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Capitolo 22

Altair aveva allontanato le macchine della polizia dall'autobus giallo. Mira li osservò dal finestrino lanciarsi contromano, il mento poggiato sul pugno chiuso. Dalle casse arrivavano, scricchiolanti, le note arrabbiate di una chitarra elettrica e le urla di un cantante di cui non ricordava mai il nome, ma che le era sempre piaciuto.

Al volante, Vega spostava il sedere di continuo. Sembrava avesse una puntina conficcata che non gli permetteva di trovare una posizione confortevole. «Non potremmo mettere qualcosa di meno assordante? Mi piacerebbe sentire cosa sta succedendo fuori.»

Mira spostò lo sguardo verso di lui con una certa lentezza. «Preferisci le sirene della polizia?»

«Non è questo il punto.»

Grande e grosso com'era, con i muscoli sempre contratti e l'espressione truce, Mira aveva sempre dato per scontato che uno come Vega amasse ascoltare cantanti che sfogavano la rabbia in urla potenti quando ne aveva l'occasione. «Be', io preferisco la musica,» gli rispose soltanto, e tornò a guardare la strada, lì dove Altair era sparita.

Lo sentì sospirare, ma non gli diede retta. Cullata dalle note aggressive di una delle sue canzoni preferite, raddrizzò la schiena e tese i muscoli.

Fece un cenno veloce, e Vega mise in moto. Si separarono dal resto delle macchine che riprendevano la corsa lentamente; le superarono una dopo l'altra, con l'autobus giallo a rappresentare la meta lampeggiante.

«Mira?»

«Eh?» rispose distratta. Non vedeva più né Altair né le macchine della polizia. Quella deficiente rischiava di morire con la testa sfracellata sull'asfalto. Ce l'aveva davanti con estrema chiarezza, la moto che si impuntava sotto i colpi di pistola, e Altair che sbalzava in avanti. Capelli rossi aperti a ventaglio sulla strada, il sangue a formare una scia dietro di lei.

Mira si aggrappò alla portiera, i denti stretti.

«Perché accendi la macchina con un cacciavite? Che ci hai fatto con le chiavi?» La domanda di Vega la riportò al presente.

Lì, sul sedile del passeggero, ad ascoltare il climax della sua canzone preferita. «Non è mia, è rubata.»

«Cosa?»

«Se ti può consolare, era già rubata quando l'abbiamo presa.»

Vega mimò delle parole con le labbra, senza tuttavia emettere alcun suono composto. Alla fine scosse la testa in un gesto esasperato. «Non so perché certe volte mi scordo che tu e Altair siete uguali.»

Mira fece una smorfia. «Non siamo uguali.» L'autobus giallo era vicino ormai. Procedeva a un'andatura costante, e sobbalzava di continuo. Le fece pensare a un vecchio col singhiozzo.

«Sì che siete uguali. L'unica differenza è che tu fai finta di essere seria. E ogni tanto da bravo coglione ci casco.»

Cercò una risposta da sputargli addosso, ma si rese conto di non avere argomentazioni a proprio favore. Per Vega, Altair rappresentava la testa di cazzo del gruppo dall'indole violenta e l'incredibile capacità di prendere sempre la decisione peggiore; Mira non scoppiava certo di bontà, e in polizia Norton doveva ripulire ogni cazzata che combinava in preda a un attacco di nervi.

Perciò lasciò correre. Finché non gli veniva in mente di insinuare che ci fosse qualcosa fra lei e Altair, poteva pensare quello che gli pareva.

«Questa cosa che è successa, non andartene in giro a raccontarla,» le aveva detto Mira.

Altair le aveva rifilato uno schiaffo giocoso su una spalla. «Perché cazzo no? Guarda che tanto fanno tutti il tifo per te.» Ma alla fine aveva promesso, così come Mira le aveva assicurato che quel duplice errore non si sarebbe ripetuto una terza volta.

Solo che poi la terza volta c'era stata eccome, e anche una quarta e una quinta. Succedeva senza che Mira se ne rendesse quasi conto. E per quante docce potesse farsi subito dopo, l'odore di ambra di Altair le restava attaccato addosso, la seguiva per tutta la giornata, riportandole flash di quei momenti. E quando ripensava al suo tocco, le capitava di sentire una scintilla risalirle lungo le dita.

Non era mai la Tempesta, ma ci somigliava. Ci somigliava più di qualsiasi altra cosa.

«Anche se ormai devo ammettere che voi due non siete nemmeno le peggiori.» Vega si allungò per recuperare un passamontagna sul cruscotto. Lo tenne stretto mentre continuava a seguire l'autobus.

Mira si abbandonò contro il poggiatesta. «Sherlin?»

«È fuori come un balcone. Perché mi ritrovo sempre circondato da pazzi?»

«L'unica con un cervello l'hai lasciata.»

Lui strinse le labbra. «E sono sempre più sicuro di aver fatto una cazzata.» Mantenne solo una mano sul volante mentre infilava in tutta fretta il passamontagna.

Mira si tirò lo scaldacollo di lana fin sopra la punta del naso. I capelli li seppellì sotto il cappuccio. «Vuoi davvero metterti a parlare di questioni di cuore adesso?»

«No.» L'aria gli uscì in un sibilo. Con il volto coperto aveva un'aria più minacciosa del solito. «Sei tu che ti diverti a rigirare il coltello nella piaga.»

La macchina sussultò, e Mira si coprì la testa con una mano per evitare di sbattere contro il tettuccio. D'istinto agguantò il fucile ai suoi piedi, tolse la sicura, mentre Vega virava bruscamente di lato. Li avevano appena tamponati. Un'ultima vettura della polizia gli stava alle calcagna.

Mira affacciò la punta del fucile dal finestrino. La raffica di proiettili centrò il parabrezza della polizia; alla guida c'era un uomo stempiato con un paio di baffi imbarazzanti, accanto a lui una donna dalla pelle scura. Entrambi abbassarono la testa, ma alcuni pezzi di vetro lacerarono la guancia di lui.

Non conosceva nessuno dei due, almeno una buona notizia.

Si ritirò all'interno, con la schiena premuta contro il sedile mentre i poliziotti rispondevano all'attacco. Un paio di colpi che fecero esplodere lo specchietto laterale, nulla di più.

«Porca puttana.» Vega premeva sull'acceleratore, ma non riusciva a distanziarli. «Qualche idea per toglierceli dai piedi in fretta?»

Mira strinse a sé il fucile. Sbirciava le espressioni dei due poliziotti dallo specchietto retrovisore: lui digrignava i denti, lei aveva lo sguardo basso a ricaricare la pistola. Dissero qualcosa, poi la donna riprese a sparare.

Vega fece stridere le gomme sull'asfalto. Evitò i colpi, ma sbandò verso un'altra macchina di passaggio. Virò nella direzione opposta, e la macchina si sollevò su due sole ruote per un paio di secondi prima di riprendere equilibrio.

Ed ecco l'idea.

Mira si abbassò a recuperare un razzo segnalatore. Ragazzini o meno, quelli della banda di Sherlin di sicuro erano ben attrezzati. «Fai rovesciare la macchina,» ordinò.

«Cosa?» Vega le lanciò un'occhiata veloce. «Perché? Ci tieni a morire?»

«Devi bloccargli la strada. Così saranno costretti a fermarsi.»

«Sì, e noi saremo morti.» Uno sbuffo. «E poi come dovremmo raggiungere l'autobus senza macchina?»

Mira sfruttò la pausa della donna agente per ricaricare, e affacciò la testa dal finestrino. Gli altri erano spariti. Scorgeva soltanto l'autobus giallo, poco più avanti, circondato da macchine che cominciavano ad accostare una dopo l'altra. «Fallo e basta.»

Vega non si lamentò ancora. Tirò il freno a mano e l'auto girò su se stessa. Procedette slittando sulle due sole ruote, voltata di fianco, finché non perse del tutto attrito e si rovesciò. Una cassa esplose, ma lo stereo continuò a lanciare urla frustrate a un volume più contenuto.

Mira si acciaccò la lingua. Il sapore del sangue le invase il palato. Era a testa in giù, attaccata al sedile dalla cintura di sicurezza. Il parabrezza era saltato, e una scheggia le era rimbalzata sul braccio, aprendo uno squarcio nel giubbotto. Teneva il fucile con una sola mano, nell'altra stringeva il razzo segnalatore.

In un grugnito, slacciò la cintura e colpì il soffitto con la nuca. I lamenti di Vega accanto a lei le assicurarono che fosse ancora vivo. Mira calciò la portiera e strisciò fuori; lui la imitò subito dopo. Entrambi ammaccati, respiravano a fatica, ma almeno erano interi.

L'auto della polizia attendeva dall'altro lato, ad armi spianate.

Mira puntò il razzo contro il cielo. «Tienili distratti. Ruba la macchina quando puoi. Ad Alvaréz ci pensiamo noi.» Il razzo partì in un sibilo colorato di rosso.

Uscirono allo scoperto con le mani bene in vista. Mira lasciò cadere il fucile ai piedi di Vega.

«Fermi! Vi dichiaro in arresto!» gridò la donna. Il compagno non scendeva nemmeno dall'auto, attendeva in tensione dietro al volante. Erano così convinti di averceli in pugno?

Attorno a loro regnava un silenzio forzato. Le altre vetture attendevano, i civili nascosti dietro i finestrini abbassati, sbirciavano la scena con le bocche spalancate. Una chitarra elettrica osò sollevarsi dalla cassa ancora funzionante, azzardò un assolo che si spense dopo una manciata di secondi.

E allora rimase soltanto il vento.

Il vento, e il rombo di un motore.

Mira nascose il sorriso sotto lo scaldacollo. La poliziotta muoveva piccoli passi, la pistola ben salda fra le mani.

Uno sparo la costrinse a indietreggiare. Sollevò le braccia a riparare il viso, in un urlo spaventato. Vega approfittò del momento di distrazione per recuperare il fucile.

La moto di Altair lasciò una scia di fumo dietro di sé. Girò attorno alla vettura immobile e rallentò nell'avvicinarsi ai compagni. «Ohi, stronzi, vi serve la cavalleria?» Un braccio le oscillava lungo il fianco, la pistola a doppia canna ben stretta fra le dita. Il casco nero le copriva il volto, e la tuta di pelle le fasciava il busto.

Mira le corse incontro, saltò in sella al volo. Le circondò i fianchi con le braccia, sbuffando alla sua mezza risata. «Sta' zitta e datti una mossa.»

«Cercate di non fare troppi casini!» gridò loro Vega.

Altair gli rispose con un cenno veloce. Fece impennare la moto e si precipitò all'inseguimento dell'autobus. Mira fece scivolare una mano più in basso, lontana dalla cicatrice che tormentava Altair; con l'altra si teneva il cappuccio calcato sulla testa. Il vento le sferzava il viso, violento.

«Quindi, nuovo piano?» Altair tendeva i muscoli nel far virare la moto fra le macchine. La meta era sempre più vicina.

«Da quando in qua ti serve un piano?» le gridò Mira. Sentì le labbra tirarsi in un sorriso.

«Risposta esatta, stronza sadica.» La immaginò strizzarle l'occhio oltre la visiera del casco.

Si accostarono al furgone. Dai finestrini, si vedevano le teste dei detenuti, tutti voltati a ispezionare la strada. Due sole persone si erano alzate in piedi, entrambi immobili e all'erta accanto alla portiera.

Altair fece rombare il motore. «Vai a prendere Alvastronzo,» urlò per sovrastare il boato del vento.

Mira le mise le mani sulle spalle, la utilizzò come perno per balzare in piedi sul sedile. Scivolò per un secondo, sbalzata dall'ennesima virata brusca, e affondò le unghie nella tuta di Altair. Lei non si lamentò, e Mira ritrovò subito l'equilibrio. Il cappuccio le cadde sulle spalle, i capelli le ondeggiavano sospesi dietro la nuca.

Allentò la presa su Altair, piano, mentre lei si avvicinava il più possibile all'autobus.

Un brivido le scorreva nel corpo, una scintilla di adrenalina le scoppiava sottopelle. Niente di paragonabile alla Tempesta, eppure le diede alla testa allo stesso modo.

Saltò. Si aggrappò al tetto al volo, il busto urtò contrò il vetro del finestrino. Un esercito di formiche le zampettò sullo stomaco, le risalì sul seno. Come minimo avrebbe trovato un brutto livido il giorno dopo, ma non le importava. Non le importava, perché non sentiva davvero dolore mentre si issava su. Dall'interno provenivano versi stupiti e concitati.

Mira avanzò a fatica controvento. Afferrò lo sportello del tettuccio, e non appena lo aprì, vide le teste dei due genti proprio al di sotto. Un colpo di fortuna. Calò all'interno mentre quelli sollevavano gli occhi, e atterrò sulla testa del più alto. Si ritrovò a cavalcioni sulla sua schiena; una gomitata sulla nuca, e quello perse i sensi. Gli tolse la pistola di mano per sparare alla gamba del secondo agente prima che quello avesse il tempo di sfoderare la propria arma. Mira si risollevò in piedi, fra le urla di dolore di lui e i mormorii dei detenuti. Gli sferrò un calcio sulla tempia. Quello si accasciò a terra svenuto.

Il conducente continuava a spostare gli occhi sgranati da lei alla strada. «Che cazzo fai? Ehi!» Gli tremava la voce.

Mira non lo degnò di attenzioni. Camminò fra i sedili, osservando il viso di ogni soggetto che la fissava. Detenuti, vestiti di arancione, con le mani ammanettate. Sedevano con le schiene ricurve e la scrutavano con gli occhi strizzati, come se non potessero credere davvero di averla davanti. Sprigionavano una puzza di corpi sudati, resa ancor più insopportabile dall'odore di chiuso dell'autobus.

Mira si appiattì i capelli sulla nuca, una smorfia a contrarle i lineamenti. Si calcò di nuovo il cappuccio sugli occhi.

Prima di spedirli in missione, Sherlin aveva dato loro una foto di Pablo Alvaréz. Un uomo di origine latina, dalle orecchie a sventola e la faccia troppo lunga. Nell'immagine la voglia di vivere gli era evaporata dagli occhi da almeno una quindici d'anni, e le rughe gli accentuavano le linee della fronte.

Lo trovò con facilità, seduto in fondo fra un omone con una bestemmia tatuata sul sopracciglio e un tizio basso e tarchiato, che la osservava mordicchiandosi le labbra.

L'autobus rallentò fino a fermarsi. Il motore continuò a rombare, il pavimento le fremeva sotto i piedi. «Ehi, fermati,» le disse ancora il conducente.

Mira lo ignorò di nuovo. «Pablo Alvaréz,» disse, e lui scattò sull'attenti come una molla. Gli fece un cenno con la testa. «Vieni con me.»

«Ehi, bambolina, non salvi anche noi?» Il tizio basso e tarchiato increspò le labbra e le lanciò un paio di baci nell'aria. Poi se la rise, con i compagni che sghignazzavano assieme a lui.

Mira gli piantò un pugno sul naso. Le nocche le si sbucciarono a contatto con l'osso già sporgente dell'uomo. Il sangue le sporcò la pelle. Schioccò la lingua, infastidita, nel vedere che soltanto un paio di gocce gli cadevano sulle labbra. Se solo avesse avuto la Tempesta, avrebbe potuto annientarlo sul posto. «Salvati da solo, se proprio ci tieni,» gli sibilò.

Gli altri le fischiarono in segno di apprezzamento. Non diede loro retta, agguantò il braccio di Alvaréz che, nel frattempo, le si era avvicinato a capo chino. Lo trascinò verso l'uscita, puntando la pistola sulla fronte del conducente. «Apri.»

Con le mani tremanti e quei pochi capelli che gli formavano una piazzetta in testa rizzati, lui obbedì. Ma qualcuno li aspettava già dall'altro lato.

Mira si arrestò sulla soglia, le punte dei piedi che sporgevano dall'ultimo gradino, le dita affondate nel bicipite di Alvaréz. La canna di una pistola le luccicava davanti agli occhi. Riconobbe prima le lenti tonde, poi l'espressione accigliata di Norton.

Ovviamente c'era anche lui. Doveva aspettarselo.

«Aspetta,» le disse, ma nella sua voce vibrava il germoglio dell'esitazione. Sapeva chi aveva davanti, o no?

Mira si passò la lingua fra le labbra, assaporò la lana dello scaldacollo. Non proferì parola, attese soltanto. Alvaréz sudava, e la sua pelle le si appiccicò sotto le dita.

«Lascialo andare. Sei in trappola, non puoi più fare niente.» Norton aveva un tono particolare, diverso da quello a cui era abituata quando combattevano fianco a fianco. L'aveva sempre ritenuto risoluto, per quanto calmo, invece adesso le sembrava un cucciolo che cercava di mostrarsi più pericoloso di quanto fosse in realtà.

Non avrebbe sparato. Lo conosceva abbastanza bene da saperlo.

Mira saltò giù dall'autobus, trascinando un Alvaréz piagnucolante con sé. Lui piegò troppo le gambe e per poco non finì con la faccia spiaccicata contro l'asfalto: fu lei a tenerlo in piedi, tirandolo a sé.

Norton aggiustò la presa sulla pistola. «Ferma!» Questa volta suonò autoritario per davvero. E per un attimo lei rizzò le orecchie, in attesa dell'esplosione, del proiettile che le si conficcava nel petto.

«Ma togliti dalle palle, occhialuto.»

Gli arrivò una gomitata sulla nuca. Norton rovesciò gli occhi e cadde a terra a peso morto. La pistola giaceva davanti al suo naso.

Altair lo smosse con la punta del piede. «Certo che i tuoi vecchi compagni fanno veramente schifo. Di che è fatto, di carta velina? L'ho appena toccato.»

Mira le andò incontro, tirandosi appresso un Alvaréz tremante. «Non è mai stato il più coriaceo della squadra.»

Pablo Alvaréz si ritrovò in piedi davanti al corpo privo di sensi di Norton. Era pallido, aveva le pupille dilatate e i capelli gli si erano appiccicati alla nuca come spaghetti intrisi d'olio. Trascinò l'attenzione prima su Mira, poi su Altair. «Chi siete voi? Che volete da me?»

«Ehi, non solo che ti liberiamo, vuoi anche rompere le palle?» Altair si picchiettava la canna della pistola sulla spalla. Aveva il capo inclinato, il casco ancora a coprirle il volto.

«Ma perché?» chiese ancora lui.

«Ne parliamo dopo.» Mira lo spinse via, verso la macchina della polizia che si approcciava con le sirene lampeggianti. Lo costrinse a prendere posto sul sedile posteriore, e in un sospiro fece un cenno a Vega. Aveva fatto un ottimo lavoro.

«Tu non sali?» disse Vega.

Mira si resse alla portiera ancora aperta, i denti le martoriavano il labbro inferiore. «Ci vediamo da Sherlin.» Chiuse senza aggiungere altro.

Non vedeva l'espressione di Altair dietro il casco, e ne fu felice. L'idea di avere di fronte il suo sorrisetto del cazzo le provocava uno spasmo alla palpebra. Eppure le andò incontro, calcandosi il cappuccio sugli occhi. Altair sollevò il palmo; Mira batté un cinque fiacco, accompagnato da un sospiro. La risata dell'altra le risalì lungo la spina dorsale in un brivido piacevole.

«È stata una cazzo di figata.» Altair salì per prima sulla moto. Accarezzò i manubri, diede gas. Il motore rombò a vuoto.

Mira prese posto dietro di lei, le mise le mani sulla vita. Le dita le scottavano a quel contatto. Non le rispose, sebbene la parola le sostasse sulla punta della lingua, premeva per uscire fuori.

Il corpo del conducente venne sbalzato fuori dall'autobus, rotolò sull'asfalto in un lamento. L'uomo basso e tarchiato scese con un salto pesante. Puntò gli occhietti piccoli e allungati su Mira, le labbra si tesero in un sorriso da predatore. Un sorriso che gli modificò i lineamenti, formando un volto nuovo, un volto che lei sperava di non rivedere mai più.

Drake le fece l'occhiolino. Solo che non era Drake, e non appena Mira sbatté le palpebre, tornò a essere solo il detenuto tarchiato.

«Fai proprio conquiste fra i criminali,» le disse Altair. E la sua voce, la sua presenza, le ricordarono dove si trovava. Le offrirono un'ancora, e Mira ci si aggrappò stretta.

«Parti.»

«Li lasciamo così? Mi sa che se ne andranno in giro a fare un po' di casini.»

«Non mi interessa. Parti e basta.»

Altair non replicò ancora. La marmitta rombò di nuovo, e la moto si allontanò in fretta. Si lasciarono alle spalle il detenuto e il suo sorriso da Drake.

Mira chiuse gli occhi, le poggiò la fronte contro la schiena. Lasciò che il fischio del vento la ripulisse da tutti i pensieri.

Note:

Ringrazio gli astri per avermi fatto terminare questa scena di inseguimenti perché non ne potevo più. Ho voluto inserirla per dare un po' di adrenalina, però veramente mai più xD

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