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Capitolo 18

La sola prospettiva di mettere piede in mezzo a quelle bancarelle, di farsi fagocitare dalla folla di persone, la bloccava. Con ancora il suo violino appeso alla spalla, riposto nella custodia scura, Max osservava la festa dall'altro lato della strada. Teneva le orecchie tese in attesa della marea di pensieri della folla.

Invece le arrivava solo la musica. Strumenti acustici, un ritmo lento. Max non distingueva bene le parole del cantante, ma le note le si infiltrarono nel petto, le scatenarono tante piccole esplosioni attorno al cuore. Era un suono tanto triste quanto magico, evocava immagini candide di una città innevata nella notte.

Fin troppo perfetta per la situazione.

I sorrisi e le grida delle persone però storpiavano la magia.

Nessun pensiero altrui la raggiunse. La mente di Max esisteva in una realtà a sé, del tutto isolata, schermata dal resto del mondo. Le venne da sorridere e poi sghignazzare: da quanto non percepiva più un silenzio simile? Quando era stata l'ultima volta che aveva potuto godersi la musica, senza intromissioni, senza sensazioni esterne?

Batté le palpebre un paio di volte – gli occhi le bruciavano per il freddo – e osò immergersi nel mare affollato. Decine di voci la accerchiavano; le persone la spintonavano; gli odori di cibo da strada la inondavano. Ma andava bene. Andava bene, perché nessuno di quegli stimoli faceva breccia dentro di lei.

Percorse più di metà strada diretta verso il palco, verso il richiamo della musica. Si accorse di avere un sorriso che le attraversava entrambe le guance solo quando i muscoli del viso avvertirono la stanchezza.

Navigò in quel mare fino a raggiungere la fonte della canzone. Il giro di accordi non aveva nulla di speciale, così come il cantante, un ragazzo qualsiasi seduto su una sedia con il microfono premuto contro le labbra. Quel semplice ragazzo però instillava diverse sfumature di emozioni in ogni singola nota.

Max individuò subito Shiro: una delle poche teste che annuivano a ritmo di musica. Si godeva il momento, i suoni, le sensazioni, in mezzo a un altro gruppetto di ragazzini non molto più grandi di lui.

Le riuscì facile scivolare in mezzo alla folla fino a lui. Gli prese una manica e la tirò appena per attirare la sua attenzione. Shiro abbassò prima gli occhi sul braccio, confuso, poi si voltò a incontrare Max. Si aprì nel sorriso più radioso del mondo. «Ciao, Max.»

Lei si prese un paio di secondi per assicurarsi che nessuno dei suoi amici si intromettesse. «Shiro, ti devo parlare.»

«È successo qualcosa?» Inclinò la testa da un lato, con aria da cucciolo confuso.

«Più o meno.»

Lui allora la guidò lontana dal palco, lì dove le voci dei gruppi di amici si facevano troppo forti e disturbavano la musica. Si sedette a uno dei tanti tavolini di plastica allestiti dai proprietari delle bancarelle e le fece cenno di accomodarsi accanto a lui. Una semplice pacca sulla sedia a fianco alla sua e un sorriso timido.

Max lo accontentò. Poggiò il violino ai propri piedi, sotto il tavolo.

«Avresti dovuto suonare tu,» le disse Shiro. Faceva vagare lo sguardo verso gli strumenti sul palco.

«Ne dubito,» rispose solo. Nessuno avrebbe voluto ascoltare il lamento funebre di una musicista che non sapeva più nemmeno come smetterla di inserire bemolle inquietanti dove non andavano.

Shiro tirò su col naso. Vestiva troppo leggero, nella sua giacchetta gialla, senza un cappello né una sciarpa ad aggiungere un minimo di protezione dal vento. «Mi sarebbe piaciuto sentirti suonare però.»

«È che non ci riesco più un granché.» Max si aggrappò alla manica della custodia del violino.

«Oh, mi dispiace.» Per un attimo credette – sperò – che l'argomento fosse terminato lì. Shiro succhiò l'interno della guancia, in un'espressione tanto assorta quanto buffa, e annuì piano. «Come mai?» chiese poi.

Una bella domanda. Se solo avesse avuto la risposta, forse avrebbe scoperto anche la soluzione.

Max si protese a sfiorargli la mano. Un gesto veloce, che lo fece arrossire. «Tua madre mi ha detto che ti avrei trovato qui.» Un cambio d'argomento repentino, sperava che lui accettasse di non parlare ancora della musica.

«Sì, ho pensato di fare un salto, per una volta. Anche per non farla preoccupare, dice sempre che me ne sto troppo dentro casa.» Si scansò, ancora rosso in viso. I suoi pensieri non le giungevano, ma Shiro era un libro aperto, non ci volevano certo dei poteri da telepate per capire cosa gli passasse per la testa.

«Hai più sentito il tuo amico Gael?» Si pentì subito di essere andata dritta al punto. Lui si esibì in una strana smorfia, seguita da un sorriso amaro e un forsennato scuotere del capo. Max capì troppo tardi di avergli infranto l'illusione del momento, di avergli distrutto la speranza che lei lo cercasse per un motivo più personale.

Shiro non sperava davvero di essere ricambiato, questo lo sapeva. Ma niente gli impediva di sognare che lei desiderasse la sua compagnia. Che potesse regalarle qualcosa di speciale che nessun altro avrebbe potuto darle.

«Ha combinato qualcosa?» chiese lui dopo quella che parve un'eternità. Si teneva a distanza adesso, le mani nascoste nella giacca, le braccia premute contro il corpo. Evitava lo sguardo di lei, lo lanciava sul palco, verso le bancarelle, ovunque lei non potesse raggiungerlo. «Non lo vedo da un po', credo sia scappato di casa o qualcosa di simile.»

Max si lisciò i capelli all'indietro in un sospiro. «Lo sapevi che fa parte di una banda criminale?»

Un momento di silenzio. «Sì.»

«Oggi hanno minacciato una mia amica.» Definire Elettra un'amica era forse un'esagerazione. La conosceva appena, e nonostante Max le avesse scavato nella testa non era riuscita a rimuovere del tutto l'aura di mistero che la circondava.

Shiro fece ricadere lo sguardo su di lei. Ormai di rosso gli restava solo il naso.

«L'hanno ricattata,» continuò lei. «Credo che stiano cercando di far tornare la Tempesta. Speravo che potessi aiutarmi a convincerlo a cambiare idea.»

«Quel deficiente.» Shiro sbuffò una nuvola di condensa. «Da quando ha scoperto dei miei genitori biologici, si è messo in testa un sacco di cazzate.»

«I tuoi genitori?»

Ricordava qualcosa del genere dalla loro ultima conversazione. Allora Max aveva preferito lasciarlo tenersi il segreto, ma forse era arrivato il momento di indagare.

Lui aspirò l'aria fra i denti, ritraendosi. Non era pronto a parlarne. Deglutiva di continuo, perso a osservare qualcosa nella calca di gente. «Lo sai, mio padre biologico, la sua mafia. Gael e la sua banda sono convinti di volerlo imitare.»

Un cucciolo rinchiuso in abiti troppo larghi, ecco cosa sembrava. Poco più di un bambino, un ragazzino giovane che non sapeva bene come affrontare il proprio passato. Chissà, forse non lo avrebbe mai saputo. Pochi adulti sviluppavano la forza di affrontare i traumi dell'infanzia, la maggior parte viveva senza nell'ignoranza, inconsapevole delle ferite dell'animo.

Max si sfregò le mani davanti al viso. Forse doveva lasciar perdere, cercare Gael per conto proprio.

«La ragazza di Gael, Sherlin, pensa che i figli della Tempesta dovrebbero governare la città.» Shiro parlava lento, come se ogni parola gli costasse una fatica immane. «Quando ha scoperto di mio padre, dell'influenza che aveva, ha pensato di prendere spunto.»

Si prese una pausa, e Max non osò parlare. Poggiò il gomito sul tavolo, in perfetto silenzio.

«Ma non so ora cosa vogliono fare. Insomma, non avete più i vostri poteri, no?»

«Credo vogliano trovare il modo di riportare la Tempesta.»

«Ah. Certo.» Un sospiro, una mano che gli passava fra i capelli. «È una cosa possibile?»

«Spero di no. Però non ne ho idea.»

Il tavolo le tremolò sotto il gomito. Ne sbucò una bambina dal sorriso splendente; le mancavano un incisivo e un molare, e non appena si accorse dello sguardo di Max su di sé ridacchiò. Quando si fu calmata, si portò l'indice alle labbra per intimarle di mantenere il segreto della sua presenza. Il secondo successivo, sparì di nuovo sotto il tavolo.

La madre arrivò poco dopo, si inginocchiò a riprenderla. Ridevano entrambe.

Chissà, forse fu un effetto della musica, forse perché non ne conosceva i pensieri, forse perché per una volta poteva osservare semplicemente il mondo così com'era, ma Max si ritrovò a sorridere con loro. Come se fosse davvero partecipe di quel piccolo momento di ribellione, complice di una bambina che nemmeno conosceva.

Quando riportò l'attenzione su Shiro, lui era diventato un tutt'uno con la sedia.

«Pensi che potresti parlarci? Con Gael, intendo. Farlo ragionare. Far ragionare la sua stranissima e pazzissima ragazza?»

Shiro sbatté le palpebre in successione, ridestandosi dai propri pensieri. «Non lo so. Ci ho già provato, non mi ascolta.»

«E se ci parlassimo insieme?»

«Non lo so. Non mi va di avere molto a che fare con lui.»

Comprensibile. Però Max non poteva arrendersi. Non poteva lasciare che Sherlin riportasse la Tempesta, che il peso dei pensieri altrui tornasse a schiacciarla. «Posso sapere almeno dove trovarlo?»

Conosceva bene il modo di ragionare di Shiro, sapeva che ad animarlo era un istinto di protezione innato nei confronti di chiunque amasse, e che non l'avrebbe lasciata andare da sola. Max sentiva un vago senso di colpa nell'utilizzare la cotta di un ragazzino come lui, ma cos'altro poteva fare? Le serviva tutto l'aiuto possibile.

«No, vengo con te.» Gonfiò il petto, tentava di occupare spazio, di sembrare forte. Shiro desiderava solo essere la roccia di qualcuno, l'ancora che la teneva a galla.

Non sarebbe mai potuto essere l'ancora di Max, e lui lo sapeva, tuttavia gli piaceva mentire a se stesso.

Non sarebbe mai potuto essere la roccia di Max, e lei lo sapeva, tuttavia aveva bisogno di qualcuno a cui aggrapparsi.

«Allora fammi strada.»

Gael aveva risposto subito al messaggio. Sarebbe arrivato in massimo dieci minuti, diceva. Anche lui bazzicava fra le bancarelle della festa.

Max giocava con il manico della custodia del violino, seduta su una panchina. La musica la raggiungeva appena, la voce del cantante si perdeva lungo la strada, le sue parole diventavano una cantilena impastata e priva di senso.

Aveva il culo gelato. La panchina era asciutta, ma sembrava che l'avessero tenuta dentro un congelatore.

Shiro seguiva il ritmo della musica con la testa, sovrappensiero. Passeggiava sotto la luce dei lampioni, scavava una buca impronta dopo impronta.

Gael impiegò poco più dei dieci minuti promessi per farsi vivo. Quando comparve lungo la strada, attraversò sulle strisce per raggiungerli sull'altro lato del ponte. Correva come un coniglio, in una serie di piccoli saltelli anziché di passi veloci.

Salutò Shiro con un cenno della mano; solo dopo notò Max e le puntò un dito contro. «Tu? Non sei l'amica della tizia cieca?»

Di tratti era l'esatto opposto di Shiro: capelli biondi, rasati sui lati, occhi grandi e viso spigoloso, accentuato da una fossetta sul mento. Teneva la mano premuta contro la giacca, lì dove c'era un rigonfiamento.

Nascondeva un'arma, forse. Sarebbe stato utile leggergli i pensieri, in quel momento.

Nell'andargli incontro, Shiro sforzò un'andatura sicura di sé. Da finto macho, con le braccia larghe e il mento sollevato. «Gael, dobbiamo parlare.»

Ottenne uno sbuffo esasperato. «Ancora? Ti ho detto un miliardo di volte che non ho intenzione di lasciare Sherlin.»

«Non è questo.»

«E allora cosa?»

La vera somiglianza fra quei due ragazzini stava nei modi. Gael ciondolava, oscillava le braccia per esagerare ogni movimento, ma la sua era una recita. Proprio come quella da macho di Shiro. In fondo, entrambi tentavano di nascondere una sensibilità di cui si vergognavano.

Max posò il violino sulla panchina prima di alzarsi in piedi. «Sei anche tu un figlio della Tempesta?» gli chiese.

Gael fece una smorfia. «No.» Si passò una mano fra i capelli, a scomporli; portava un paio di guanti rosa dalle dita tagliate. «Solo Sherlin lo è.»

«Allora perché?»

«Perché cosa?»

«Davvero vuoi riportare la Tempesta?» intervenne Shiro, in un grido strozzato.

Gael si sgonfiò di colpo, un soufflé uscito crudo dal forno. «Ah, quello,» borbottò. E ancora si scompigliò i capelli. «Senti, amico, lo sai che sei come un fratellino per me, ma quello che faccio non sono affari tuoi.»

«Sì che sono affari miei invece. Sono affari di tutti! Mettereste in pericolo l'intera città. Davvero vuoi tornare a com'era prima?»

«È per una buona causa.» Se avesse potuto cercare nella sua mente, forse Max avrebbe scoperto il motivo per cui Gael continuava a far saettare la punta della lingua fra le labbra e voltava la testa ovunque, pur di non guardarli.

«Ma quale buona causa? Vuoi solo fare felice la tua ragazza,» gli rispose Shiro. Max non lo aveva mai sentito usare un tono tanto brusco.

Possibile che fosse solo quella la ragione?

Gael scuoteva la testa con troppa energia adesso. «No, io...»

«Perché?» chiese di nuovo Max. «Cosa ci guadagneresti tu dalla Tempesta?»

Lui prese un respiro profondo. Un gesto tutt'altro che istintivo, che gli richiese diversi secondi, ma lo aiutò a calmarsi. Poi fu in grado di intrecciare lo sguardo con quello di lei, senza vacillare. «Perché solo così posso sperare di diventare un figlio della Tempesta.»

«Cosa?» disse Shiro. «Guarda che non funziona mica così, non puoi decidere di diventare un figlio della Tempesta.»

Aveva ragione, ma chissà, magari Sherlin conosceva qualche segreto sulla Tempesta. Forse sapeva come costringerla a prestare i suoi poteri a una persona in particolare.

Max superò Shiro per avvicinarsi a Gael. «Perché vuoi diventare un ibrido?»

«Perché?» ripeté lui, solo per poi sputare tutta la propria stizza per terra. «Perché mi sono rotto di essere il ragazzino sfigato. Voglio essere speciale.»

«Sei scemo?» fece Shiro.

Max invece non disse niente, non all'inizio. Conosceva la mentalità dei ragazzini come Gael: persone rigettate dai coetanei, si aggrappavano al bisogno di sentirsi speciali per giustificare il fatto che non riuscissero ad appartenere.

Comprensibile, ma non per questo meno stupido o immaturo.

Tirò le labbra in un sorriso esagerato. Shiro le rivolse un'occhiata perplessa. «Credi che essere un ibrido sia divertente? Credi che la Tempesta sia una benedizione? Tu non hai la minima idea di cosa significa, essere "speciali".»

Non sai quanto può essere orribile, pensò. Le parole però non le uscirono.

Lui trascinò i piedi sulla neve, lontano da lei. «Voglio solo essere come Sherlin. Lei dice che esiste un modo, che Alvaréz può aiutarmi.»

La musica si interruppe per una manciata di secondi. Il silenzio divenne assordante; poi le corde di una chitarra risuonarono in lontananza, e il mondo si sbloccò.

Shiro agitava un braccio. «Tu sei fuori di testa. Max ha ragione, la Tempesta non è quello che pensi. Potrebbe distruggerti, o farti impazzire.»

«Solo perché è successo a tua madre, non significa che succederà anche a me,» gli gridò Gael.

La madre di Shiro era una figlia della Tempesta? Max non ne sapeva nulla. Spostò l'attenzione sulla figura alta e dinoccolata accanto a sé. Cercò un indizio sul suo viso, una spiegazione. Trovò solo ombre che gli inghiottivano i lineamenti.

«Lascia i miei genitori biologici fuori da questa storia,» sibilò poi.

Gael scrollò le spalle. «Allora tu smettila di metterti in mezzo.»

«Non lo capisci davvero?» Una nota tremolante spezzava la voce di Shiro. «Sherlin ti sta solo usando! Vi sta usando tutti quanti.»

«No, sei tu a non capire.» Gael estrasse qualcosa dalla giacca. Uno scintillio li accecò per una frazione di secondo. Una pistola puntata. «Smettila di prendertela con Sherlin. Lei è l'unica che mi vede per quello che sono.»

Shiro alzò le mani bene in vista. «Gael, calmati, per favore.» Il pomo d'Adamo gli danzava in gola.

L'altro non gli diede ascolto, sventolava l'arma di fronte a sé. «Tu non sai niente di lei, di noi. Il mondo appartiene alle persone speciali, e io sarò uno di loro.»

Max non si accorse di aver mosso un passo di troppo verso di lui, non finché non si ritrovò la canna della pistola puntata addosso. E nemmeno allora si trattenne. La verità le uscì dalle labbra in un fiotto di acida rabbia. «Non puoi decidere tu di essere speciale. O lo sei o non lo sei.»

Se ne pentì l'istante successivo. Ma ormai era troppo tardi.

Lo sparo le esplose nelle orecchie. Coprì quasi del tutto il «vaffanculo» di Gael.

Lì per lì, Max non sentì nulla. La caviglia le tremò e la gamba cedette. Si ritrovò distesa sulla neve. Neve non più bianca. Neve rossa, sporca.

«Gael, che cazzo fai?»

Shiro si precipitò al suo fianco. Le prese la mano nelle proprie – calde, nascoste in un paio di guanti di lana. I colori che lo componevano uscivano dai bordi, si stendevano verso l'esterno, perdevano forma.

«Mi... mi dispiace.» La voce di Gael suonava lontana, smorzata da un vetro invisibile.

Il dolore arrivò tutto insieme. Le scoppiò lungo l'intera gamba.

Shiro si tolse la giacca per tamponarla. Il sangue gorgogliava dalla fessura sulla tibia in un fiume infinito. «Merda,» sibilò fra i denti. Aveva le labbra viola. Sarebbe morto di freddo solo con il maglione. «Resisti, Max, chiamo un'ambulanza.»

Lei gli si aggrappò alla spalla. Le girava la testa, i pensieri le si accavallavano nella testa. «Penso che morirò prima.»

«Non è vero,» le promise lui. «Gael, dammi una mano!»

Ma lì dov'era stata la testa bionda di Gael non c'era più nulla. Solo riflessi di luce sfocati.

«Coglione,» mormorò Shiro, prendendo il telefono.

Fece attempo a digitare un solo numero: Max gli bloccò il polso. «Che intendeva? Su tua madre?»

«Non è il momento.»

«Vuoi davvero farmi morire con la curiosità?» Le uscì un sorriso. Chiuse gli occhi e abbandonò la testa di lato. Strano, come ogni pensiero le fluisse via assieme al sangue.

«Max, non stai per morire!»

«Strano, perché giuro che la sensazione è quella.»

Il mondo si spense. Per quanto tempo, non avrebbe saputo dirlo. Udì la voce disperata di Shiro. Parlava con qualcuno? Gael era tornato?

«Ehi, Max! Rimani con me.» La scosse, e lei spalancò gli occhi di scatto. Lo vedeva appena, una macchia indistinta contro il cielo.

Boccheggiò, ma non trovò le forze di parlare.

Lui le mise una mano sotto la nuca, la sorresse dal freddo della neve. «La mia madre biologica è un'ibrida, ma la Tempesta le ha tolto il senno,» iniziò. Lo sentiva appena. «Le fa vedere cose, ed è finita in un ospedale psichiatrico anni fa. Per questo non ha la mia custodia.»

Max si sentiva vicina a quella donna, sebbene non la conoscesse nemmeno. Condividevano una maledizione.

«Ora però forse sta meglio. Senza la Tempesta.» Shiro continuava a parlarle, la aiutava a restare a galla, a non sprofondare nel baratro. «Mi piacerebbe andare a trovarla. Solo che non lo so, non la vedo da anni e... ho un po' paura.»

In un ultimo guizzo di energia, Max gli cercò la mano. «Andiamoci insieme,» mormorò.

Lui annuì. «Grazie.» Poi, in una mezza risata, aggiunse: «Quindi non morirai?»

«Sinceramente non ne ho tanta voglia.»

Le sirene dell'ambulanza coprirono i suoni delle loro risate.

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