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Capitolo 3

Di notte faceva un freddo bastardo. Altair si addentava le pellicine sulle labbra screpolate. Le tirava, e il sapore del sangue le arrivava sulla lingua. Il dolore invece no, troppo atrofizzato dal vento ghiacciato.

Mira la seguì fino al Pink Alley, sotto i balconi sgangherati di case di vecchio stampo che si fingevano nuove con delle luci e brutte decorazioni appese qui e lì. Il rosa lampeggiava ovunque, un pugno in un occhio: insegne di coniglietti rosa a indicare porte sbarrate, graffiti di stelline e dolcetti rosa sui muri, bandiere rosa che sventolavano fuori dalle finestre. Quell'angolo di Nuova Folk era l'equivalente della cameretta di una marmocchietta in piena fase preadolescenziale.

Di persone, a quell'ora, nemmeno l'ombra. La musica del locale le era rimasta in testa, e Altair muoveva la testa seguendone il ritmo mentre si addentrava per quelle stradine sdolcinate.

«Quindi?» Mira le camminava a fianco, si esibiva di quando in quando in delle smorfie alla vista dei coniglietti felici e di tutte le stronzate che decoravano Pink Alley. «Non avevi detto che dovevamo friggere qualcuno?»

Altair si batté un paio di colpi sulla gamba. «Sherlin e la sua banda di stronzi.»

«Chi?»

«Un gruppo che fa contrabbando di armi, spaccio di non so che schifezza e cagate del genere. Rubano la roba agli altri e la rivendono, o qualche cazzata del genere.» Le informazioni inutili le aveva rimosse. Si era scritta soltanto la parte importante: il nome della banda da cercare e il luogo in cui si sospettava si nascondessero. Del resto non gliene fregava nulla.

Mira sbuffò. «Perché?»

Quante domande faceva. «Hanno una taglia sulla testa.» Sparò un colpo immaginario in aria, con le dita. «E non so tu, ma a me servono i soldi.»

«Come sai che sono qui?»

Altair calciò un bicchiere di plastica randagio, schiacciato su se stesso e tutto ammaccato. «Fonti certe,» disse soltanto.

A Mira non bastò. Non le bastava mai. Doveva essere il suo passato da poliziotta a renderla tanto rompicoglioni. «Cioè? Mi stai facendo lavorare di nuovo per la polizia?»

«Può darsi.» Scrollò le spalle, i fulmini che le guizzavano fra le nocche. Cercò una fonte di calore nel loro scoppiettio sulla pelle. Faceva davvero un cazzo di freddo, quella notte. «Ma un conto è lavorare con quel quattrocchi sfigato e la gorilla incazzata, un conto è lavorare con me.» Le strizzò l'occhio.

Caddero un paio di gocce dal cielo. Le colpirono la nuca. Le nuvole si addensavano sopra i tetti dei palazzi, una sfumatura di bianco che schiariva il colore scuro della notte. Per un attimo, i fulmini di Altair si ringalluzzirono: si ricordarono della Tempesta, della forza immensa che portava con sé.

Peccato che la Tempesta non esistesse più. Tutto ciò che ne restava lo custodivano dentro di loro.

«Sei una gorilla incazzata anche tu,» le disse Mira.

Altair abbassò il capo, batté le palpebre in una vaga confusione. Aveva perso il filo del discorso, ma non importava; schiacciò il bicchiere di plastica sotto la suola e glielo calciò contro. «Senti chi parla.»

Mira non si spostò di un centimetro, rimase dov'era, con le mani nelle tasche del cappotto lungo, il mento affondato nella finta pelliccia e il cappuccio che le ondeggiava dietro le spalle, trasportato dal vento. Il bicchiere le centrò la tibia, poi le crollò ai piedi, pieno di graffi. «Hai chiesto il mio aiuto solo perché speravi mi rendessi utile.» Stirò il collo, distogliendo l'attenzione. «Perché ero un poliziotto.»

Troppe cose non dette le sporcavano le labbra.

«Perché? Cosa speravi, un appuntamento romantico?»

«Lascia perdere.» Nascondeva quasi metà volto nella pelliccia del cappotto. Si rattrappiva sempre di più. «Cosa sappiamo di loro?» chiese piuttosto, e le bastò pronunciare quelle semplici parole per tornare la Mira di sempre, quella pazza sadica dall'espressione corrucciata e un bisogno estremo di una scopata.

Altair l'accettò sbuffando un sorriso. Le batté una pacca sulla spalla, a nocche chiuse. «Non so un cazzo, a parte che di solito si aggirano da questi parti, durante la notte.»

«Cos'hai detto che fanno? Spacciano armi?»

«E combinano qualche casino di qua e di là. Forse spacciano anche qualche roba strana, forse se la pippano e basta. Non me lo ricordo.»

Non arrivarono altre domande. Mira riprese a camminare, con la sicurezza di chi sapeva cosa faceva. Oltrepassò il murales di una donna seminuda che sbuffava zaffate di fumo in una posa provocante; se lo stile di disegno non le avesse fatto sembrare la faccia un ammasso di rombi e le tette dei siluri sproporzionati, forse sarebbe anche risultata sexy. Così era solo ridicola.

«Quindi? Qual è il piano?» chiese Mira.

Altair le trotterellava al fianco. Altre gocce di pioggia le si depositarono sul naso. «Quale piano? Ti sembro una tipa da piani?» Si tamburellava le dita sul fianco, godendosi il tepore dei fulmini che le circondavano le braccia.

«Domanda stupida,» ammise l'altra.

Si aggirarono per quella che ad Altair parve un'eternità, ma che l'orologio sul cellulare segnava come tre quarti d'ora. Mira fermò quei pochi stronzi che si trovavano in giro – fra cui una donna anziana con i capelli da nonna e la faccia di un barboncino incazzato pieno di rughe, e un ragazzo troppo fatto per smettere di ridere come un coglione. Racimolò poche informazioni frammentate.

Sherlin era il nome del loro capo.

Secondo una diceria, bisognava bussare per tre volte sul murales della donna fatta di rombi, e i membri della sua banda sarebbero venuti per arruolarti.

I membri della banda indossavano sempre qualcosa di rosa.

Sherlin soffriva di gravi squilibri mentali.

Sherlin aveva un cane a due teste che sputava fuoco.

Alla fine Mira appoggiò la schiena al muro in un sospiro. Si teneva la radice del naso fra indice e pollice. La pioggia cadeva timida, in una manciata di gocce alla volta. «Odio indagare.»

«Possiamo sempre provare a bussare sulle chiappe di quel murales e vedere se qualche stronzo viene a ingaggiarci,» le rispose Altair.

L'altra si schiaffeggiò il viso con il palmo, in uno schiocco sonoro. Al di là della pelliccia però spuntava un sorriso accennato. «Ci vengono a prendere con il cane a due teste?»

«Meglio quello che il gatto della ghiacciolina.»

Scuotendo la testa, Mira si staccò dal muro. Dischiuse le labbra, pronta a replicare qualcosa, ma le richiuse subito.

Delle voci dall'altro lato della strada attirarono la sua attenzione. Altair la seguì verso la fonte delle voci. Le saette che le scorrevano addosso illuminavano l'asfalto rovinato. Mira le diede un pugno sul fianco e indicò i fulmini; in uno sbuffo, Altair li costrinse a tornarsene nascosti dentro di sé.

Scalpitavano ancora. Le bussavano sulle pareti dello stomaco.

Tre ragazzini si bisbigliavano qualcosa seduti su delle casse vuote. Il più grande – diciassette o diciotto anni al massimo – si scompigliava i capelli biondi e ridacchiava fra sé e sé; agitava la mano di tanto in tanto, a scacciare la puzza dei bidoni di immondizia pieni dietro di lui. Indossava una sciarpa di seta rosa.

Una ragazzina poco più piccola, imbacuccata in un cappotto rosa, lo fissava con gli occhi sgranati. L'ultimo, un tipo smilzo, si rigirava un cappellino, sempre rosa, fra le mani.

Mira sollevò un braccio per intimare ad Altair di fermarsi. «Sono loro.»

«Sono marmocchietti.» E lei che si aspettava un branco di tizi grandi e grossi, vestiti in abiti eleganti con delle cravatte sgargianti.

Mira non le rispose, li raggiunse ad ampie falcate. Nemmeno i riflessi rosa dei neon riuscivano ad addolcire la sua figura.

Il primo ad accorgersi di lei fu il biondo. Scese giù dalla scatola con un salto. «Vuoi qualcosa?»

«Siete voi gli sgherri di Sherlin?»

Altair sollevò entrambe le sopracciglia. Un approccio fin troppo diretto. Le piaceva.

I ragazzini si irrigidirono e serrarono le labbra. «Che volete?»

«Ci servono delle armi.» Altair passò un braccio sulle spalle di Mira, la attirò a sé. La sentì contrarre i muscoli sotto il suo tocco, ma i fulmini dentro di lei fremevano. «Per rapinare qualche ricco stronzo.»

«Noi non spacciamo armi,» rispose il biondo.

Mira alzò l'indice a indicare la pistola che gli penzolava dalla cintura. «E quelle come le avete prese? Dubito che abbiate il porto d'armi, a tredici anni.»

«Diciassette e mezzo.» Il biondo si puntò il pollice addosso. Altair lo squadrò in silenzio, e il disagio di lui fu visibile: la corda che lo teneva sollevato si spezzò e il mento gli cadde giù, a incassarsi nel collo.

Gli altri gli si avvicinarono, bisbigliarono qualcosa fra di loro.

Mira sbuffava. Sprizzava energia nonostante tentasse di tenerla a bada. I fulmini dentro di lei cantavano una melodia che le saette di Altair conoscevano fin troppo bene. Eppure non disse nulla, mantenne l'attenzione sul gruppetto di ragazzini sfigati e attese che si decidessero.

Altair non dimostrò la stessa pazienza. Stiracchiò le braccia e scrocchiò il collo. Faticava a convincere la Tempesta a non uscire. «Quindi? Marmocchietti di diciassette anni e mezzo, ci date le armi oppure no?»

«Dobbiamo portarvi da Sherlin. Deve essere lei a decidere se siete degne,» rispose il biondo.

«Degne?» ripeté Mira.

La ragazzina annuì. «Non facciamo affari con chiunque. Seguiamo degli ideali, non siamo mica semplici criminali da strada.»

Ci mancavano i sognatori idealisti di chissà che cazzo.

Mira arricciò l'angolo delle labbra. Era disgustata tanto quanto Altair, o forse era troppo abituata a stronzate del genere. «Portateci da lei allora.»

Il biondo e lo smilzo sollevarono le mani. Stringevano delle corde sfilacciate, tozze e non molto lunghe, dalle estremità usurate. «Dobbiamo legarvi però, è la procedura.»

«Che cazzo è?» chiese Altair. «Un gioco osé?»

«O così o non se ne fa niente,» ripeté il biondo.

Incurante del mezzo grugnito esasperato di Mira, Altair fece spallucce e gli porse i polsi. Non sarebbe stata di certo una corda consumata a impedirle di fare casino e catturare Sherlin. Mentre il biondo le legava le mani, i fulmini le si esibirono in uno scoppio pirotecnico nel ventre. Cominciavano a stancarsi di tutte quelle cazzate.

Il ragazzo era tutto concentrato. Muoveva le dita in maniera impacciata, la corda gli sfuggiva ogni due per tre. Formò un nodo moscio, che non avrebbe bloccato nemmeno la più svenevole delle principesse delle favole.

Altair accostò il volto a quello di lui. «Stringi più forte, non stai mica legando la tua amante.»

Non ottenne una risposta né un'occhiata. Le guance del ragazzo assunsero una tonalità più accesa. Disfece il nodo e ne fece uno nuovo. Questa volta tirò le estremità della corda fino a fermarle la circolazione; il formicolio le salì lungo i polpastrelli.

Nel frattempo, lo smilzo riservò lo stesso trattamento a una Mira annoiata.

«Gael, controlla che non abbia armi,» disse lo smilzo al biondo.

Quello mostrò i denti, serrati, e subito dopo finse un sorriso. «Lo so.» Era ovvio che no, non se lo ricordava. Si fece più vicino, più alto solo di un paio di centimetri rispetto ad Altair, ne evitava lo sguardo. Gli occhi sfuggivano, il respiro sembrava affaticato e le colpiva la punta del naso in piccoli e continui colpetti.

Mai mettere un verginello imbranato a fare il lavoro di un adulto.

Le tastò i fianchi, sotto il cappotto. Le mani la sfioravano appena. Altair premette le labbra una contro l'altra e attese, finché sul viso non le sbocciò un sorrisetto.

«È a posto.» Gael si scansò di colpo, schiarendosi la gola. Era quasi ridicolo, con il rosso che gli imporporava la pelle sotto gli occhi e la capigliatura rasata sui lati, da finto ribelle.

«Seguiteci,» disse allora la ragazza.

Accompagnate da Gael e dallo smilzo, Altair e Mira le andarono dietro, una accanto all'altra. La ragazza si infilò all'interno di un tombino; Mira esitò prima di imitarla; Altair la spinse in avanti con un colpo di gomito. Ed entrambe si calarono nella rete fognaria, dove la puzza stordiva perfino i topi e l'umidità faceva scazzare i fulmini.

Le pareti di un grigio spento li accolsero, insieme a tutti gli strati di muffa e sporcizia che le ricoprivano. L'acqua era putrida, e scorreva al centro in un rivolo maleodorante. Delle passerelle di legno collegavano le due estremità del fiume di schifo; macchie di marcio le attraversavano ovunque, improbabile che reggessero il peso di una persona.

I ragazzi le condussero lungo i cunicoli sporchi, da una fonte di puzza all'altra. Altair si portava le mani ai capelli di continuo, a controllare che l'umidità non li rendesse una massa di ricci incolti. Il freddo le penetrava nel cappotto, le accarezzava la pelle con le sue dita gelide.

Almeno il rosa si era tolto dalle palle. Un punto positivo.

Salirono una scala a pioli di ferro – impresa tutt'altro che divertente, con le mani legate, ma Altair la prese come una sfida – e varcarono una porta circondata di luci rosa.

Come non detto. Quel colore di merda continuava ad attentare alla sua vista, sgargiante come non mai.

Oltre la soglia, all'odore nauseante si mescolò qualcos'altro: profumo di dolcetti e cannella. I fulmini si rivoltarono su loro stessi, spinsero su verso la trachea in un fiotto di bile. Altair la rimandò giù a fatica, ma le bruciò la gola. Il miscuglio era una delle cose più disgustose che avesse mai annusato.

Una lampadina dondolava dal soffitto. Sfiorava una testa, ne proiettava l'ombra, netta e precisa, sulla parete. Una ragazza stava scomposta su una sedia addobbata con adesivi di coniglietti rosa e strani pezzi di legno incollati allo schienale. Non era seduta, ma in piedi, la suola di uno degli anfibi sul bracciolo. Una benda con un cuore disegnato sopra le copriva un occhio.

«Chi sarebbero, queste?» Masticava una gomma. Formò una bolla – rosa, che novità – e la fece scoppiare.

Gael le andò incontrò trotterellando. Un fiocco in testa, una pallina in bocca e la trasformazione in cagnolino fedele sarebbe stata completa. «Ci hanno chiesto delle armi.»

La stramboide aggiustò l'elastico che le teneva legati i capelli. Una coda colorata le si ergeva sulla nuca, per poi scenderle lungo la schiena e formare un arcobaleno che dondolava a ogni suo movimento. «Armi? Per fare cosa?»

«Divertirci a sparare a cazzo per strada,» rispose Altair, il capo inclinato.

Sherlin la scrutò in silenzio, scivolando a sedere sul trono dei perdenti. La giacca di jeans le si aprì, e al di sotto s'intravedeva bene il disegno astratto stampato sulla maglia. Schioccò le dita. «A cosa vi servono? Cosa ci otteniamo noi, a darvele?»

Una domanda del cazzo. Altair aggrottò la fronte. «Soldi?»

«Non mi interessano.» Si alzò in piedi. Fece scoppiare un'altra bolla. «Voglio sapere le vostre motivazioni. Io non do le mie armi a chiunque.»

Nella stanza regnava una semioscurità che inghiottiva gran parte del mobilio – se così si poteva chiamare. Ammassate nel buio, però, spuntavano degli scatoloni straboccanti.

«Se non vuoi soldi, che cosa ci guadagnate?» Mira teneva i polsi legati vicini al corpo. Le labbra spiccavano violacee, forse per il freddo. Lo smilzo aspettava sull'attenti alle sue spalle.

Annuendo, Sherlin aggirò il suo trono e allungò il braccio sopra la testa. Si aggrappò a una cordicella che pendeva dal soffitto. «Ci sono tre regole, per fare affari con me.» Tirò la cordicella e un cartellone si dispiegò dietro di lei. Una scritta a caratteri cubitali accompagnava un disegno stilizzato.

«No, cazzo.» Altair alzò gli occhi al soffitto. «Le slide no.»

L'altra la ignorò. Sfilò un coltello dalla lama scintillante dalla cintura e ne utilizzò la punta per pugnalare il cartellone. «Regola numero uno: dovete dimostrarvi degne della nostra collaborazione. Vi affideremo una missione. Qualcosa di semplice, tranquille.» Scoprì i denti in un sorriso da predatrice folle. «Adatta a due cretine come voi.»

«Che dobbiamo fare? Rubare le caramelle per te e la tua banda di marmocchietti?»

Sherlin sputò la gomma da masticare a terra. L'altra ragazzina si affrettò a raccoglierla e buttarla in un cestino. «No, mi sembri la classica tipa che se le mangia tutte prima di riportarle.» Si ripulì la bocca con la manica, mentre faceva calare il secondo cartellone. «Regola numero due: dovete giurarmi fedeltà.»

«Sei seria?»

«Regola numero tre,» Sherlin pugnalò anche l'ultimo cartellone, proprio al cuore di un soldatino disegnato, «dovete unirvi a noi, aiutarci a raggiungere il nostro scopo.»

La situazione rasentava sempre di più il ridicolo. Mentre Sherlin passava le dita sulla lama del pugnale, attenta a non tagliarsi, Gael le sussurrò qualcosa all'orecchio. Lei lo prese per la collottola, lo spinse contro di sé, gli scoccò un bacio sulle labbra fin troppo rumoroso e lo scacciò via.

«Stai zitto e lasciami fare,» gli disse. Lui, raschiandosi la gola a furia di schiarirsi la voce, si fece da parte.

Il dramma fra i marmocchietti era l'ultima cosa che le ci voleva.

«Quale sarebbe, il vostro scopo? Trovare un parrucchiere decente che non ti faccia sembrare un pony arcobaleno?» chiese Altair.

Per lo meno Sherlin conteneva del senso dell'umorismo, nella sua testolina bacata, perché allargò le guance in un sorriso. «Guarda che ho già dei capelli bellissimi.» Mira emise un verso sprezzante; Sherlin non le fece caso, si rigirò il pugnale fra le dita, dei fulmini le scorrevano sulle nocche. «Noi siamo ribelli.»

«Oh, per favore,» sbottò Mira. «Ribelli di cosa? La società ci ha accettato, sei rimasta indietro.»

L'altra disegnò un arco in aria, un gesto secco. Colpì la lampadina, che dondolò selvaggia; le ombre sulle pareti si allungavano e rimpicciolivano, si spostavano di continuo, in una danza folle. «Noi figli della Tempesta siamo i più forti, dovremmo essere noi a comandare la città.»

Non emanava un'energia potente. Altair lo sentiva appena, il suo campo elettrico. «Mi prendi per il culo? Sai che palle, a riempire scartoffie del cazzo e dare ordini con le chiappe poggiate sulla sedia tutto il giorno.»

Un attimo di esitazione da parte di Sherlin. Gael le sfiorò la spalla, ma lei lo scansò per avanzare verso le altre due. «Siete figlie della Tempesta anche voi.» E poi la consapevolezza la colpì.

Tanto meglio così. Altair cominciava a rompersi i coglioni di sentire i suoi deliri. Chissà perché i leader delle bande di criminali si riempivano sempre la bocca di stronzate da megalomani.

I fulmini le esplosero sulle braccia. Si liberò i polsi con uno strattone: la corda si spezzò in due e crollò a terra. Mira la imitò, un agglomerato di energia accanto a lei. Il suo, di campo, sì che era feroce, sapeva di Tempesta.

«Mi spiace, stronzi, siamo qui per farvi il culo.»

Altair partì all'attacco. Divorò la distanza che la separava da Sherlin prima ancora che l'altra se ne rendesse conto. Abbassò la testa e sferrò un pugno, glielo piantò dritto nello stomaco. Sentì le folgori di lei combattere, tentare di proteggerla; una gomitata in pieno petto, e Sherlin indietreggiò, chinata in due, il respiro affaticato.

Lo smilzo si mosse per primo, estrasse la pistola. Mira gli rigirò il braccio dietro la schiena e lo spinse contro il muro. Alcuni scatoloni si rovesciarono e un mucchio di cianfrusaglie si sparsero sul terreno. Coltelli, piccole spade e un paio di lampade rotte.

Sherlin si ripulì le labbra, macchiate di sangue. «Chi vi manda?»

«Tua madre. Ha detto che dovresti fare i compiti anziché andartene in giro a provarci coi verginelli sfigati.» Altair alzò il mento, accennando a Gael.

Fu il turno dell'altra ragazzina di puntare la pistola. Anche questa volta Mira le fu addosso: un calcio sul ginocchio bastò a farla crollare a terra; una sberla sulla testa e l'altra sbatté i denti contro il pavimento.

«Idiota.» Sherlin roteò il pugnale. I fulmini le strisciarono addosso, si slanciarono in ogni direzione. Si intrecciarono fra loro, modellarono la forma di un corpo femminile. Scoppiettarono e si contorsero su loro stesse, sospese in aria, finché non esplosero in una luce abbagliante.

Quando la stanza tornò nella semioscurità, Altair contò cinque Sherlin.

«A che cazzo ti serve la banda di sfigati, se ti moltiplichi?»

Due delle Sherlin le agitarono i pugnali addosso, in una sfilza di attacchi. Altair roteò via, in una sequenza di passi che la portarono fuori portata. Superò le difese di Sherlin Uno e le schiantò la suola sulla faccia. La mandò a schiantarsi contro il muro.

Il suono di un tessuto strappato le risuonò nelle orecchie. In equilibrio su una gamba, Altair calciò indietro, alla cieca. Trovò della resistenza e spinse con tutta la forza; il frastuono delle cianfrusaglie nelle scatole che si rovesciavano coprì il gemito strozzato di Sherlin Due.

Altair si tastò la schiena fino a trovare uno squarcio nel cappotto. Le labbra le si distesero, i fulmini la ricoprirono, esagitati. Stronza di una marmocchia.

Sherlin Tre e Quattro sferzavano l'aria nel tentativo di ferire Mira. Anche a loro andava una merda. Mira le evitava con facilità, per poi rispondere con colpi precisi e mirati.

«Fai ancora in tempo ad arrenderti ed evitare la figura di merda, pony.» Altair si rivolse all'ultima Sherlin rimasta, in piedi accanto a un Gael tremante.

«Nemmeno per sogno. Ho appena cominciato.» Bluffava. La voce la tradiva, suonava spezzata e più acuta del normale. Nonostante tutto non si arrese. Aveva fegato almeno, questo doveva concederglielo.

Dalle dita puntate in avanti ne uscì un proiettile elettrico. Altair non se lo aspettava. Virò di lato, ma quello la centrò sul fianco. Implose, e una miriade di piccole folgori le bruciacchiarono la maglia; il calore le raggiunse la pelle.

Poi qualcosa dentro di lei si risvegliò.

In un grido profondo, Altair si portò la mano sul fianco. Le ginocchia le cedettero. Il pavimento la accolse, e lei ci poggiò sopra il palmo, a sostenersi. Era ruvido e umido e le imbrattò le dita con qualcosa di disgustoso. Tutti i suoi fulmini si concentrarono su una ferita che non sanguinava – eppure lo sentiva, il bagnato del sangue colarle giù. Le tiravano la pelle, risanavano, ma il loro numero si dimezzò nel giro di pochi istanti.

Poi sparirono del tutto.

Piegata su stessa, Altair respirava appena.

La Sherlin originale ne approfittò per scappare via, seguita da Gael e gli altri due scagnozzi inutili. Altair spostò il peso sulle gambe, chiamò la Tempesta, la pregò di darle la forza di alzarsi.

La Tempesta però non c'era. Così restò solo lì, a tastarsi frenetica il fianco. Cercava un foro, tanto profondo da trapassarla da parte a parte. Sfiorò solo la forma circolare di una vecchia cicatrice.

«Che hai?» Si accorse solo allora di Mira, così vicina che il suo alito le pizzicò la guancia.

Altair le afferrò la manica, si tenne stretta mentre lottava per tirarsi su. «Niente, sto bene.»

«Se devi dire cazzate, almeno dille credibili.» Mira la tirò su di peso. Lei i fulmini ce li aveva ancora, e alcuni le guizzavano sul collo, sparivano sotto i vestiti. Non emettevano energia, però, stavano solo lì, una piccola fonte di luce in una stanza immersa nella penombra.

«Perché cazzo non gli vai dietro?» sbottò Altair. Si tenne a lei, il fantasma di un dolore che credeva di aver dimenticato a tormentarle il fianco.

Mira lanciò un'occhiata alla porta spalancata. «Ormai sono troppo lontani.» Non era vero. Ci avrebbe impiegato una manciata di secondi a raggiungerli, ma rimase lì a fianco a lei, a sorreggerla mentre avanzavano verso l'uscita.

Altair trascinò i piedi per metà tragitto, sporcandosi le scarpe sul terreno sozzo delle fogne; poi le si risvegliò un guizzo sottopelle. Il lamento della Tempesta le sfiorava i timpani, tanto disperato da contrarle lo stomaco. L'energia dei fulmini tornò a poco a poco, si riaccese come un focolare. Il calore le distese i muscoli, e il dolore sparì.

I piedi trovarono la forza di camminare. Lasciò andare Mira e si raddrizzò. Annaspò aria, perché i polmoni ricordarono soltanto allora come si respirasse.

Uscirono all'aperto, lontane da una puzza che ormai portavano con sé. Il rosa la accecò.

«Si può sapere che hai fatto?» provò ancora Mira.

Altair scosse la testa. «Niente. Quella stronza ha fatto qualche trucco di merda.» Doveva essere per forza così, no? Non c'era nessun'altra spiegazione.

Mira increspò la fronte, per nulla convinta, ma non replicò. Un fiocco bianco le piovve sulla testa, le si incastrò fra i capelli. «Che cos'è?» Reclinò il capo a osservare il cielo.

Un altro fiocco cadde sul palmo sollevato di Altair. Gelido. Le si sciolse sulla pelle. Una parte di lei colò via assieme a quelle gocce, le scivolò sulla punta del dito e precipitò a terra. Quale parte non avrebbe saputo dirlo. Riconobbe solo un senso di vuoto, che i fulmini cercavano di colmare con il loro scoppiettio.

«Neve,» mormorò. Era la prima volta che la vedeva dal vivo.

«Da quanto tempo è che non dormi?» La domanda di Mira arrivò all'improvviso, evocò indietro il fantasma di un dolore passato, che le spingeva sul petto.

Altair sbuffò un sorriso. «Chi cazzo se lo ricorda.»

«Torna a casa,» le disse. E, nel mentre, la superò in silenzio, disperdendosi nel rosa dei neon.

Note:

Chi è che non sa dosarsi e ha fatto un capitolo di 4k parole? Ebbene sì, io, signori. Mi dispiace per la lunghezza eccessiva, ma Altair vuole sempre prendersi un sacco di spazio.

Comunque. Finalmente è tornato il suo punto di vista e, al solito, è il più pazzo.

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