22. DE PROFUNDIS CLAMAVI
Aidan galleggiava sulla morte.
Restava sospeso nell'assenza, mentre qualsiasi fede scivolava via e lo abbandonava del tutto.
"Il cielo non può finire".
No, non poteva sparire proprio in quel momento. Quella voce, doveva prima capire da dove venisse, che cosa fosse.
"Non possiamo vedere l'infinito, Aidan, perché ne facciamo già parte".
Provò a sollevare le palpebre, ma si rivelò uno sforzo sovrumano. C'era luce, troppa luce attorno, che gli faceva male.
"Le stelle sono dentro di te".
Fece violenza su se stesso e alla fine ci riuscì. Aprì gli occhi.
Edhel era seduto al suo fianco, chino su di lui. Le sue iridi color dell'acqua scrutavano ogni suo movimento. Erano lucide e colme di preoccupazione.
Appena si rese conto che il gemello era di nuovo vigile, l'elfo si scostò e si affrettò a sfoderare la sua solita aria distaccata e indispettita.
"Non dovresti essere qui", disse.
Aidan lo scrutò confuso.
"Non dovrei essere qui? Gran bella accoglienza!", mormorò. "E poi... dove sarebbe qui?"
"È complicato", tagliò corto Edhel.
Rivolse lo sguardo altrove e Aidan sbuffò.
"Sì, e io faccio troppe domande".
D'istinto tese le dita per sfiorare il gemello. Era un'altra di quelle dannate proiezioni dei Sacri Daimon, infilata nella sua testa al solo scopo di torturarlo?
Edhel seguì il movimento della sua mano lungo il braccio.
"No", replicò deciso, come se gli avesse letto nel pensiero. "Non sono una di quelle atroci riproduzioni indotte dalla magia di Aegis, se è questo che stai pensando".
Si levò in piedi e fece qualche passo lontano da lui. Incrociò le braccia sul petto e chinò il capo, a fissare un pavimento che Aidan non riusciva a vedere, che forse non esisteva nemmeno in tutta quella luce.
"Quindi, se sei qui e stai parlando con me, significa una cosa sola".
Aidan lasciò ricadere indietro il capo con un gesto stanco e chiuse le palpebre.
Sto morendo.
Non pronunciò quelle parole, né le pronunciò Edhel, ma si comportò come se ormai fossero state dette.
Tornò al suo fianco, lo sovrastò con la sua figura slanciata, e gli rivolse un'occhiata che mescolava dolore e rimprovero.
"Per gli Dei, fratellino! Perché ti sei comportato in maniera tanto assurda?"
Aidan socchiuse le palpebre, sfidò la luce che lo accecava e lo squadrò furtivo.
"Perché agisco sempre secondo la mia coscienza".
"Questo, purtroppo, lo so", ribatté Edhel.
Sembrava arrabbiato e disperato allo stesso tempo. Ma anche rassegnato, e quella era la sfumatura che più colpì il cuore di Aidan.
"Ma gli eventi stavano seguendo un ben diverso ordine", proseguì l'incantatore, sempre più accalorato. "Avevi Valkano, e avevi Adwen. E poi, una sola, trascurabile scelta è stata sufficiente a cambiare l'intero corso della storia".
Si interruppe e scosse il capo. La luce fece brillare le sue ciocche fulve in modo misterioso e insieme fastidioso. Aidan avrebbe voluto ribellarsi, a lui, alle sue parole, a quello assurdo stato in cui si trovava, ma non ci riusciva. Sentiva il proprio dolore che gli immobilizzava il corpo. Sentiva il dolore di Edhel che gli immobilizzava il cuore.
"Perché?", gli sentì domandare una volta ancora.
Si accorse che, in quella domanda, gli accenti erano mutati. La rabbia di Edhel si era mescolata al pianto.
L'arciere provò a sollevarsi, ma nessuno dei suoi muscoli gli venne in soccorso. Una cieca paura gli afferrò la gola e gli tolse il fiato. La stessa paura che gli diede la spinta per reagire.
Si puntellò sui gomiti e fissò il fratello.
"Perché ce lo siamo promessi ad Hakala", mormorò, la voce stanca per lo sforzo. "O io, o te..."
Edhel abbassò le palpebre. Tra le ciglia serrate con prepotenza brillava ancora una lacrima.
"O tutti e due", completò. "È questo che vuoi?"
Aidan non riuscì a rispondere. Un dolore lancinante gli attraversò il corpo e lo tagliò come una spada. Il ragazzo contrasse i muscoli e ricadde sulla schiena, schiantato da quella insopportabile sofferenza. Strinse le palpebre, gli sembrò di affondare di nuovo nel nulla.
Edhel tornò a fissarlo dall'alto della sua posizione, ma non si mosse. Si limitò a scuotere piano la testa.
"Ma non potresti..."
Quella volta fu Aidan a impedirgli di completare la frase.
"No".
L'elfo sospirò. Si cancellò una lacrima dal viso e distolse lo sguardo. Impotenza, sofferenza e collera si contendevano l'ultimo residuo di luce nei suoi occhi.
"Nai".
Ad Aidan mancò il respiro.
La vista gli si annebbiò. Il corpo di Edhel sembrò sfaldarsi mentre il suo iniziò a pulsare di indicibile dolore.
Ogni pensiero nella sua testa si dissolse. Ogni luce, attorno, si spense.
Spalancò gli occhi urlando il nome di Edhel. Fu come se fosse appena venuto al mondo.
Sollevare la cassa toracica e respirare con regolarità gli costò qualche minuto di fatica, come pure adattare la vista alla luce.
Dove sono?
Il soffitto ricordava quello dell'alta volta di pietra della grotta, ma senza dubbio si trovava su un morbido pagliericcio rivestito di stoffa raffinata.
La grotta.
Cominciava a ricordare.
La grotta, l'acqua, la caduta, lo scontro con Ilo.
Ilo!
Dov'era? Le domande cominciavano ad affiorare e ad affollargli la testa, ma le tempie gli pulsavano e la sua mente sembrava incapace di concentrarsi. Attorno continuava a esserci troppa luce, come quando Edhel era accanto a lui.
"Edhel", mormorò una volta ancora, la gola contratta dall'aridità.
Un viso apparve sopra la sua testa. Aidan lo scrutò con sospetto. Guance fini e delicate, grandi occhi chiari, lunghe orecchie da elfo, ma ancor più sottili. Quest'aspetto apparteneva a una figura molto simile a un Eldar ma poco più alta di un ragazzino, che sembrava emanare un impalpabile lucore.
L'essere gli sorrise con fare rassicurante. Si scostò dal letto quando comprese che l'arciere aveva intenzione di mettersi in piedi, ma non lo abbandonò nemmeno per un istante.
L'operazione risultò più difficile del previsto. Aidan sentì il dolore irradiarsi in ogni fibra del suo corpo mentre faticava a tirarsi su. Quando infine riuscì a mettersi a sedere, si fermò a studiarsi.
Vestiva una strana tunica chiara, che era stata tagliata perché lui potesse indossarla. Non aveva più i ceppi di metallo, anche se i polsi, segati dalle linee di sangue rappreso, gli ricordavano di averli portati per giorni. Per il resto, era coperto da fasce e bendaggi in ogni dove: il braccio che usava per tirare, il torace, le ginocchia, lo stinco destro.
Sollevò lo sguardo sulla creatura che lo fronteggiava. Non sembrava ostile o pericolosa. Provò a fargli delle domande, ma quello pareva non comprenderlo. Si limitò a fargli capire a gesti che, se era disposto a mettersi in piedi, lo avrebbe condotto da qualche altra parte.
Gli offrì il braccio per sollevarsi e Aidan accettò senza protestare quel sostegno indispensabile. Nonostante l'omino fosse più basso di lui, la tempra dei suoi muscoli era poderosa come se fosse stata forgiata nel metallo.
Si mossero fuori dalla stanza e percorsero un lungo corridoio scavato nella roccia. Anche quel passaggio, come la stanza in cui si era risvegliato, riluceva di un chiarore innaturale.
La fine del tunnel si apriva su uno spiazzo. Di fronte a loro un paio di gradini scendevano e affondavano nell'acqua scura di un fiume, che scorreva placido nelle profondità di quella cavità naturale. Una piccola barca, governata da un altro essere del tutto simile al suo accompagnatore, era legata in attesa del suo arrivo. In piedi, di fronte al barcaiolo, Aidan riconobbe una sagoma familiare.
"Ilo!"
L'incantatore si girò al suono della sua voce. Era pallido e gli occhi verdi rilucevano come vetro al sole nella cornice lattea e smagrita del suo viso. Il sorriso che gli rivolse, però, era sempre lo stesso. Ironico e luminoso.
Aidan dimenticò ogni dolore. Mollò la presa dell'omuncolo, scese i gradini che li separavano e abbracciò di slancio l'amico, con quel trasporto gioioso che gli era sempre appartenuto fin da quando era bambino.
"Piano, piano, maestà!", protestò il ragazzo. "Mi romperai gli unici pezzi rimasti interi, se fai così".
Mentre rideva, cercava di allentare la stretta energica dell'arciere, ma si vedeva che anche lui era felice. Felice e sollevato di vederlo ancora vivo.
I due che erano con loro attesero per qualche minuto in silenzio, poi li invitarono a salire sulla barca. Quello che era alla guida immerse un lungo remo di legno nell'acqua e cominciò a sospingere lo scafo lungo il fiume.
Scivolarono nell'ombra per un attimo, ma subito dopo si aprì sopra di loro un'altra grande volta di roccia luminosa, poi un'altra e un'altra ancora, come se stessero attraversando una lunga teoria di sale collegate da un unico corridoio.
"Dove ci stanno portando?", chiese Aidan a bassa voce.
"Non lo so. Questo non me l'hanno voluto dire".
L'arciere aggrottò le sopracciglia in un'espressione sorpresa.
"Perché, sei riuscito a parlarci?"
"Parlarci nel vero senso della parola no, ma capiscono l'elfico, se ti rivolgi a loro in questa lingua".
Elfico?
Ad Aidan non era venuto proprio in mente di usare un'altra lingua che non fosse quella degli Uomini.
"Tu parli l'elfico?"
L'incantatore lo guardò quasi offeso.
"Certo che per essere un re, sei parecchio ignorante! Come pensi che un apprendista possa studiare la magia senza conoscere l'elfico?", sbottò, prima di sfoderare il suo solito sorriso sghembo. "E poi l'elfico è utilissimo per fare colpo sulle donne".
Aidan distolse lo sguardo e non replicò. L'unica donna per la quale gli era sembrato importante perdere tempo in un corteggiamento, per quanto maldestro fosse stato, era diventata sua moglie, quindi sull'argomento non aveva molto da dire.
Il pensiero di Adwen arrivò come una fitta al petto e lo costrinse a voltarsi per nascondere la smorfia che gli aveva contratto il viso.
Si lasciò andare e seguì la curva della barca. Appoggiò la guancia sul braccio che stringeva il legno umido, allungò la mano all'esterno e fece scivolare le dita sull'acqua fredda.
Un colpo secco gli colpì il dorso e lo fece sussultare. Il barcaiolo lo aveva colpito con il remo e gli aveva rivolto un'occhiata di truce rimprovero, prima di rimettersi a remare. Il messaggio era chiaro: non doveva toccare l'acqua.
Aidan si rimise a sedere in maniera composta e nessuno dei due ragazzi osò più parlare fino a quando la barca non urtò contro un altro scalino.
Davanti a loro, a una decina di metri dall'approdo, si apriva la bizzarra facciata di un palazzo. La precedeva una larga scala illuminata da torce. I guizzi di luce giocavano con le decorazioni di una grande porta centrale, che sembrava allungarsi verso l'alto e moltiplicarsi all'infinito. Fiori, foglie e strane rune si intrecciavano nel portale, formando un disegno complesso ed elegante.
Aidan osservò ogni dettaglio con curiosità. Appena il suo piede ebbe toccato l'ultimo scalino, i pesanti battenti si schiusero e investirono lui e Ilo con un cono di luce che si allargò a raggiera fino a inondarli.
La sala in cui furono introdotti era di una bellezza sorprendente. Ilo passava lo sguardo da una parte all'altra e perfino Aidan, che aveva visitato luoghi meravigliosi come la rocca di Lauregil e la stessa Valkano, non riusciva a restare indifferente alla meraviglia.
Era stata ricavata, come ogni costruzione che avevano visto fino a quel momento, direttamente dalla pietra. Attorno allo spazio ovale si levavano colonne i cui contrafforti si perdevano nel soffitto. Tutto era decorato con gli stessi soggetti che avevano attirato l'attenzione di Aidan all'ingresso.
Ciò che rendeva portentoso quel luogo più di ogni altro elemento, però, era la luce.
Non erano certo i bracieri posti ai lati della stanza a illuminarla a quel modo. La volta stessa era chiara, laddove avrebbe dovuto essere oscura, vista l'altezza. La sala risplendeva di luce propria, come quella che Aidan aveva percepito al suo risveglio e lungo i corridoi.
Le creature che li avevano scortati fecero loro segno di incamminarsi verso il centro.
Il re mise a fuoco un alto trono addossato contro la parete di fondo. Lo occupava una figura composta, vestita di bianco. A ogni passo riusciva ad apprezzarne sempre meglio l'aspetto regale, il volto imperturbabile e il taglio degli occhi. Lo stava fissando con intensità, come se volesse trapassarlo da parte a parte.
I due silenziosi guardiani si arrestarono e si inginocchiarono, così come gli altri loro simili che occupavano i lati della sala.
Ilo li imitò con prontezza, e piegò il ginocchio e il capo allo stesso tempo. Aidan, invece, rimase immobile.
Passò uno sguardo gelido su ciò che lo circondava e valutò con una smorfia di sdegno il gesto di adorazione che si stava svolgendo attorno a lui. Quindi, senza nemmeno accennare un saluto, guardò in direzione del trono.
L'elegante figura, che indossava una preziosa tiara e una veste ricamata con simboli arcani, si levò dal seggio. Scese i pochi gradini che la separavano dal pavimento e andò loro incontro.
Aidan seguì quello spostamento con l'indifferenza di una statua.
"Benvenuto a Silmëran, Aidanhîn, re di Helegdir e mio Supremo Daimonmaster. E benvenuto anche a voi, Ilo di Goje, Adepto del Daimon del Fuoco".
Ilo osò sollevare le ciglia per sbirciare il volto di chi aveva pronunciato il suo nome. Con la stessa accortezza, cercò poi di scrutare Aidan, preoccupato dalla sua assoluta mancanza di rispetto.
Quello ebbe uno scarto impercettibile, come se la sola presenza del loro ospite gli stesse procurando un enorme fastidio. La sua voce risuonò nella stanza con una durezza che il giovane mago non gli aveva mai udito prima di quel giorno.
"Siamo grati a Silmëran per l'accoglienza. Ora, se non vi è di troppo disturbo, potreste indicarci la via più veloce per lasciare questo posto?"
NOTA DELL'AUTORE
Il titolo è il famosissimo primo verso del Salmo 129 (o 130 nella numerazione ebraica) della Vulgata latina della Bibbia:
De profùndis clamàvi ad te, Dòmine.
Dal profondo a te grido, o Signore.
Prima che la tradizione cattolica lo utilizzasse come salmo da recitare durante la commemorazione dei defunti, il testo era considerato un salmo penitenziale.
La prima riga si apre con una disperata richiesta di aiuto da parte di chi si trova sprofondato in un abisso di tenebre e di morte, o la cui anima è oppressa da una grande sofferenza, ma che non ha smesso di credere alla salvezza.
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