza.

«Smettetela di starmi tutti addosso, sto bene.» Altair si liberò con uno strattone. Uscì dal cerchio di sedie, diretta verso la porta. Solo quando raggiunse la soglia i fulmini tornarono a circondarla. «Divertitevi a confessarvi i vostri segreti di merda, io ho di meglio da fare.» Se ne andò così, con Mira che la seguiva in silenzio.

Senza di loro, calò il gelo.

Elettra rabbrividì, si strinse fra le braccia. Cos'era appena successo? Negli ultimi tempi le cose succedevano così in fretta: tutto andava bene, e l'istante dopo qualcuno esplodeva. Senza un motivo apparente, succedeva e basta.

O forse era solo lei a non capire. Forse era lei a essere troppo distratta per notare i piccoli dettagli, i segnali che le persone attorno a lei mandavano prima di rompersi del tutto.

Vega le carezzò una spalla. Gli si strinse e posò la mano sulla sua. Lui ci riusciva, a vedere quei segnali. Era sempre lì, pronto a sorreggerla.

Da quando Elettra non ne era più capace?

«È stata colpa mia.» La voce di Max le entrò nel cervello, affilata come una lama.

Elettra scosse il capo. «No, non è vero. Siamo sempre stati un gruppo di pazzi.»

Poteva celarsi qualsiasi cosa, dietro lo sguardo impassibile di Max. Eppure, si convinse di vedere l'accenno di un sorriso sulle sue labbra. Non proferì parola, attese e basta. Dopotutto, per una persona come lei parlare doveva risultare spesso inutile: perché porre una domanda, se si conosceva già ogni risposta?

Allora Max la stupì. Con dei modi pachidermici, si issò in piedi. Si diede un paio di colpetti sulle gambe, ad appiattire le pieghe dei pantaloni. «Mi dispiace se vi ho fatti sentire a disagio.»

Vega si grattava la base del collo. «Sono stato abituato a gente che mi scombussolava il cervello. Almeno tu ti limiti a dare un'occhiata.» Lo disse con una tranquillità inaspettata. Tuttavia, quando Elettra gli posò una mano sul petto, sentì i suoi muscoli contratti.

«Non devi sforzarti,» rispose Max.

«Vuoi provare qualche esercizio di controllo?» Elettra le si avvicinò. Erano simili, di altezza. Max era di poco più bassa. «Dato che i due bufali sempre arrabbiati se ne sono andati.»

L'altra rifletté a lungo, lo sguardo basso, il sole che le illuminava i capelli. Quando annuì, si lasciò prendere per le mani e condurre di nuovo al proprio posto. Elettra questa volta le stette vicina.

«Chiudi gli occhi. Concentrati sui tuoi fulmini,» le disse, piano.

Max obbedì, sebbene con evidente disagio. Vega fece altrettanto.

«Ora,» continuò Elettra, «cerca di capire cosa vogliono. Cosa ti dicono. Ascoltali.» Un esercizio che avrebbe dovuto ricominciare anche lei, si rese conto. Aveva smesso di ascoltare la voce della Tempesta dentro di lei, e quella per tutta risposta le gorgogliava tutto il giorno nello stomaco.

Un paio di momenti di esitazione, poi Max abbassò le sopracciglia. «Mi dicono che dovresti badare un po' di più a te stessa.»

«Mi sono simpatici,» disse Vega.

Elettra si concesse una risatina. «Va bene, d'accordo. Ma intendevo che devi sentire i tuoi, non i miei.»

«Ah, va bene. Sono irritati. Credo.»

«Irritati?»

«Sì. Si sentono un po' esclusi.»

Era bello trovare qualcuno con un minimo di capacità introspettive, una volta tanto. Le dita di Max sgusciarono via dalle sue, ma Elettra le strinse più forte per impedirglielo. «Sei tu a escluderli?»

Ci fu una lunga pausa, poi Max tirò su col naso. «No. Cioè forse. Non credo?»

«Dovresti dargli più ascolto.» Un consiglio ipocrita, da parte sua. Lei che era la prima a tenerli rinchiusi. Sperò che l'altra non glielo facesse notare.

Max riaprì gli occhi, scuotendo il capo. «Ma non sono irritati verso di me, si sentono esclusi dagli altri.»

«Oh.» Una possibilità che non aveva preso in considerazione. Elettra si schiarì la voce e ritrasse le mani, le ripose sul grembo. «Allora forse devi imparare a farli uscire di più. Devi farli sentire agli altri.»

Vega sporse il busto dalla sedia. «Diventa prepotente, come quella testa di rapa di Altair.»

«Cioè devo lanciare le sedie contro i muri?» rise Max.

Elettra scrollò le spalle. «È un metodo come un altro. Forse non il più consigliabile...»

«È che non saprei proprio come fare,» la interruppe l'altra. Si morse il labbro subito dopo, voltando il collo verso la finestra. Si nascondeva dai loro sguardi, o forse cercava di sfuggire al proprio, riflesso nei loro.

Elettra le diede un buffetto sul ginocchio. «Per questo sono qui, no? Ti aiuterò io. Se vorrai continuare a venire.»

Max si scompigliò i capelli in un gesto distratto, senza proferire parola. Fissava il pavimento con la fronte corrugata. Ascoltava qualcosa, si rese conto Elettra, e quel qualcosa con ogni probabilità erano i suoi pensieri. La testava.

Ma quando Max si sollevò in piedi, aveva un sorriso molle. «Ci vediamo la prossima volta, allora.»

Se neandò così, portandosi dietro la sua aura misteriosa. Se davvero c'era stato untest, Elettra l'aveva passato.

Note:

Il nostro gruppo di pazzi ha incontrato Max. Non è da me non far attendere secoli per unire tutti i personaggi, quindi siate felici del miracolo ahahah

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