47. ET IN ARCADIA EGO
Precipitarono.
Frammenti di pietra, schegge di pavimento, resti di colonne di quella che era stata la sommità della torre precipitavano insieme a loro.
Edhel vedeva il gemello cadere sotto di sé. Se avesse spinto lo sguardo oltre, si sarebbe perso in un nulla fitto e spaventoso, dove non c'era nessun appiglio alla speranza o alla ragione. Sentì il gemello gridare e tese la mano per prenderlo, anche se quel gesto non aveva nessuna utilità né avrebbe prodotto alcun miracolo per loro.
"Aidan, afferrami! Mi senti? Afferrami!"
La voce di Edhel cercò di sfidare il fragore della caduta, il sibilo dei corpi, lo schioccare della stoffa e Aidan, che invocava il suo nome con il terrore nella gola. Cercò di vincere lo spazio, il tempo e l'occasione. Cercò, ma invano.
Infine smisero di precipitare.
Edhel atterrò sul corpo di Aidan e rotolò al suo fianco. Restò immobile, riverso sulla schiena. Quando trovò il coraggio di aprire gli occhi, si accorse che il buio era scomparso. Sopra di lui il sole splendeva come in una giornata di primavera.
Sentì Aidan che si lamentava. Si girò, si sollevò sulle ginocchia. L'impatto, per lui, doveva essere stato intenso e doloroso. Aveva la mascella serrata, le labbra pallide piegate in una smorfia, i muscoli del corpo contratti.
Edhel cominciò a respirare a fatica. L'angoscia di non sapere ciò che li attendeva gli toglieva il fiato e gli svuotava la mente. Voleva fare qualcosa, ma non sapeva cosa, e più si agitava a quel pensiero, più restava bloccato dalla paura. Tese le braccia e appoggiò le mani sul petto di Aidan. I lunghi capelli rossi gli ricaddero attorno al viso e si adagiarono sulle protezioni di cuoio che stringevano l'arciere. Accanto a una ciocca si infranse una lacrima di impotenza e di tensione.
In quel momento il sole raggiunse il suo zenit e la luce che li circondava si fece più intensa, quasi soffocante. Senza staccarsi dal fratello, Edhel sollevò il capo per osservare la scena, che si era fatta vivida e reale. Non gli occorse nessuno sforzo per riconoscere la spianata polverosa e asfissiante, le montagne nude e inospitali, e ogni altro piccolo dettaglio che conservava nella memoria. Edhel dischiuse la bocca mentre un triste stupore gli fermava il cuore.
Hakala.
"Oh, Dei... no!", gli sfuggì dalle labbra.
Aidan spalancò gli occhi e urlò di dolore. Edhel non rispose. Le labbra gli si erano prosciugate, così come i pensieri. Era immobile, come un animale braccato, condannato al proprio destino.
"Edhel... fa male, fa male da morire!"
L'elfo pensò che non sarebbe stato capace di sopportare a lungo lo strazio che la voce di suo fratello gli accendeva nella testa. Le parole di Aidan non gli permettevano di pensare a niente.
Fece violenza su se stesso e si obbligò a studiarlo con attenzione. Non poteva più avere alcun dubbio: il potere dei Daimon lo stava divorando dall'interno. Il corpo di Aidan non era riuscito a sopportare la loro ultima, devastante evocazione di potere. Ed era anche colpa sua. Anzi, era soprattutto colpa sua. Distolse lo sguardo da lui, ma non riuscì a scacciare le lacrime, che erano diventate tutt'uno con la pelle del suo viso.
Aidan continuava a gemere. Si consumava sempre di più, in preda al dolore e lui non riusciva a guardarlo. La luce del sole si infranse sulle iridi lucide di Edhel. Non c'era riparo, non c'era protezione. Non poteva scappare. Lo aveva capito appena aveva riconosciuto il posto in cui gli Dei li avevano mandati. Aveva capito di non avere scampo.
Si passò una mano sul viso e prese un profondo respiro. Si mise a cavalcioni sul corpo del fratello per tenerlo fermo, poi si chinò verso di lui e gli appoggiò una mano sul cuore.
"Puoi sentirmi, Aidan?"
Il gemello sollevò le ciglia e lo fissò con disperazione.
"Edhel, ti prego... non ce la faccio più... aiutami!"
L'elfo serrò le palpebre per non sentire il dolore e annuì. Che cosa poteva fare, se non tentare di tenerlo calmo e aspettare con lui l'inevitabile?
Si guardò attorno alla spasmodica ricerca di qualcosa che potesse tornargli utile, ma c'erano solo sole e polvere, aridità e morte per loro.
Finché qualcosa scintillò sotto la luce.
Edhel si voltò in quella direzione e vide cosa l'aspettava. D'impulso si ritrasse, sgomento al solo pensiero di ciò che andava fatto. Non poteva, non lui. Si aggrappò con disperazione al proprio istinto, che non lo aveva mai tradito, e prese un profondo respiro. Doveva tentare, anche se, come ogni volta, non aveva idea di cosa sarebbe potuto accadere. Tornò a chinarsi verso il viso del fratello.
"Tieni gli occhi chiusi e non avere paura", mormorò con dolcezza "Non c'è più nulla di cui tu debba avere paura".
Nella mente sconvolta di Aidan, la sua voce incrinata risuonò come una ninnananna, una di quelle splendide melodie cantate da sua madre, di cui non comprendeva le parole ma che bastavano da sole ad accompagnarlo nel sonno. Edhel, tra le lacrime, vide che il volto di suo fratello si era rasserenato e quella calma temporanea gli infuse un po' di coraggio.
Fece scivolare la mano al suo fianco e tastò il terreno fino a che le sue dita incontrarono il freddo del metallo che lo aveva abbagliato un attimo prima. Anar, la lama elfica di Aidan, era caduta assieme a loro ed era atterrata accanto al suo proprietario. Edhel la sollevò davanti a sé.
"Addio, Aidan".
A quelle parole, il gemello provò a dimenarsi, ma era così debole che a Edhel bastò aumentare la pressione del braccio sul suo petto per bloccarlo.
"Non avere paura", ripeté. "E dimmi addio anche tu..."
Il pianto lo obbligò a fermarsi e affogò le sue parole, fin quasi a renderle incomprensibili.
"Devi lasciami andare".
Le dita di Aidan persero la presa e scivolarono via. Edhel ordinò a se stesso di non tremare e di non soffrire. Con tutte le sue forze, piantò la lama nel cuore di Aidan, poi si lasciò cadere su di lui, svuotato, straziato, incapace di trattenere i singhiozzi.
Sarebbe rimasto lì, non si sarebbe più mosso, fino a che gli Dei non lo avessero obbligato a farlo. Sarebbe rimasto lì per l'eternità.
D'un tratto, la luce dei Daimon esplose con il suo trionfo di colore dalla ferita aperta. Edhel la osservò per qualche istante, poi affondò le dita nel sangue e nella carne di suo fratello. Chiuse gli occhi, abbandonò la guancia sul petto di Aidan e sospirò.
In alto e ancora in alto. Le scale sembravano non finire mai.
Quando giunse nella sala abbandonata da Vargas e dai suoi uomini sembrava che non fosse trascorso nemmeno un minuto. Le carte ondeggiavano sul pavimento polveroso, l'inchiostro era ancora una macchia scura sulla pietra. Solo il tremito che scuoteva l'edificio le rammentava che non aveva molto tempo.
Silanna trovò la porta che Aidan aveva chiuso in faccia a Galanár e si fermò ad osservarla. Carezzò la superficie liscia di quell'apertura, poi vi poggiò la fronte. Il freddo della lastra alleviò la febbre che l'agitava.
Vilya poteva aiutarla ad abbattere quell'ostacolo? Avrebbe avuto bisogno di un'imponente spinta d'Aria per mandare in frantumi la porta. E, se l'avesse fatto, avrebbe compromesso del tutto il già fragile equilibrio della struttura?
"Edhel", mormorò con dolcezza , "che posso fare?"
Si sforzò di indovinare cosa avrebbe fatto lui. Se fossero stati insieme, come quel giorno a Valkano, niente li avrebbe fermati. Ma era da sola. Stavolta era lei a essere da sola in una torre. Un lacrima silenziosa le brillò nell'angolo dell'occhio.
"Devo salvare Aidan, che posso fare?", chiese ancora al silenzio angoscioso che la circondava.
Qualcosa, simile a una carezza invisibile, le sfiorò la guancia. Silanna singhiozzò a quel tocco e la lacrima scivolò. Quando arrivò alle labbra, era gelida. L'elfa sollevò le ciglia e si raddrizzò.
Ghiaccio.
Il ghiaccio, dal soffitto, iniziava a permeare la stanza con il suo gelido abbraccio. L'idea era rischiosa, ma Edhel le aveva insegnato che gli azzardi potevano funzionare, e lei non aveva davvero modo di protestare.
"Vilya!", ordinò secca. "Raduna i venti del Nord. Devi gelare ogni cosa".
Una sottile superficie traslucida ricoprì le pareti e la porta di fronte a lei. La stanza si riempì di fiocchi di neve e cristalli di ghiaccio, mentre il Daimon dell'Aria scorrazzava indisturbato e incitava i venti delle vette più estreme.
Silanna si strinse addosso il mantello per resistere al freddo e attese. Appena la porta fosse stata del tutto gelata, sarebbe stata in grado di mandarla in pezzi senza usare la magia. Afferrò, quindi, uno dei candelieri di bronzo che troneggiavano ai lati dello scrittoio. Lo sollevò con entrambe le mani e colpì con decisione il centro della porta. La superficie ghiacciata si rigò, si frantumò e andò in pezzi.
Con un sospiro di sollievo, Silanna salì l'ultima rampa di scale. Un'altra porta chiusa le sbarrava il passo. L'entrata, però, era stata serrata con un nodo magico, di certo dalla stesso Vargas. Un chiavistello invisibile che lei poteva aprire con facilità.
Le ante si spalancarono di colpo. La sala rotonda era una stupefacente gabbia di ghiaccio. Silanna trattenne il fiato di fronte alle colonne rilucenti, ai cristalli che piovevano minacciosi dal soffitto, allo spesso strato di neve che ricopriva il pavimento.
Aidan era riverso al centro di quello spettacolo bianco e soffocante. Il suo corpo era gelato. La pelle candida e le labbra incolore sfidavano il bagliore che lo circondava.
L'elfa controllò che non ci fosse nessun altro, poi si precipitò accanto all'arciere. Cercò con urgenza un qualsiasi segno di vita. Poggiò un orecchio sulle piastre ghiacciate della sua armatura e le parve di percepire un lieve battito, ma non ne era certa, perché il suo cuore le colpiva furioso le tempie e copriva ogni altro suono.
Si sollevò e provò a farlo rinvenire. Un sussulto violento fece oscillare il suolo, le vele della volta tremarono. Le stalattiti si staccarono dal soffitto e precipitarono su di loro come lance affilate. Il pavimento iniziò a sgretolarsi, come quando era con Edhel nel loggiato di Formenos. Quella volta, però, non si trovava nello spazio sacro dei Daimon. Era reale. Era tutto reale. La torre stava crollando.
Silanna si gettò sul corpo freddo di Aidan. Gli serrò le braccia attorno al collo, strinse le palpebre e iniziò a pregare.
Un oscuro gemito si levò dalla torre.
Galanár ebbe appena il tempo di gridare agli uomini di mettersi al riparo.
La confusione sul campo di battaglia era totale. I soldati di Vargas, in rotta, fuggivano senza ordine, incalzati dagli uomini di Arthalion. I capitani di Galanár procedevano in quella caccia senza più seguire un piano collettivo, cogliendo le occasioni propizie per assaltare il nemico. I Silmëran, tagliati fuori dallo scontro, tentavano di allontanarsi. Cercavano Ilo, ma l'incantatore non si vedeva da nessuna parte.
Dopo una lunga e penosa sequenza di tremiti sordi, un cupo boato mise fine allo scompiglio generale. La torre di Lumëran si ripiegò su se stessa come un castello di sabbia e sollevò un'onda di polvere, ghiaccio e macerie.
La massa incoerente di particelle finissime cancellò ogni vista e coprì lo schianto delle pietre lanciate senza disciplina. Un silenzio innaturale attraversò lo spazio attorno alla costruzione caduta e si allargò come un'onda a ricoprire uomini e cavalli. L'aura di assenza perdurò a lungo e congelò la scena in una immobilità di morte. Poi, i primi segni di vita cominciarono a baluginare sullo spazio immoto, dove la polvere ancora aleggiava senza posarsi.
Ilo si sollevò a fatica e si lasciò andare sulle ginocchia. Tossì e si sforzò di respirare. Si diede un'occhiata generale: al di là delle vesti lacere, sembrava tutto al proprio posto. Lo scudo magico che si era lanciato addosso all'ultimo minuto, sebbene abbastanza improvvisato, era stato sufficiente a proteggerlo. Attorno a lui, però, c'erano solo macerie e lamenti di uomini feriti. E davanti a lui, afflosciato tra le pietre, c'era il vessillo della principessa di Aermegil.
Vederlo e iniziare a scavare fu per Ilo un unico gesto. Scavare e pregare, senza pensare a respirare, senza pensare al sangue che gli feriva le mani nude.
"Ilo!"
L'incantatore si fermò, gelato da quel grido che aveva attraversato il campo di battaglia.
Di nuovo? Miei Dei!
Edhel pensò che quella volta era stato davvero troppo persino per lui. Non avrebbe sopportato un'altra traslazione. Piuttosto avrebbe invocato Amaurea e le avrebbe chiesto di distruggerlo per sempre.
Con una smorfia di disappunto si sollevò in piedi.
Buio, buio e ancora buio!
Era di nuovo ad Ernendir?
Probabile, ma non certo. Non esiste nulla di certo.
Pensò ad Aidan e gli venne un brivido. Quanto tempo era trascorso per il suo gemello? E quanto per lui? Ed era lo stesso tempo?
No, non c'era nulla di certo, nemmeno che Aidan fosse ancora vivo. Il suo era stato un azzardo, come sempre, ed Edhel non aveva modo di sapere se avesse funzionato.
"Un attimo", mormorò tra sé. "Un modo forse esiste".
Sollevò la mano e accese una fiamma. La tenne sospesa per un istante e ne fissò la luce con curioso interesse. La spense con un gesto rapido, quindi fece scaturire un sottile rivo dalla parete nera alla sua destra. Il suo sguardo si accese di un sottile piacere. Mosse le dita di lato e un colpo di vento agitò lo spazio di fronte a lui. Infine, poggiò la mano ai suoi piedi e trasmise un sussulto alle pietre del pavimento.
Si sollevò con aria soddisfatta e, senza più nessuna esitazione, si avviò con passo sicuro lungo l'oscuro corridoio. Entrò nella prigione dove gli Eldar soffrivano le pene della loro prigionia eterna e passò una lunga occhiata sui loro corpi provati e contratti. Infine si fermò a squadrare Vargas e il suo viso si illuminò di un sorriso pungente.
"Chiedo venia, signori, se vi ho dovuti lasciare", esclamò mellifluo e gongolante.
Sollevò la mano destra. Una guizzante lingua di fuoco si accese sul suo palmo e si rifletté nell'azzurro cangiante delle sue iridi, che brillavano di incontenibile piacere.
"Dove eravamo rimasti?"
NOTA DELL'AUTORE
Et in Arcadia ego è uno dei più famosi memento mori (= ricordati che devi morire. Era usanza nell'antica Roma, quando un generale rientrava in città vittorioso e raccoglieva gli onori della folla, che qualcuno alle sue spalle gli rammentasse la sua fragilità umana, per evitare che la superbia avesse il sopravvento).
Nonostante sia un'iscrizione latina, Et in Arcadia ego non risale all'epoca classica, ma appare come incisione tombale in alcuni dipinti del XVII secolo. La traduzione della frase, con il verbo sottinteso eram (ero), è Anche io ero in Arcadia. L'Arcadia, nella mitologia greca, era rappresentata come una sorta di paradiso terrestre e, nella letteratura successiva, va a identificare un mondo idilliaco.
L'interpretazione più comune è che la frase, detta da colui che giace nella tomba, serva come monito per coloro che la leggono: Anche io che giaccio in questa tomba ho vissuto in Arcadia, ovvero Anche io ho goduto dei piaceri della vita come te, e adesso giaccio in questa tomba.
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