20. CAELUM, NON ANIMUM MUTANT
Le navi varcarono l'ingresso incastonato nelle alte mura di Opanje, che sembravano emergere dalle profondità del mare. L'ammiraglia fu guidata attraverso lo specchio d'acqua chiusa e immobile fino al pontile principale. Con manovre lente e misurate, tutte le imbarcazioni furono messe alla fonda, al sicuro come nella corte di una fortezza.
Galanár, quella volta, ordinò a Fanelia di scendere dalla nave e la obbligò a indossare i suoi abiti più eleganti per accompagnare lui e Beita.
L'anziano Maestro Custode di Opanje aveva fatto sapere loro che li avrebbe ricevuti nella sala delle udienze cittadine, all'interno del palazzo centrale. Le guardie, al lato della ricca porta di legno, alzarono subito le picche dorate in segno di saluto quando il re si presentò all'ingresso, quindi spalancarono le ante al suo passaggio.
Davanti a loro si schiuse un ampio salone rettangolare. In fondo si trovava il seggio che il Maestro Custode occupava durante le pubbliche discussioni. Galanár sollevò subito lo sguardo verso quel punto lontano, curioso di inquadrare l'aspetto del venerabile che gli avrebbe messo al collo l'ennesima catena d'oro, ma ciò che vide non era ciò che si aspettava. Ebbe un sussulto, ma decise di avanzare senza darlo a vedere.
Ad attenderlo, all'altro capo della sala, c'era una sagoma scura e scomposta. Nessuno dei Maestri incontrati fino a quel momento vestiva di nero, e tutti avevano barba e capelli canuti. C'era qualcosa di sorprendente, invece, in ciò che gli si era disegnato di fronte. Si arrestò di colpo e, nello stesso istante, udì l'urto delle porte che si chiudevano alle sue spalle, poi il rumore metallico di un chiavistello.
D'istinto si girò, ma subito riportò la propria attenzione sull'uomo che proprio allora aveva rimesso a terra la gamba che era stata adagiata con troppa audacia sul bracciolo del seggio. Si era alzato in piedi e gli stava andando incontro con un sorriso arrogante. I capelli lunghi sul collo erano neri come gli abiti che lo fasciavano. Doveva avere grossomodo la sua stessa età. La barba che gli adombrava il viso lo faceva apparire appena più vecchio, ma forse serviva solo a nascondere la cicatrice che gli segnava la guancia sinistra. Gli occhi scuri erano profondi e magnetici come quelli di un rapace, e sembravano ridere della sorpresa che si era dipinta sul volto del re.
"Benvenuto a Opanje, vostra maestà".
Si esibì in un inchino plateale, al solo scopo di mostrare le lunghe lame ricurve che pendevano ai suoi fianchi. Galanár fu scosso da un brivido, ma si impose di mantenere la calma e di non reagire. Beita, accanto a lui, era pallido come un cencio. Di Fanelia, alle sue spalle, non riusciva più a udire nemmeno il respiro.
"Immagino che non siate il Maestro Custode", osservò con aria sdegnata.
"Immaginate bene".
"Chi siete, allora? E perché vi trovate qui?"
L'uomo rise di gusto mentre lo squadrava dalla testa ai piedi.
"Che sgradevole sensazione, non conoscere l'identità di chi si ha di fronte! In special modo quando il vostro interlocutore sa più di quel che sapete voi"
Galanár girò altrove lo sguardo spazientito e non replicò, mentre l'altro continuava a scandagliarlo con lentezza.
"Devo ammettere che ero davvero curioso di vedervi di persona", continuò. "Il Re Mezzelfo, il Figlio dell'Idra... Certo che la natura è stata bizzarra con voi, ma pietosa dopotutto. Le orecchie non fanno gran danno, se le si ignora. Mi chiedo se, sotto panni, siate adeguatamente Uomo o effeminato come un Elfo".
La reazione istintiva di Galanár fu frenata dal lampeggiare di lama che si accese davanti al suo petto. Con la coda dell'occhio, il re riuscì a scorgere una dozzina di uomini in nero, armati fino ai denti, sbucati dall'ombra delle pareti. Cercò di farsi un'immagine di ciò che doveva trovarsi alle sue spalle e non si mosse, nonostante la voglia che aveva di stringere la gola di quello sgradevole sconosciuto. Quello intuì lo sforzo che stava compiendo per restare calmo e lo trovò ancor più divertente. Senza allontanare la minaccia della lama dal re, si spostò appena su un lato.
"Forse la nostra deliziosa principessa Fanelia potrebbe illuminarci a tal proposito... Oh, perdonatemi!" si corresse. "Regina Fanelia".
Le tributò un elegante inchino con il capo che lei non ricambiò.
"Rivedervi è sempre un piacere per me, mia signora".
A quelle parole, Galanár girò il viso per guardarla. Fanelia era livida e fremeva di rabbia malcelata mentre gli sputava contro una risposta acida a mezza voce.
"Piacere mai condiviso, capitano Almar".
Ogni muscolo del suo corpo era teso. Lei e quel tale Almar sembravano intenti a sfidarsi in una singolar tenzone invisibile e silenziosa. Contro ogni ragionevolezza e contro ogni opportunità, Galanár non poté impedirsi di mescolare allo stupore il rimprovero, mentre la fissava alla ricerca di una spiegazione.
L'altro uomo, però, pose fine a quel braccio di ferro con una risata. Fece cenno ad alcuni dei suoi sgherri di farsi da presso, quindi lasciò scivolare la lama di piatto sul giustacuore di Galanár con aria di scherno e tese la mano non armata alla regina, con un gesto galante.
"Oh, avremo tutto il tempo di andare a fondo su questo argomento, mia incantevole fanciulla", disse con un sorriso tagliente che gli attraversava il viso e gli piegava la cicatrice. "Quindi è meglio che vi mettiate comoda. È da villani lasciare una signora in piedi".
Fanelia non si mosse. Fissò con sdegno la mano che lui le porgeva e che restava sospesa tra loro. Forse, se avesse avuto indosso l'armatura e la spada invece di quelle sete ricamate, non avrebbe esitato a sputarvi sopra, come un qualsiasi soldato. Almar sembrò intuire le sue intenzioni e mutò di colpo espressione. Nel suo sguardo scintillò una luce selvaggia.
"Non fatemi spazientire, Fanelia", ordinò secco, con una familiarità che ancora una volta fece irritare Galanár. "Oggi non ho voglia di giocare con i vostri capricci".
Con uno sbuffo di collera, la regina appoggiò le dita su quelle di lui e si lasciò condurre fino al seggio. Vi si accomodò con tutta la grazia che le era possibile sfoderare in quel momento, in cui avrebbe preferito piuttosto distruggere le suppellettili che la circondavano. Rigida e pallida, sembrava una bambola piena di pizzi e di infelicità. Solo i suoi occhi ardevano, piantati addosso a Galanár, che a quel punto le stava proprio di fronte.
Lui continuava a lanciarle il suo muto biasimo, misto di disappunto e gelosia. Lei gli restituiva la bruciante accusa di averla costretta a vestire quegli abiti per il suo puro divertimento, privandola di ogni residua possibilità di difesa. Entrambi si divoravano l'un l'altra e qualsiasi idea di un possibile spalleggiamento era andata in frantumi prima ancora di vedere la luce.
Almar si sedette sul bracciolo della sedia con un movimento pigro e passò il braccio sulla testiera, a sfiorare il capo di Fanelia. Le dita della sua mano destra oscillavano vicine alla sua guancia, mentre sembrava godersi quella muta battaglia tra i due sovrani.
"Va bene", esclamò quando reputò che lo spettacolo fosse durato a sufficienza. "Adesso basta litigare, miei reali piccioncini. Sarebbe meglio passare alle presentazioni, visto che sua maestà il Re di Questo e di Quell'altro sembra essere l'unico in questa sala a ignorare la mia esistenza".
Chinò il capo verso la principessa e le lanciò un'occhiata che avrebbe potuto essere indifferentemente seducente e minacciosa.
"Un'offesa imperdonabile, visto che sono il padrone di casa. Vi prego, Fanelia. Procedete pure e ponete rimedio a questa incresciosa svista".
La ragazza si scostò da lui infastidita e gli scoccò un'occhiata di fuoco, prima di tornare a fissare Galanár, che appariva sempre più furioso, e Beita, che restava accartocciato al fianco del re e tremava senza osare sollevare lo sguardo da terra. Sospirò, rassegnata.
"Sire, costui è il cosiddetto capitano Almar".
Cercava di mantenere la voce ferma e tranquilla, ma già dopo pochi istanti non era riuscita a trattenere un'asprezza, che l'uomo sottolineò con una smorfia sul viso sfregiato.
"È il capo dei Pirati neri che da anni saccheggiano e terrorizzano le coste di Aermegil".
Galanár, a quelle parole, osservò la sala e gli uomini che lo attorniavano, quindi tornò a fissare Almar con aria di sfida.
"Pirati!", sputò con lieve disprezzo.
"Pirati!", gli fece eco il capitano con il medesimo tono. "Che termine volgare! Diciamo liberi gentiluomini che si guadagnano la vita sfidando il mare. Ma cosa potete saperne voi, cresciuto nei merletti e nell'oro?"
La posta in gioco si stava alzando. Galanár, con il suo innato istinto per lo scontro, lo sentiva crescere a ogni parola, a ogni pausa. E quella sensazione lo esaltava e lo spingeva a ignorare ogni prudenza.
"Sul letto e sul campo di battaglia, però, partiamo tutti alla pari", osservò con ostentata sicurezza.
"Rispose colui che si dice abbia una fortuna sfacciata nell'uno e nell'altro ambito".
"Non è fortuna", puntualizzò il re con un sorriso.
"Lo vedremo. E vedremo se valete almeno la fatica di una chiacchierata".
"Soppesatemi", rilanciò Galanár feroce. "Non vedo l'ora!"
"Volentieri. Ma in questi casi preferisco una situazione più... intima, per così dire. Senza occhi e orecchie indiscreti".
Scandì quelle parole e lanciò un rapido cenno ai suoi. Galanár ebbe appena il tempo di udire un gemito soffocato e di voltarsi. Una sciabola aveva trapassato da parte a parte il petto di Beita e sbucava gocciolante e trionfante a poche spanne da lui.
L'anziano Maestro si piegò sulle ginocchia mentre un fiotto di sangue sgorgava a insozzargli la tunica, quindi stramazzò ai piedi del re senza fare un fiato. Fanelia sobbalzò e fece per alzarsi, ma la mano di Almar le artigliò la spalla e la obbligò ad aderire con la schiena al legno della sedia.
Galanár era di marmo. Non riusciva a distogliere lo sguardo dall'uomo che giaceva sul pavimento e dal sangue che si era allargato fino a lambirgli gli eleganti stivali.
Dopo qualche istante di orribile silenzio, Almar si sollevò, fece un paio di passi e raggiunse il corpo del Maestro. Con la punta della spada, staccò la spilla con le insegne della città di Kandalar dal suo petto e la spinse verso l'uomo che aveva assassinato a sangue freddo il vecchio Custode. Il monile stridette fosco sul marmo della sala.
"Fatela avere subito all'Autocrate. Ditegli che il primo traditore è stato eliminato. E fategli anche sapere che il Re delle Terre Riunite è nostro gradito ospite a Opanje".
Dopo che un gelido terrore lo aveva attraversato per un lungo minuto, Galanár si riebbe e tornò padrone di se stesso. Con ancora più ferocia, se gli era possibile. Si girò a fronteggiare Almar.
"Potevamo risparmiare tempo e parole, ed evitare inutili presentazioni", disse con voce dura. "Bastano le vostre azioni a qualificarvi, signore".
Almar sorrise sghembo.
"Perché, voi non li giustiziate, i vostri nemici?"
"Per avere dei nemici, occorre avere anche degli amici, e in generale avere una parte dalla quale schierarsi. Ma gentaglia come voi non ha bandiera che non sia la propria, e il vostro onore sta dentro lo scrigno di chi vi ha pagato di più".
Almar allargò le braccia a mimare un buffo inchino, girò sui tacchi e tornò a occupare il suo posto accanto a Fanelia, che era rimasta immobile, bianca come la cera, a fissare il corpo di Beita.
"Su questo non posso darvi torto, maestà. Ma grandi doni possono generare grandi e duraturi amori, non credete?"
Una smorfia di disappunto sfiorò il viso di Galanár.
"L'Autocrate deve essere un uomo molto generoso, se uno come voi, che si vende al miglior offerente, è disposto a dimostrargli tanta fedeltà".
"Mi ha regalato Opanje. Per il momento. Davvero una bella fortezza, molto utile per me e per i miei uomini. Oserei dire strategica. Vi toccherà rilanciare con qualcosa di più prezioso, se volete stare al gioco. Magari un piccolo regno, del quale non sentirete mai la mancanza. Aermegil, per esempio... mi piace il clima".
Galanár sbuffò e si finse annoiato da quella richiesta.
"E le perle", aggiunse, mentre avvicinava il viso a quello di Fanelia. "Oh, sì... anche le perle, in effetti".
Il re girò lo sguardo altrove, a schivare quella scena. L'espressione sul viso di Almar si fece tagliente e feroce.
"Sire Galanár ha bisogno di un po' di tempo per riflettere sulla mia proposta", esclamò rivolto a uno dei suoi uomini, che annuì alla sua sinistra. "Si tratterrà a Opanje con tutto il suo seguito. Ancorate le navi tra di loro e sequestrate le vele. Tutti resteranno a bordo e a nessuno verrà fatto del male. A me basterà trattenere qui un piccolo tributo, giusto per precauzione".
Galanár annuì cupo di fronte al suo ennesimo sorriso. Fece un passo verso il capitano e allargò le braccia.
"Fate pure", dichiarò. "Sono già disarmato".
Almar sollevò il sopracciglio, come se trovasse quel gesto sorprendente e divertente al contempo.
"Siete grazioso, sire, ma non siete il mio tipo".
Rise e scosse il capo.
"No, no, voi tornerete sulla vostra ammiraglia, a ragionare sul da farsi. E, per non farvi sentire troppo solo, manderò i miei uomini a vegliare su di voi. Giorno e notte".
Tacque un istante, si chinò verso Fanelia e le sfiorò i capelli con la barba.
"Io e la regina faremo come due vecchi amici per ingannare il tempo in attesa delle vostre decisioni. Sapete come vanno queste cose, no? Un po' di vino, quattro chiacchiere, tante avventure condivise da ricordare..."
A quelle parole afferrò la mano di Fanelia e obbligò le sue dita a percorrere la cicatrice che gli segnava il volto. Lei rabbrividì a quel contatto e sfuggì gli occhi furiosi di Galanár con un singulto strozzato. Almar sogghignò un'ultima volta mentre i suoi uomini spingevano il re verso l'uscita.
"Chi sa che il prossimo erede di Arthalion non abbia i capelli neri", esclamò divertito un attimo prima di vederlo sparire.
NOTA DELL'AUTORE
Il titolo è tratto da una celebre frase di Quinto Orazio Flacco (Epistulae, I, 11, v.27): Caelum, non animum mutant qui trans mare currunt (Mutano il cielo, non il loro animo, coloro che vanno per mare). Il verso allude al fatto che nessuno può sfuggire a se stesso. Viaggiare e spostarsi non cambia ciò che ognuno si porta dentro.
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