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49. UT SEMENTEM FECERIS, ITA METES

Galanár scese dalla barca e salì le scale che conducevano alla sala del trono di Silmëran.

Poggiò il piede sull'ultimo gradino e si fermò ad ammirare lo splendido portale decorato. Era la prima volta che prestava attenzione alla perfezione delle sue incisioni, che si curava dei giochi disegnati dalla luce e dall'ombra tra le foglie di pietra. La prima volta che si fermava davvero a preoccuparsi della bellezza.

Raggiunse le due guardie che stavano in piedi, ai lati della porta. Rivolse loro un impercettibile cenno del capo, quindi slacciò la cinta, sollevò Ariendil e la consegnò prima di entrare nel salone, dov'erano radunati i Maestri e gli abitanti della città.

Fanelia, Aidan e Ilo entrarono dietro di lui. Al loro ingresso, Silanna si alzò dal trono e gli andò incontro. Tese una mano verso il re, che la strinse con decisione.

"Signora", iniziò lui con il suo solito tono confidente, "Amilendor non dimenticherà l'aiuto che il regno di Silmëran ha dato, non già alla nostra causa, ma alla causa stessa della libertà e della pace. Con la vostra Luce avete vinto le Tenebre. Un nemico cui la spada, da sola, non poteva mettere fine".

Silanna sorrise e le sue iridi dorate brillarono di sottile piacere all'udire quel discorso.

"State forse ammettendo che l'onore non è solo nelle armi, maestà?"

Galanár sollevò un sopracciglio di fronte a quella sottolineatura, ma alla fine le sue labbra si distesero in un sorriso.

"Sì, signora. Lo ammetto".

Lei lo guardò con affetto. Il calore con cui ancora le stringeva la mano suggeriva che le sue parole erano sincere, e non pronunciate per mera cortesia. Si riebbe da quell'emozione e assunse l'atteggiamento solenne che richiedeva la situazione.

"Come è vostro desiderio, vi scorteremo all'esterno", scandì. "Come nostri alleati, avete guadagnato il diritto di uscire dai confini. Tutte le terre che conquisterete vi apparterranno, e avete facoltà di siglare alleanze con le Città libere e con la Lega del Mare a vostra discrezione".

Si interruppe e i suo occhi scintillarono risoluti mentre si fermavano su quelli di lui.

"Tuttavia, Galanár, non metterete mai più piede a Silmëran".

Nella pausa che seguì quell'affermazione, il re la fissò corrucciato, come a chiederle il perché di quell'ordine perentorio. Sapeva ancora decifrare i suoi sguardi, perfino nei momenti di pura formalità, e la fervente preghiera che vi lesse lo convinse a non dire nulla.

"Questa città vi è proibita, ora e per sempre", proseguì lei, dopo quello scambio silenzioso. "Il suo accesso non sarà mai rivelato né a voi né ad altri. Silmëran ha fatto la sua parte in questa battaglia, ma adesso vogliamo proseguire la nostra storia nella Luce".

Lui annuì e si inchinò con rispetto. Si inchinò a lei per la prima volta da che si erano incontrati. Non avrebbe mai immaginato che sarebbe arrivato quel giorno, e che avrebbe perfino trovato quel gesto doveroso e sincero.

"Avete la mia parola, maestà".

Con un ultimo sguardo, si fece da parte, perché lei potesse prendere congedo anche dagli altri.

Silanna prese tra le mani quelle di Fanelia e le diede un affettuoso bacio sulla guancia.

"Non potrò mai ringraziarvi abbastanza per le cure che avete prodigato su di me", replicò la ragazza con genuina riconoscenza. "Senza la vostra magia e senza le vostre arti non sarei qui e non sarei in salute".

L'elfa la guardò come aveva già fatto la prima volta che si erano fronteggiate in quella sala, con estrema simpatia.

"Non occorre che mi ringraziate", rispose a bassa voce. "Prendetevi cura di lui".

Se alle due donne erano bastate poche parole e una sola occhiata complice per comprendersi, congedarsi da Ilo fu affare ben più difficile. Perché, per la prima volta nella sua vita, il giovane mago sembrava incapace di mettere una sillaba dietro l'altra per comporre una frase.

"Mastro Ilo, proprio voi siete rimasto senza parole?", scherzò la regina, intenerita di fronte a quella reazione inusuale. "Sono così difficile da lasciare andare?"

Lui sollevò gli occhi lucidi e osò incrociare quelli di lei.

"Il fatto è, signora, che lasciarvi andare per poi ritrovarvi si potrebbe arrivare a tollerare. È il pensiero dell'addio che non mi fa più parlare. Sapere che non vi vedrò più".

A quelle parole, l'incantatrice sorrise. Rinunciò alle formalità, gli poggiò una mano sul braccio e gli si fece da presso.

"Allora dite arrivederci, mastro Ilo", suggerì in confidenza. "Perché io e voi ci incontreremo ancora, e Silmëran incrocerà di nuovo la vostra strada, un giorno".

Lui la fissò esterrefatto, senza riuscire a distogliere lo sguardo da lei che, nel frattempo, si era spostata per fronteggiare Aidan.

Silanna tese anche a lui la mano come aveva fatto con Galanár, ma il ragazzo, senza la minima esitazione, l'attirò contro il suo petto e la strinse a sé, incurante dell'agitazione che serpeggiò nella sala e che fece irrigidire le guardie di Silanna. Dopo un attimo di esitazione, la regina ricambiò l'abbraccio e affondò il viso nel suo mantello per nascondere le lacrime.

Rimasero così, a respirarsi accanto, le ciglia serrate, le guance che si sfioravano.

"Tu ed Edhel sarete sempre i benvenuti a Valkano", le sussurrò Aidan all'orecchio. "In qualsiasi momento, sorella del mio cuore".

Mellodîn fermò il cavallo ai piedi della rocca. Allentò le redini e si prese il tempo per ammirare la sagoma di Laurëgil che si stagliava davanti a lui.

Il primo sole del mattino fece scintillare le torri d'avorio e un vento delicato disperse alcune foglie dorate. Se non avesse saputo con assoluta certezza che i tafferugli si erano appena spenti in quelle strade alberate, avrebbe potuto credere che quello fosse il luogo perfetto per una fiaba.

Appena avevano avuto notizia certa dell'arrivo di Galanár, aveva lasciato Aegis ad Harmaros ed era partito con l'esercito. Aveva tutta l'intenzione di iniziare a reprimere la rivolta, per permettere al re di entrare in città senza dover impiegare le sue forze, di certo già provate dalla campagna nelle Terre dell'Est e dalla strada percorsa per ritornare.

In verità, il suo compito si era rivelato ben più semplice del previsto. Il nerbo della ribellione era stato piegato dalla battaglia di Valkano e dagli appelli di pace giunti dalla corte di Harmaros. Il colpo di grazia, però, era arrivato sulle ali di una notizia inaspettata: Galanár cavalcava a fianco di Lomion. Quel fatto sbugiardava qualsiasi falsa pretesa e il sostegno che una parte della schiera elfica aveva dato ai ribelli si era subito spento.

Pacificare la capitale era stato un lavoro rapido e pulito, come piaceva a lui. Mellodîn seguì il profilo della merlatura fino alle torri, dove presto avrebbero issato i propri vessilli. Quell'immagine gli andò dalla testa al cuore e risvegliò un ricordo.

Era con Galanár ai piedi di quella rocca in una notte di tanti, ma ormai quanti?, anni prima. Era lì che l'intera storia aveva avuto il suo vero inizio. Era per quella città da leggenda e per le sue mura d'avorio che Galanár aveva deciso di cambiare il mondo. Il capriccio di un bambino era diventato un sogno imponente. Il sogno di tutti loro.

Udì il basso nitrito di un cavallo e l'ordine secco del cavaliere. Una figura si fermò al suo fianco e i due profili gemelli si stagliarono contro la luce dell'alba, con lo stesso portamento e le stesse insegne sul cuore. Mellodîn sorrise e si girò a guardare l'amico. Galanár ammirava con stupore immutato lo splendore della rocca. Un lieve sorriso gli aleggiava sul volto.

"Si direbbe che Vargas ti abbia tenuto parecchio impegnato. Ci hai messo un'eternità a tornare!", osservò il comandante con aria divertita. "E ti trovo anche invecchiato".

Galanár piegò un angolo della bocca in una smorfia sarcastica e continuò a fissare il castello.

"Io non invecchio, Mellodîn. Io cresco".

"Quindi è questo che ti è successo, nelle Terre Remote? Che sei cresciuto?"

Finalmente il re gli ricambiò lo sguardo.

"Credo di sì".

Si compresero come ogni volta senza dover usare troppe parole. Perché nessun cambiamento avrebbe potuto mutare di segno ciò che davvero apparteneva alla loro amicizia.

"E adesso, comandante, smettiamola di perdere tempo in chiacchiere e andiamo a riprendere la nostra città".

La cavalcata di Galanár fu la semplice messa in scena di un trionfo. Entrò a spron battuto e sciamò lungo la salita che portava alla rocca seguito dai suoi cavalieri.

Non aveva bisogno di conquistare la città, poiché Mellodîn aveva messo al sicuro le strade. Aveva bisogno di conquistare i suoi cittadini e, per farlo, doveva mostrarsi al massimo della sua potenza e del suo fulgore. Così era apparso splendido e terribile quando aveva attraversato la via centrale a cavallo, quando aveva spalancato le porte della reggia e ancor di più quando era apparso sulla balaustra del palazzo, a mostrarsi al popolo radunato sul piazzale.

Galanár attese che anche Aidan e Lomion fossero al suo fianco e che tutti potessero vederli, quindi si appoggiò al parapetto di marmo e scrutò la città, i suoi edifici e, infine, i suoi sudditi in attesa.

"Quando sono stato avvertito della rivolta e marciavo verso la capitale, non aveva che un'idea in testa", esordì duro. "Morta! Avrei dichiarato Laurëgil città morta! Ogni privilegio sarebbe stato perduto, ogni edificio pubblico demolito e cosparso di sale, perché questa è la punizione per una città che si ribella al proprio re".

Si fermò un istante, sul limite della sua stessa ira, che si era alimentata nell'eccitazione del momento. Gli sovvennero i tanti discorsi che aveva condiviso con Mellodîn in passato e si chiese cosa volesse davvero ottenere. Voleva essere amato o voleva essere temuto? Perché ciò che avrebbe potuto dire, o non dire, aveva il potere di spostare l'ago della bilancia dal lato dell'amore o da quello della guerra. E lui non voleva più commettere l'errore di confondere le due cose.

"Io sono stato un re giusto, Laurëgil, ma anche un re giusto può sbagliare", ammise, mentre la sua voce si adagiava su accenti più morbidi. "Perché ho trascurato di riconoscere i meriti che la stirpe elfica ha acquisito ai miei occhi e ho scordato di venerare i doni che mia madre mi ha trasmesso. Ho mostrato a stranieri un'attenzione che avrei dovuto piuttosto rivolgere a voi, al mio popolo".

Il silenzio che lo circondava si fece assoluto. Galanár si sforzò di interpretarlo, ma era impossibile stabilire da che parte stesse oscillando la bilancia. Pensò ad Aidan e a quanto era stato facile per lui, a Lumëran, fare presa sul cuore dei soldati, pur non avendo nessuna esperienza. Si chiese se avrebbe dovuto essere altrettanto sincero.

"Tuttavia, questo viaggio nelle Terre Remote è stato necessario", si sentì in dovere di spiegare. "Abbiamo combattuto una battaglia che non era solo nostra e l'abbiamo vinta per tutti, senza distinzione di razza. E mentre ero sul campo ho capito che non ci sono buoni e cattivi, uomini ed elfi".

E non ci sono nemmeno "individui", con buona pace di tutti i polverosi manuali di guerra su cui ho perso troppo tempo!

"Persone", scandì. "Ci sono solo persone. E io voglio essere questo. Non il re degli Elfi o il re degli Uomini. Voglio essere il re di qualsiasi persona che vorrà chiamarmi re".

Un cauto entusiasmo si levò dalla folla appena Galanár completò il suo discorso. Con l'animo sollevato, il re si girò verso Aidan e lo invitò a farsi più da presso. Non restavano, a quel punto, che le faccende burocratiche da espletare.

"Io e il re di Helegdir", annunciò prima di passare la parola al fratello, "abbiamo stilato nuove regole per queste terre, affinché si possa vivere insieme e si possa vivere in pace".

"Nelle Terre Riunite, nei territori della Lega e nel regno di Helegdir, tutti risponderemo alla stessa giustizia, senza riguardo per la razza, il sesso o la famiglia di origine", esordì Aidan con voce cristallina e un'insolita calma. "Ma chi commetterà un torto o un delitto contro qualcuno di un'altra razza subirà una pena doppia. La città di Harmaros sarà da oggi un'enclave elfica e coloro che vorranno vivere solo tra i propri simili potranno farlo lì, presso la corte di re Arantar. Ma Valkano... Valkano resterà un santuario di magia a disposizione di tutti".

Galanár assentì con il capo a quell'ultima disposizione di Aidan, che rinnovava pubblicamente quello che era stato il suo desiderio fin dal principio.

"Come io ho accolto molti valorosi guerrieri elfici tra le fila del mio esercito", aggiunse, per dare forza al pensiero del fratello, "così esistono Uomini degni di accedere alla magia degli Eldar, e con questo editto noi confermiamo loro tale diritto".

La voce di Galanár si spense nel brusio che iniziò a serpeggiare tra la folla. Tutti avevano preso a commentare il proclama appena udito. Le disposizioni concordate con Aidan, tuttavia, erano state emanate e le decisioni di un re erano insindacabili. Non andavano discusse né spiegate. Qualsiasi altra parola non sarebbe più appartenuta alla legge, ma avrebbe avuto attinenza solo con il cuore. E Galanár capì che era giunto il tempo di mostrarlo, il suo cuore.

"Sono un re giovane e sono un re caparbio", aggiunse, mentre i suoi sudditi tornavano a guardarlo con attenzione. "Ma sono anche il re che, da bambino, sognava di essere qui, su questo balcone, a parlare al suo popolo. Sono il re che ha amato Laurëgil al primo sguardo e che Lauregil può imparare ad amare".

Il silenzio che si diffuse di nuovo nella piazza interruppe i battiti nel suo petto. Galanár scrutò quei visi indistinti che lo fissavano. Pregò di ricevere in fretta il responso della folla, e la folla iniziò ad acclamare il suo nome.

Con un'espressione di vivo sollievo, Galanár si girò a guardare Aidan e si accorse che il fratello gli stava sorridendo.

"Bel discorso, davvero!", esclamò ad alta voce, prima di tendersi verso il suo orecchio con discrezione. "Magari la prossima volta impegnati a essere più breve. Io ho fretta di tornare a casa".

Galanár rise, ma un attimo dopo si fece serio.

"Tornare a casa", ripeté con una punta di tristezza. "A volte penso di aver dimenticato il senso di questa parola. Arthalion, Laurëgil, Formenos... esisterà mai un posto, per me, da chiamare casa?"

Aidan gli passò il braccio attorno al collo e poggiò la fronte contro quella del fratello.

"Casa, Galanár, è dove riposa il tuo cuore".

NOTA DELL'AUTORE

La locuzione Ut sementem feceris, ita metes è la versione latina del nostro famoso proverbio Come avrai seminato, così mieterai.

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