21. NIHIL INIMICIUS QUAM SIBI IPSE
Il mondo era uscito fuori dai cardini.
Non faceva che ripetere quella triste constatazione a intervalli più o meno regolari, alternata a un'imprecazione o a uno scuotimento del capo. Perché ciò che il comandante si era ritrovato davanti era un mosaico che non poteva in alcun modo ricomporre, perché non ne possedeva tutti i pezzi.
Con i gomiti puntellati sulla balaustra, nell'ampia terrazza del palazzo di Tasiar, Mellodîn osservava la bruma fosca che galleggiava sopra la rada.
Prima di ogni altra cosa, malediceva Aidan e malediceva se stesso per l'assoluta fiducia che aveva sempre riposto in lui, senza mai metterla in discussione.
Il mio ragazzo!
Un invisibile dolore, che non riusciva a mettere a tacere del tutto, gli sussurrava alle orecchie che doveva esistere una spiegazione concreta per l'incidente occorso loro a Gordian. E che, se Aidan era stato falso, il suo destino un po' se l'era meritato.
Una rabbia sottile, mista alla delusione, gli salì in testa. Il suo ragazzo era come tutti. Non aveva esitato a mentirgli, forse perfino per anni, come chiunque altro.
Un Daimonmaster? In che maniera sarebbe possibile?
Non gli piaceva avere a che fare con la magia, perché non la comprendeva e lo faceva sentire impotente. Si stava ancora abituando all'idea di non avere più Edhel attorno a fargli girare la testa con i suoi fuochi d'artificio e le idee imprevedibili, ed ecco che veniva fuori un altro misterioso sortilegio. Di certo i due principi gemelli di Arthalion dovevano essere la sua nemesi per il fatto di aver sempre assecondato i progetti di Galanár.
Già, Galanár!
Malediceva anche lui. La sua avventatezza e i suoi assurdi piani.
Almeno avesse saputo quali fossero, invece di doversi accontentare di notizie scarne e incerte, cui dare un senso alla luce della follia del suo generale.
Man mano che l'esercito si era avvicinato alle zone costiere, le voci che il Re dell'Ovest stesse supportando la ribellione delle Città del Mare si erano fatte sempre più insistenti.
Che diamine si è messo in testa, stavolta? Non riesce proprio a resistere alla maledetta tentazione di essere l'eroe di tutti!
Che poi il suo popolo lo amasse o meno lo lasciava indifferente, prova ne era la leggerezza con cui aveva abbandonato Formenos e il resto del regno. No, lui voleva essere ammirato, e niente lo avrebbe distolto dalla continua ricerca di quella ebbrezza.
Mellodîn sospirò e il suo fiato si perse nella brezza umida della sera.
Gli informatori e le spie di Tasiar sostenevano che il re si fosse recato a Opanje in compagnia del Maestro Custode di Kandalar, uno dei maggiori sostenitori della ribellione. Di Galanár, però, non si avevano notizie da giorni e correva voce che Beita fosse morto.
Qualcuno sosteneva che Opanje avesse tradito la causa o che qualche ostacolo fosse intervenuto a cambiare le sorti della rivolta. Mellodîn, però, non ne sapeva abbastanza di quella complessa situazione per riuscire a prendere una decisione. Come se i problemi non fossero sufficienti, sembrava che in quella città si potesse entrare solo via mare, e lui non aveva navi.
Qual era il punto della storia in cui aveva perso se stesso?
Galanár si rigirò sul fianco, affondò il viso nella piega del braccio e strinse le palpebre strofinandosele contro la pelle. Le venature del legno sopra la sua testa le aveva ormai imparate a memoria, a forza di fissarle giorno dopo giorno. Sapeva persino quanti chiodi erano stati usati per piallarle insieme, e in effetti era la prima volta in vita sua che si interessava a come fosse stato assemblato un qualsiasi oggetto che non fosse una spada.
Quell'assurda forma di prigionia lo stava facendo diventare matto. Era libero di fare ciò che voleva, ma non era mai solo, nemmeno per un istante.
Quando chiudeva gli occhi per non vedere i suoi carcerieri, si schiudevano le gabbie dei suoi pensieri. Una prigione immateriale che gli faceva ancor più paura, perché ospitava un dibattito incessante in cui lui era imputato, difensore e giudice allo stesso tempo. Roba che avrebbe minato la stabilità mentale dei più fini pensatori, figurarsi di uno come lui, che amava l'azione più che la riflessione. Eppure una riflessione, forse, doveva farla.
Perché il Galanár di un tempo non si sarebbe mai trovato in una simile situazione. Il Galanár di un tempo soppesava ogni iniziativa e ogni parola. La protervia e la leggerezza con le quali aveva intrapreso il viaggio e quell'impresa erano state, a giudicarle in quel momento, eccessive senza ombra di dubbio. Quanto alla coscienza di non essere imbattibile, quella l'aveva persa ormai da tempo.
Mellodîn obietterebbe che ho perso la coscienza e basta, e probabilmente avrebbe ragione.
Ma il comandante non era lì per rimproverarlo e lui non aveva nessuno di fronte a cui negare.
Chissà dov'era lui e dove aveva condotto i suoi uomini. Se lo conosceva almeno un po', aveva smesso di aspettare e gli stava venendo incontro, ma forse quella era solo l'indomabile fede che possedeva nei confronti della sua buona stella. E di Mellodîn, che sarebbe venuto a salvarlo una volta ancora. Ma lui, Galanár, quante volte lo aveva salvato?
Si morse le labbra con dispetto. Non aveva mai considerato la faccenda da una prospettiva ribaltata. Si era sempre aspettato che Mellodîn lo salvasse fin da quando ne aveva memoria. Così come aveva sempre dato per scontato che Silanna lo curasse, che Aidan gli obbedisse e che Edhel...
Per gli Dei, persino Edhel!
Aveva salvato un intero regno. Per lui. E anche in quel caso aveva ritenuto che fosse solo un suo diritto.
Si mise a sedere, i gomiti sulle ginocchia, il volto affondato nei palmi delle mani. La testa gli stava andando a fuoco. I ricordi di Hakala tornavano ricorrenti a visitare i suoi incubi. Soprattutto l'attimo in cui si era creduto perso, quella breve ma indimenticabile particella di tempo in cui aveva sentito che tutto era finito, che il mondo era crollato. E lui, Galanár, il re, l'eroe, non aveva saputo fare altro che pensare a lei!
In quale maledetto punto della storia aveva smarrito se stesso?
Forse quando Edhel gli aveva messo sotto gli occhi la verità senza alcun timore, in quella terribile notte?
"Tu pensi di possederla? Come possiedi un castello, una corona o un regno?"
No, doveva essere già successo.
"Ci sono valori che non hai mai voluto imparare: la capacità di aspettare, il rispetto della volontà altrui e il timore degli Dei".
No, prima delle parole di suo padre, che non aveva avuto il coraggio di conservare.
"Sareste potuto essere un buon re, se non foste stato troppo ansioso di diventarlo subito".
No, ancor prima delle parole di Anarion che non aveva avuto il coraggio di affrontare.
In realtà aveva perso se stesso quando aveva cominciato a pensare che non fosse grave barattare un pezzo di coscienza in cambio di una vittoria. Solo che, dando via pezzettino dopo pezzettino, non gli era rimasto quasi nulla dentro.
Provò orrore di se stesso e, nel medesimo istante in cui sperimentò quella disperazione, non riuscì a evitare il pensiero di Fanelia. L'aveva lasciata nelle mani di quell'uomo senza alcuna difesa. Non l'aveva quasi guardata mentre veniva portato via. Forse perché il suo inconscio non voleva che quella fosse l'ultima immagine di lei, ma non ne aveva comunque una migliore da fornirgli.
Da quando erano partiti da Kandalar non le aveva riservato che il suo muto rimprovero. Aveva pensato perfino di rispedirla a Formenos per punizione.
Ah, l'avessi fatto! Adesso non si troverebbe tanto in pericolo.
Un sentimento dolce e amaro al contempo lo assalì. Un moto del cuore che non sapeva identificare. Aveva a che fare con il senso di colpa, con la preoccupazione e insieme con una cupa, vergognosa soddisfazione. Perché quella volta, non gli era rimasto più nessuno attorno a cui attribuire il peso dei suoi errori.
"Allora, ricominciamo da capo: quanti uomini, quanti cavalli, quante navi?"
Fanelia piegò il capo ed emise un impercettibile sospiro, come se quello dovesse essere l'ultimo fiato che possedeva. Era accosciata sul pavimento. Il pallore del suo viso si confondeva con il chiarore degli abiti leggeri e i suoi occhi erano stanchi. Aveva addosso l'indescrivibile bellezza della sofferenza.
Almar le sedeva di fronte, affondato su una sedia. Davanti a lui, sulla tavola, i resti di un ricco banchetto non ancora del tutto consumato. Le sue iridi scure e magnetiche sembravano volerla inchiodare e divorare, mentre sopportava con crescente insofferenza il suo ostinato silenzio. Se la principessa di Aermegil si dimostrava testarda, il pirata sapeva essere sorprendentemente paziente, all'occorrenza.
"Per l'ultima volta... uomini, cavalli, navi e destinazioni. Voglio i piani, per gli Dei. Tutti i piani!"
Lei lo fissò con uno sguardo muto, quasi non comprendesse la sua lingua.
Almar si alzò di scatto, coprì i pochi passi che li separavano e le si piazzò di fronte. Le artigliò il volto con la mano e la obbligò a sollevarlo e a guardarlo.
"Che incredibile sfortuna quel giorno, al largo delle coste di Warin, non è vero? Ti è mancata la giusta mira. O forse ti è solo mancato il coraggio di infilarmi una spada nell'occhio. Scommetto che ci stai pensando da giorni... Ah, se l'avessi fatto! Ah, se l'avessi ucciso allora!"
Senza allentare la stretta, si chinò e avvicinò il viso a quello della ragazza.
"Invece no. Mi hai solo lasciato il tuo segno addosso".
Le stampò un bacio violento sulle labbra, senza che lei potesse ritrarsi.
Fanelia si concentrò sull'aspro odore di vino che aleggiava attorno alla sua bocca per non pensare al disgusto che l'assaliva mentre Almar cercava di forzarla a quel contatto. Strinse le palpebre e si proiettò lontano da quel luogo fino a quando il pirata non ne ebbe abbastanza di quella provocazione. Si staccò da lei, tornò al tavolo e afferrò un acino d'uva che languiva ancora sul piatto. Lo masticò con lentezza prima di ingoiarlo.
"Portatela via", ordinò all'uomo che era di guardia nella stanza. "Niente cibo. E stavolta niente acqua".
Tornò a guardarla con un sorriso tagliente.
"È solo questione di tempo. Prima o poi ti dovrai piegare. Prima o poi ti dovrai umiliare".
Prese una piccola pausa in cui si concesse il lusso di assaporare la sua impotenza.
"Prima o poi sarai tu che verrai a implorarmi".
"Le spie dei rivoltosi si sono messe in moto. Opanje è stata presa".
Mellodîn fece il suo ingresso nella stanza sulla scia di quelle parole che, pur nella loro cruda realtà, sembravano averlo reso di umore appena più decente.
Bellator percepì subito quella nota diversa. Annuì e si mise in ascolto.
"A quanto pare hanno fatto entrare il Maestro Custode di Kandalar al solo scopo di farlo cadere in trappola e giustiziarlo. Gli altri cospiratori sono stati passati a fil di spada e gettati in mare. Per giorni, agli abitanti è stato negato il permesso di lasciare la città, così era impossibile, dall'esterno, sapere cosa stesse accadendo e... indovina? La nostra flotta è ancorata in maniera inamovibile dentro la rada di Opanje".
Bellator si grattò il sopracciglio destro con un dito.
"Il nostro generale ha un gusto per i colpi di scena davvero invidiabile", commentò sarcastico.
"Già. Per non parlare del suo tempismo. La buona notizia, però, è che dovrebbe essere ancora tutto intero".
Il capitano di Medthalion ridacchiò di fronte all'espressione alterata di Mellodîn.
"A quest'ora starà bevendo vino e portando avanti una delle sue eleganti trattative, alla fine della quale otterrà più di quello che concederà".
"Lo spero", ribatté il comandante, con voce più tesa. "Lo spero davvero. Perché la controparte, stavolta, non mi sembra molto avvezza alle discussioni formali attorno a un tavolo".
"Di che si tratta?"
"Pirati, dicono. Al servizio di un strano individuo. L'Autocrate lo chiamano, o qualcosa del genere. Hanno fatto anche il nome di un certo Almar".
Bellator sussultò e quasi si strozzò con il suo stesso singulto. Mellodîn lo squadrò con curiosità.
"Lo conosci?"
Il capitano si riebbe dalla sorpresa e il suo viso si ricompose in una smorfia cupa.
"Diciamo che non ho avuto il piacere concreto. Ma so chi è, sì. Lo so benissimo. Terrorizza le coste di Medhtalion e Aermegil da anni, con le sue navi velocissime e i pendagli da forca che si porta dietro come equipaggio".
"E che altro sai di lui?"
"Che è strafottente e molto abile con le armi. Pare che lui non sia spietato, ma ha sempre permesso ai suoi uomini di esserlo. Mi sorprende il fatto che si sia messo al servizio di qualcuno. Si è sempre occupato solo dei propri affari".
"Il denaro fa miracoli. E anche il potere".
Il capitano chinò il capo e iniziò a giocherellare con uno dei suoi coltelli, senza ribattere. Rimase in silenzio per un po', prima di tornare a cercare lo sguardo di Mellodîn.
"Hai già pensato a qualcosa?"
"Muovere l'esercito da qui è fuori discussione. In più, se questo Almar ha preso Opanje per conto dell'Autocrate, significa che la ribellione delle Città del Mare è ormai faccenda nota. L'uccisione di un Maestro Custode è un chiaro segnale di avvertimento".
Il comandante si passò una mano sulla corta barba rossiccia che gli adornava il mento e le guance.
"È saggio, quindi, che gli uomini restino a presidiare Tasiar. È la più vicina a Opanje. La repressione proseguirà qui e, se Galanár ha dato la sua parola a questa gente, è qui che dobbiamo restare per dar loro una mano".
Bellator annuì di fronte a quel ragionamento e lo lasciò proseguire senza dir nulla.
"Ma un uomo da solo potrebbe riuscire a entrare a Opanje. Sono mercenari, di sicuro in questo momento hanno bisogno di rinforzi. Non mi sorprenderebbe se Almar stesse reclutando uomini capaci di usare le armi. Una volta in città, la situazione potrebbe essere più chiara. Magari anche pensare di raggiungere le navi e lo stesso Galanár potrebbe non essere impossibile".
Mellodîn tacque, percorse a ritroso il proprio pensiero, infine annuì come per darsi conferma di quella risoluzione.
"Un uomo da solo e con il giusto travestimento", concluse.
Nella sua voce c'era un ombra di sollievo all'idea di aver trovato una possibile soluzione.
Bellator si alzò in piedi, rinfoderò il coltello nella guaina che pendeva al suo fianco e gli rivolse un accenno di sorriso.
"Un uomo da solo", ribadì. "O forse due".
NOTA DELL'AUTORE
Nihil inimicius quam sibi ipse.
Nulla ci è di più nemico di noi stessi.
(Cicerone, Lettere ad Attico).
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