46. AEQUAT OMNES CINIS
Edhel aprì gli occhi.
Buio, buio e ancora buio!
Attorno a lui, in effetti, non c'era nulla. Solo una luce crepuscolare e verdastra. E non conosceva quel posto.
Ammesso che sia un posto. Un nulla immobile e scuro può essere definito tale?
Non ne era sicuro. In verità, poiché neppure lui esisteva più in una forma stabile e materiale, non c'era nulla di cui potesse dirsi sicuro.
Sollevò le mani davanti al viso e osservò le dita. Il pulviscolo dorato non le aveva ricomposte del tutto. Stava ancora riprendendo forma e, come ogni volta, non sapeva ancora dove.
E, soprattutto, quando.
Sospirò, rispondendo a una sua consumata consuetudine. In realtà, non provava né sofferenza, né fastidio, e aveva fatto l'abitudine a quel suo stato di assoluta impermanenza. Forse, però, in quell'unica occasione aveva provato qualcosa che somigliava al dispiacere.
Avrebbe desiderato un istante in più. Solo un istante in più con Aidan, per poterlo abbracciare.
Ma se è così che piace agli Dei...
Si mise in cammino. Quel vuoto enorme in cui era capitato doveva avere un qualche significato. Aveva compreso ormai da tempo che non esisteva attimo che non avesse un senso, un'importanza. In ogni luogo e in ogni tempo in cui era stato scagliato, aveva trovato qualcosa da scoprire, da imparare o semplicemente da ammirare.
Ogni frammento era infinito, perché concorreva a costruirne la struttura.
Avanzò nell'oscurità fino a quando incontrò una fioca luce capace di illuminare la scena. Era in un sotterraneo, forse nelle segrete di qualche antico maniero. Le pareti assunsero la consistenza della pietra. Erano traslucide, pregne di umidità e muschi. Avvertì la presenza dell'Acqua. Doveva essercene parecchia. Era pressante, vicina. Edhel riusciva a percepirne con chiarezza la potenza, il dominio su quel luogo.
Varcò un pesante ingresso e capì di essere entrato nelle prigioni. Davanti a lui, incatenati alle pareti, gli spiriti immortali di alcuni Elfi Scuri si agitavano nel vano tentativo di sciogliere i solidi ceppi.
Ernendir?
Ecco dov'era finito. Nell'isola sommersa al largo delle terre di Aermegil, la prigione eterna cui Amaurea aveva destinato gli Eldar che si erano opposti al suo volere e avevano cercato di piegare i Sacri Quattro ai loro scellerati rituali. In quel luogo la Dea e i suoi Daimon dimoravano in spirito, quindi esso apparteneva allo stesso tempo al mondo reale e allo spazio sacro.
Edhel cominciò a guardarsi attorno, alla ricerca di una conferma alle proprie intuizioni. E, quando la sua affascinante ipotesi si fece certezza, non poté fare a meno di ridere.
Fece qualche passo verso il fondo della sala. Man mano che i suoi occhi si abituavano alla scarsa luce, tutto gli appariva più chiaro. Si fermò di fronte a un elfo immobilizzato da solide catene e abbozzò un ironico inchino.
"Benvenuto, Maestro!", esclamò divertito.
Vargas sollevò il capo e gli rispose con un ringhio. Le sue iridi gelide brillavano ancora di rabbia, di inquieta rivolta e di malcelato orgoglio. Edhel rimase colpito da quell'espressione che non accennava per nulla al rammarico, al punto da sentirsene offeso. Il sorriso gli sparì dalla faccia.
"Siete in catene, eppure osate ancora rivolgermi quello sguardo", osservò con voce metallica.
Vargas squadrò il ragazzo da capo a piedi. Sembrava volerlo soppesare una volta ancora, come aveva già fatto troppo spesso quando entrambi erano in vita.
"Cos'altro vi aspettavate, Edheldûr? Volevate che io esaudissi il capriccio del mio sciocco e ignorante allievo?" ribatté mentre piegava le labbra in un sorriso sardonico. "Dovrei forse inginocchiarmi al vostro cospetto e implorare la vostra clemenza?"
Il giovane arricciò le labbra in una smorfia, quindi socchiuse le palpebre e incrociò le braccia sul petto con aria distaccata.
"No, dovreste solo pregare", rispose infine. "Perché credo di essere appena diventato il vostro carceriere".
Mosse qualche passo distratto prima di proseguire, e la sua voce flautata si colorì di una nota crudele.
"Un carceriere senza nessuna esperienza in fatto di torture e con un sacco di tempo per imparare... un'infinità di tempo, per essere corretti".
Esplose in una sonora risata, poi tornò a fissare Vargas, per non perdersi neppure una stilla della sua furia e della sua sofferenza.
Non fece in tempo, però, a godersi il momento. Le sue dita cominciarono a risplendere nella penombra di pulviscolo dorato. Considerò con disappunto il suo corpo che iniziava per l'ennesima volta a sfaldarsi e sbuffò.
"Accidenti, proprio adesso che iniziavo a spassarmela!"
Quella volta indovinare era stato semplice. Non aveva avuto nemmeno bisogno di sforzarsi per rintracciare l'istante nel tempo. Lo aveva vissuto appena un attimo prima, ne sentiva ancora addosso il fremito e l'eccitazione.
Edhel era di nuovo al centro della sala rotonda ricoperta di ghiaccio. Di Vargas non c'era più traccia, segno che il tempo stava scorrendo nella giusta direzione. Aidan era a terra e sembrava svenuto, ma lui non si allarmò. Avevano evocato una magia potente quanto quella di Hakala. Al suo gemello sarebbe occorso un po' di tempo per riprendere coscienza di sé.
Si inginocchiò al suo fianco e gli passò una mano sopra il viso. Il respiro era lieve ma regolare. Si sarebbe svegliato presto, doveva solo aspettare. Gli sollevò il capo con delicatezza e lo sistemò sulle gambe. Voleva approfittare di quella provvisoria solitudine. Passò un lungo sguardo su tutta la sua figura, su quel fratello che, a dispetto di tutto, amava ancora tremendamente.
Quando il suo corpo era stato frammentato in una miriade di granelli scagliati nel nulla, Edhel non aveva fatto fatica ad accettare il suo stato. L'immediata percezione del tutto lo aveva esaltato. Aveva superato e cancellato ogni altra possibile emozione. Appena aveva compreso di essere ormai fuso con l'infinito, aveva provato una gioia pura e perfetta.
Eppure, sebbene avesse sempre cercato di negarselo, sapeva che quella non era l'assoluta verità. Anche se era assurdo e innaturale pensarlo, in fondo al suo spirito era rimasto un piccolo, invisibile dolore.
Era il pensiero remoto e distante di aver dimenticato di dire qualcosa di importante, che lo assaliva ogni volta che incrociava Aidan nello scorrere del tempo. Era l'idea di essere ogni volta così prossimo a sfiorarlo e di doverlo vedere sparire di nuovo e di nuovo, un'infinità di volte.
Solo allora, mentre lo teneva tra le braccia in quell'attesa, Edhel sentì che quel dolore stava per sparire. Comprese che amare Aidan era stato tutto ciò che lo aveva portato a quel momento. E quel momento era splendido.
"La perfezione", ripeté in un soffio, "siamo noi quando siamo insieme".
"Dove siamo?"
Le palpebre di Aidan si sollevarono a fatica. Il suo gemello lo fissava dall'alto con il solito sorrisino soddisfatto.
"Sempre a fare domande, eh?", scherzò.
L'arciere si puntellò con le mani contro il pavimento freddo e si tirò su. Edhel si ritrasse per dargli spazio. Si mise in piedi e aiutò il fratello a fare altrettanto. Aidan scandagliò la sala gelida e deserta, e la sua iniziale preoccupazione scemò fino a trasformarsi in curiosità.
"Lui è...?"
L'elfo annuì.
"È finita".
Nonostante la rassicurazione ricevuta, gli occhi di Aidan continuarono a frugare la stanza, furtivi. Era alla ricerca di qualcosa che fosse in grado di suggerirgli che era tutto vero. Dopo aver vagato in quello scenario vuoto e ghiacciato, il suo sguardo si posò su Edhel. Non poteva essere tutto vero, se lui era lì, se loro due erano insieme. Doveva essere nello spazio sacro dei Daimon, ormai era in grado di capirlo perfino lui. E sapeva altrettanto bene che quello non era il posto in cui avrebbe dovuto trovarsi.
"Perché sono ancora qui?", chiese perplesso.
Edhel piegò appena le ciglia scure.
Perché?
Lui non se l'era nemmeno chiesto, il perché. Lo aveva accettato e basta. Per Aidan, invece, doveva sempre esistere un motivo valido.
"Immagino che sia un congedo", si sforzò di sorridere. "Gli Dei sono stati gentili con noi".
Quasi non riuscì a concludere la frase, perché Aidan lo travolse e gli levò il fiato con il suo abbraccio. Edhel si arrese subito e si abbandonò a quella stretta senza protestare. Forse per lui si trattava solo di un vago arrivederci, ma per Aidan quello era un addio. Suo fratello non sarebbe entrato nello spazio sacro dei Daimon un'altra volta. Non ne aveva più bisogno.
Si lasciò affondare in quella sensazione di calore e di affetto che gli era ben nota e che non andava spiegata a nessuno, conscio che non l'avrebbe più ritrovata in nessun altro momento. Restò a godersi quel contatto fino a quando avvertì che la scena, attorno a loro, cominciava a sgretolarsi.
Il soffitto della sala diventò sabbia, le colonne si sciolsero e il pavimento iniziò a crollare, come una spirale che si stringeva verso il centro dove loro si trovavano. Né quella subitanea rovina, né la familiare percezione della perdita di sé sorpresero l'elfo.
Edhel si limitò a sorridere, fece sparire una lacrima dall'angolo dell'occhio e si staccò dal gemello. Lo allontanò da sé con lo stesso gesto calmo che aveva usato per Silanna e si preparò a disperdersi nel tempo ancora una volta. Il viso di Aidan, però, si contrasse in un'espressione di triste stupore che, a poco a poco, mutò in terrore.
"Stai tranquillo", cercò di rassicurarlo il gemello. "È tutto a posto".
Quelle parole, però, non sembrarono sortire alcun effetto. L'arciere iniziò ad agitarsi. Spostò lo sguardo nervoso da una parte all'altra della stanza, a studiare i dettagli di quel mondo che andava a pezzi, poi gettò un grido così straziante da far vacillare le certezze di Edhel. Anche lui, a quel punto, cominciò a guardarsi attorno con preoccupazione. Aveva vissuto quell'istante miliardi di volte prima di allora. C'era qualcosa che non andava.
Sollevò le mani davanti a sé. Erano sempre le prime a dissolversi, a trasformarsi in pulviscolo dorato e a svanire. Erano ancora intatte. Le girò e le studiò più e più volte. Erano ancora lì, in ogni loro particella.
Con terrore crescente, sollevò le ciglia e fissò Aidan.
Il gemello era sconcertato, incapace di articolare un qualsiasi verso. Come se fosse stata la sua immagine riflessa nello specchio, anche lui aveva sollevato le proprie mani e le stava osservando sgomento.
Ed Edhel, di colpo, comprese: era Aidan, e non lui, che stava andando in pezzi.
Quel pensiero cancellò qualsiasi altra voce nella sua testa.
Suo fratello andava in pezzi. Tutto andava in pezzi e non c'era nulla che lui avrebbe potuto fare o dire per cambiare la storia.
Il suo gemello aveva ucciso Vargas usando tutta la potenza dei Daimon. Il suo corpo, che era stato il veicolo della loro forza magica, non poteva resistere. Aidan lo sapeva, ma aveva scelto lo stesso di farsi strumento di quella giustizia. Edhel riuscì solo a sentirsi sopraffatto da quella consapevolezza, che era insieme amore e dolore.
Il centro su cui si trovavano si era ormai ristretto fino a lambire i loro piedi. Non avrebbero resistito a lungo a quella distruzione. Aidan sarebbe caduto, lui sarebbe caduto ed entrambi avrebbero trascinato il mondo con loro.
Perché era così che doveva andare. Perché era quello, lo scopo per il quale erano stati mandati, tutti e due. Lo scopo che dava senso e valore a un'intera vita, a ogni prova, a ogni sofferenza, a ogni sorriso. E lui, che vedeva le infinite trame del tempo e della storia, non poteva, non doveva provare nessun dolore.
"Nai", mormorò senza un fremito, senza un rimorso.
NOTA DELL'AUTORE
Il titolo è tratto dalle Epistulae morales ad Lucilium di Seneca (XCI, 16).
Aequat omnes cinis. Inpares nascimur, pares morimur si traduce letteralmente con La cenere appaia tutti. Nasciamo diversi, eguali moriamo. Ovvero, la morte rende tutti uguali.
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