14. La Guerra
Mi risvegliai nel mio letto coperta dal leggero lenzuolo azzurro.
Per un attimo credetti si fosse trattato solo di un sogno, poi sentii un piccolo oggetto nel palmo della mano. La spilletta dorata era fredda a contatto con la mia pelle. La portai al viso per osservarla, aveva la forma del seme di fiori. Sospirai guardando il mio parziale riflesso sulla superficie della spilla e la nascosi nel cassetto del comodino.
Indossavo il mio pigiama provvisorio che qualcuno doveva avermi messo addosso.
Feci per tirarmi su a sedere e mi accorsi della flebo attaccata al braccio. Ancora confusa me la strappai di dosso e poggiai a terra i piedi nudi. Avanzai qualche passo sul legno caldo del pavimento. Sentivo la gola asciutta, volevo dell'acqua.
Superando la porta vidi lo studio di Sarino e mi ricordai improvvisamente di lui. Che fine aveva fatto?
Affrettai i miei passi fino quasi a cadere dalle scale.
«Sarino?», dissi cercando in giro con lo sguardo.
E se quell'uomo alla fine non lo aveva lasciato andare? Se avesse solo mentito per liberarsi di me? Aveva detto di voler aspettare fino al giorno dopo per ucciderlo, quante speranze potevo avere di salvarlo ora?
«Sarino?!», continuai a chiamare il suo nome sempre più agitata.
«È andato a fare la spesa.», disse una voce non particolarmente femminile.
Mi guardai intorno. Non vedevo nessuno, né nella cucina, né vicino ai tavoli.
«Co?», la chiamai.
«Sì?»
«Dove sei?»
«Qui giù.», rispose la ragazza, come se la sua ubicazione fosse ovvia.
Seguii il punto da cui sembrava provenire la voce e trovai la porta della cantina aperta. Era tutto buio, come la prima volta che ero scesa lì sotto.
«Non accendere la luce.», disse lei sentendomi arrivare.
«Cosa ci fai qui?», domandai mentre tastavo il freddo terreno con la pianta del piede.
«Mi nascondo.»
«Da chi?», chiesi abbassando la voce.
«Da voi.»
«Ti nascondi da me?», domandai scrutando nel buio alla ricerca della sua figura.
«No, non da te. Dagli abitanti di questa città.», rispose lei. «Non avrei mai dovuto uscire dal locale.»
Ancora una volta seguii la sua voce, tenendo le braccia tese per non andare a sbattere contro gli oggetti.
«Cosa è successo mentre ero via?», domandai.
«Niente. Abbiamo aspettato finché non è venuto Sarino a riportarmi qui.»
«Lui come sta?», chiesi preoccupata.
«Sembrava normale, prova a chiederglielo quando torna. Piuttosto raccontami come hai fatto a liberarlo.», disse afferrandomi una mano.
«Ci vedi bene nel buio.», osservai.
«La vecchia sembrava spaventata quando ti ha mandato in quel posto, era pericoloso?»
«No, cioè, era un casinò. La gente ci va per spendere i soldi giocando a carte.», spiegai.
«Capisco.», rispose poco interessata.
«Come ci sono arrivata qui?», chiesi improvvisamente.
«In che senso? Non sei tornata tu da sola?»
Non risposi, ancora non sapevo cosa avrei voluto dire e cosa era meglio tenere segreto.
Mi sorpresi nel vedere gli occhi della ragazza luccicare nel buio della cantina.
«Hai fame?», domandò Co.
«Non so, non riesco a capirlo.»
«Come fai a non sentire se vuoi del cibo!?», esclamò.
«Forse?», risposi per compiacerla.
«Bene, allora quando vai in cucina portami qualcosa da mangiare.»
Lasciò andare la mia mano, abbandonandomi nell'oscurità. Allungai le braccia per cercarla, ma non trovai altro che un mobile.
Mentre cercavo la porta andai a sbattere contro il tavolo facendo cadere degli oggetti. C'era una gran confusione là sotto, volevo riordinare tutto il prima possibile.
La porta si era richiusa da sola, dovetti percorrere la strada appiccicata alla parete, un passo alla volta sugli scalini, per poter uscire.
La cucina era nella stessa confusione del giorno prima, dopo che Co aveva saccheggiato la credenza.
Sedetti sul freddo pavimento bianco. Mi sentivo vuota, non capivo cosa provavo, come stavo, cosa volevo. Non mi ero mai tormentata con simili pensieri, forse sarebbe stato meglio dimenticare tutto e continuare come sempre. Presi una decisione: avrei tenuto tutto per me fino a quando non sarei stata costretta a parlare.
«Res, ti sei svegliata!», esclamò Sarino. «Come stai?»
Alzai lo sguardo sull'anziano uomo. Era identico a come l'avevo visto l'ultima volta: stesso completo nero, piccoli occhiali sul naso e espressione preoccupata. Se gli avessi risposto che stavo male avrebbe fatto altre domande, e sapevo che non sarei riuscita a tenere fede alla promessa appena fatta.
«Cosa ti è successo?», domandai invece.
«Niente di ché, solo qualche battibecco con un vecchio amico. Non devi più preoccuparti di niente.»
«Ok.»
Sarino rimase in piedi per un po', non sapendo esattamente cosa fare. Poi decise di piegarsi a sedere di fianco a me. Fece fatica ad abbassarsi, d'altronde non era poi così giovane.
«Senti, Res...», iniziò a dire per poi interrompersi non sapendo come continuare.
«Cosa?», lo incitai.
«Niente. Vuoi mangiare qualcosa?»
Rimasi in silenzio a guardare il mobiletto davanti a me. Questo non era certo ciò che avevo bisogno di sentire da lui, ma, come per me, era una sua scelta quella di non parlare.
«Co ha fame. Si è chiusa in cantina, non penso vorrà più uscire da lì.», lo informai.
«Allora cuciniamo qualcosa. Abbiamo un ristorante da gestire, dobbiamo riprendere a sistemarlo.», disse Sarino con il suo solito fare allegro.
Lo aiutai ad alzarsi e presi a studiare il contenuto della borsa che aveva con sé. Sul fondo potevo vedere biscotti, zucchero, latte, pasta, carne, insalata e patate. Sarino stava iniziando a capire come fare la spesa.
Lessi sull'orologio che ore fossero. Non mancava molto all'ora di pranzo.
Tornai prima nella mia stanza e cambiai i vestiti, indossando i miei stivali. Iniziai poi a sbucciare le patate mentre Sarino cuoceva i filetti di carne in padella. L'odore di fritto e lo scoppiettio della carne riempivano la cucina.
Non ero brava a pelare le patate, toglievo sempre troppo del vegetale o ero costretta a tornare indietro per levare pezzi di buccia dimenticati.
«Com'era la guerra?», domandai rompendo il silenzio.
«Confusione, caos e silenzio.», rispose come se stesse parlando del cibo che aveva davanti. «È durata tanto, ben nove anni, e a cosa è servita?»
«A proteggere il regno.», ipotizzai.
«Non c'è più niente ora al di fuori di queste terre. Siamo soli al mondo.», disse lui con freddezza.
«Tu vuoi stare da solo?», chiesi dopo un attimo di esitazione.
«La guerra mi ha cambiato, ma non così tanto da desiderare la completa solitudine. Cosa vuoi fare oggi?», proseguì cambiando argomento.
«Possiamo andare a comprare nuovi mobili per il locale, creare un menù o svuotare la cantina.»
«Conosco proprio il negozio adatto per comprare quello che ci serve!», esclamò Sarino riprendendo il buon umore.
Lo lasciai in cucina a finire il lavoro ed entrai nella saletta. Dovevo capire quanto esattamente mancava al nostro ristorante per essere definito tale.
Osservai la stanza: quattro tavoli di legno scuro, un bancone e due vecchi tavolini.
«Abbiamo bisogno di venti sedie.», dissi osservando le uniche due sedie del locale, di cui una rotta. «E qualcosa di più comodo di una bara su cui sedersi al bancone.»
L'anziano uomo si affacciò dalla finestrella che collegava la cucina e mi passò un piatto con la forchetta.
«Questo portalo alla ragazza.»
«Sì, adesso vado a darglielo.», risposi cominciando a dirigermi verso la cantina.
«Co», chiamai la ragazza. «Ti ho portato da mangiare. Posso accendere la luce?»
«No.», rispose con un tono che non comportava repliche.
Rimasi ferma esitando per qualche secondo prima di cominciare a dirigermi al buio verso la sua voce.
«Dove sei? Riesci a vedermi?», domandai scrutando nell'ombra.
Qualcosa mi toccò e sfilò il piatto dalle mani. Sobbalzai colpendo con il braccio un oggetto appuntito alle mie spalle.
Presi a toccarmi il punto ferito, sentendo il leggero rigonfiamento della pelle che tracciava una linea appena sotto il gomito.
«Ahia!», esclamai.
«Sì, qualcuno ha lasciato una freccia lì.», rispose Co prima ancora che avessi il tempo di porre una domanda.
«Penso mi stia uscendo sangue.»
«Vuoi che te lo lecchi?», propose la ragazza masticando il cibo.
«No, adesso ci metto un cerotto.», risposi disgustata.
«Come preferisci.»
«Riesci a mangiare?», chiesi, ricevendo un verso come risposta. «Stai usando la forchetta?»
Sentii cadere a terra l'oggetto metallico, probabilmente doveva aver capito che la posata non si poteva mangiare.
«Cosa ci fate al buio?»
La piccola luce venne accesa, illuminando Co intenta a mordere anche il piatto. La ragazza lo lasciò andare a terra, gattonando velocemente fino a nascondersi tra due casse.
Sarino mi guardò stranito, prima di posare gli occhi sul taglio che avevo al braccio.
«Cos'è successo?!», urlò spaventato, precipitandosi verso di me.
Osservai quella che mi era sembrata una ferita da niente, e che ora stava colando calda e rossa sostanza fuori dal mio corpo. Finora avevo sentito solo un leggero bruciore in quel punto.
«Mi sono tagliata per sbaglio.», risposi tranquilla, osservando la punta mie dita sporca di sangue.
«Vado a prenderti qualcosa per fermarlo.»
L'uomo tornò di fretta al piano di sopra, lasciandomi sola con la ragazza.
Raccolsi da terra il piatto vuoto e la forchetta lasciati da Co, e risalii gli scalini spegnendo la luce.
«Dovevi rimanere ferma.», borbottò Sarino uscendo dal bagno con una scatola tra le mani.
Mi sedetti in cucina a mangiare mentre l'anziano mi fasciava con bianche bende la ferita fino a far sparire sotto esse almeno la metà del braccio destro.
Notavo solo ora l'anello d'oro al dito dell'uomo. Certo sapevo fosse sposato, d'altronde era il padre di Diana, ma non avevo mai pensato a mia... alla madre della regina. Tutto quello che sapevo di Sarino e sua moglie prima di conoscerlo erano le voci sulle sue eroiche imprese e i dipinti appesi nel castello. Chissà quante di quelle storie erano vere, pensai.
«Ecco fatto.», disse l'anziano una volta concluso il lavoro. «Te la senti di andare in quel negozio adesso?»
«Certo, non ho niente da fare qui.», risposi mettendomi in piedi.
«Prendiamo questa!», esclamò Sarino indicando una larga sedia arancione.
«Il colore non c'entra niente con il ristorante.», dissi scuotendo la testa.
«Ma è in saldo!», ribatté lui.
L'Ekia era un negozio che faceva parte di un grosso magazzino ai bordi della città. Di questi tempi non aveva molti visitatori, ma sembrava essere ben fornito di ogni sorta di oggetto utile per la casa.
Al momento ci trovavamo nel reparto sedie e tavoli. Sarino correva da una parte all'altra della stanza studiando i prodotti in esposizione con molto interesse.
«Cosa ne dici di questa?», propose rigirandosi su un alto sgabello nero.
«Sembra morbido. Penso possa andare bene per il bancone.»
«Ne prendiamo due!»
«Bene, adesso ci mancano solo le venti sedie che non devono essere troppo alte o larghe, ma nemmeno basse e strette, e devono stare bene con i tavoli scuri e le pareti viola.», dissi riflettendo ad alta voce.
«Quindi le prendiamo nere?», domandò lui.
Osservai l'intera stanza di mobili. C'erano sedie in plastica, metallo, metallo e plastica, plastica dal colore di metallo, e legno.
«Un paio di quelle penso possano andare bene.», dissi indicando una sedia di legno.
«Ma non è nera!», esclamò l'uomo.
Era una classica sedia, priva bracci e cuscini su cui sedersi. Le quattro lunghe gambe erano attaccate solo al sedile, e nella parte superiore c'era una barra di legno per appoggiare la schiena. In situazioni normali le scheggie di legno mi avrebbero infastidito, ma il mobile in questione aveva una superficie liscia. Costava anche poco, l'unico problema era il colore chiaro.
«Proviamo a chiedere se hanno quel colore in magazzino.», insistetti.
«Mi scusi, ce le ha anche nere?», chiamò Sarino attirando l'attenzione del responsabile di quel reparto.
«Mi faccia vedere.», disse l'uomo in divisa arancione avvicinandosi alla sedia.
«Signor Adam?», domandai stupita nel vedere il proprietario del supermercato lavorare lì.
L'uomo si passò una mano tra i radi ricci biondi. I vestiti arancioni non si abbinavano affatto con il pallore della sua pelle. I piccoli occhietti neri si spostarono su di me con espressione annoiata.
«Penso tu mi abbia confuso con mio fratello. Io mi chiamo Mado Challah.», mi corresse.
«Mi scusi, non sapevo avesse un fratello. Vi assomigliate tanto.», cercai di salvarmi dall'imbarazzo.
«Numero quattromila tredici...», continuò come se nulla fosse, sfogliando il taccuino che stringeva in mano. «Sì, ci sono anche di nero, rosso, giallo...»
«Perfetto, le prendiamo nere allora.», lo interruppe Sarino.
«Seguitemi, vi porto a fare l'ordine.», accennò l'altro dirigendosi verso il bancone.
Provai pena all'idea di quei poveri sfortunati che di lì a momenti sarebbero stati costretti a tirare fuori dal magazzino ventidue sedie. Poi ripensai al fatto che io avrei dovuto portarle al locale, che si trovava da tutt'altra parte della città, e andai con la mano alla fasciatura sul braccio.
Rassegnata raggiunsi Sarino alla cassa dove stava pagando, tenuto bene d'occhio da Mado.
«Via Ballarini, numero cinque. Sì, si scrive così.», stava dettando l'anziano all'uomo.
«Cosa fai?»
«Do l'indirizzo del ristorante, così possono portare le sedie.», rispose lui.
«Arriveranno per domattina alle dieci.», ci informò Mado passando lo scontrino. «Grazie per essere venuti e arrivederci.»
«Pensavo le avremmo trasportate noi.», dissi uscendo dal negozio.
«Sono tante. Poi è meglio se non fai troppi sforzi con quel taglio.», rispose facendo cenno al mio braccio.
«Non mi fa neanche male.»
«Fa niente. Non ti farò comunque portare dei pesi.»
Iniziammo a camminare vicini sul grigio marciapiede. In questi giorni il sole calava più tardi e il buio faceva fatica a colorare di nero le vie di Bestland.
«Hai dovuto pagare di più per la spedizione?», domandai sapendo già la risposta.
«Non preoccuparti.»
Sotto quel cielo pomeridiano dalle nuvole così chiare da sembrare rosa mi tornarono in mente le parole di Gitan. Lui sosteneva che l'uomo al mio fianco era crudele e non meritava la vita. Io l'avevo difeso dicendo che era una persona buona, e ancora adesso lo penso. Sarino è una brava persona.
«Cosa vuoi mangiare sta sera?», domandò dopo un attimo di silenzio.
«Non lo so, mi andrebbe qualcosa di dolce.»
☆Commentate e ditemi se vi è piaciuto. In caso contrario fatemi pure notare dove ho fatto errori o come potrei migliorare questo capitolo.☆
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