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05. NEC SINE TE NEC TECUM VIVERE POSSUM

"A dispetto dell'errata interpretazione dei Bardi, a volte penso che vostro fratello sia l'unico che merita davvero di essere temuto in tutta Amilendor".

Aidan fissò Aegis con aria preoccupata. Quel pensiero era così corretto da sembrargli incontrovertibile.

"Eppure gli siete sempre stato così devoto", fu la sua unica constatazione.

"E lo sono ancora", confermò l'elfo. "Perché la vera ammirazione, maestà, è quella che vi fa seguire un uomo nonostante i suoi difetti, non perché li si ignora".

Il re chinò il capo e non rispose. Poteva valere anche per lui, quell'affermazione? Un tempo aveva adorato Galanár, ma era stato quando di lui non conosceva che il canto dei Bardi.

Appoggiò la schiena allo scranno e si sforzò di allontanare quel pensiero. Aveva già dedicato ai piani del fratello più tempo di quanto avrebbe voluto, ma non poteva esimersi dall'esporre a Aegis tutti i dettagli. Una volta assolto quel compito, c'erano discussioni più urgenti che voleva affrontare.

"Come avete trovato Adwen?", chiese.

"Allo stesso modo in cui l'ho lasciata l'ultima volta", fu la triste replica. "La luce di Laurëgil si sta spegnendo".

Aidan non tentò di nascondere il proprio dolore. Si fidava di Aegis. Le sue diagnosi erano sempre tristemente esatte. E del tutto sincere.

"Aidanhîn, voi conoscete già la soluzione al vostro problema", proseguì l'elfo di fronte al suo silenzio.

Sì, la conosceva. Non era la prima volta che affrontavano la questione, ma la decisione finale del re era sempre la stessa. Se permetteva ancora a Aegis di insistere su quel punto era solo per l'affetto che gli portava.

Sollevò la mano. Rimase a osservare il sigillo di Helegdir e i lievi lampi di luce che l'anello proiettava nel movimento. Sembrava dover mettere ordine ai pensieri prima di rispondere.

"Quella visione, la visione di Hakala, mi perseguita ancora", esordì infine, con voce incerta. "All'inizio credevo che sarebbe stato come per i sogni, che avrei smarrito i dettagli fino a perderne del tutto la memoria, ma è accaduto il contrario. È diventata sempre più chiara. Ogni volta rivedo meglio una scena, recupero una frase, perfeziono un ricordo".

Prese una pausa. Si accorse che Aegis lo stava studiando con apprensione e distolse lo sguardo.

"Ora capisco cosa intendeva mio fratello quando ha detto che avevo visto tutto", tagliò corto.

"Vi riferite a ciò che vi è stato rivelato sulla vostra nascita?"

Aidan si levò in piedi e fece qualche passo lungo la stanza.

"Sì. E dal momento che ho visto, mai potrei ripetere un simile abominio. Non posso compiere un peccato tanto grande agli occhi degli dei".

Si voltò e cercò gli occhi dell'elfo. Aveva bisogno di scorgervi almeno un lampo di comprensione, per non sentirsi troppo solo di fronte alle sue scelte.

"Forse anche questo è un volere celeste, Aegis. Che né io né il mio gemello potessimo lasciare un'eredità su questa terra. Perché ciò che siamo stati, ciò che io sono ancora, venga cancellato per sempre".

Serrò le ciglia e ricacciò indietro una lacrima.

"Tutto questo osceno potere si estinguerà con me", mormorò in conclusione. "Così il mondo sarà un posto migliore".

Aegis provò l'istinto di abbracciarlo, quasi fosse stato suo figlio. Un figlio al quale avrebbe voluto promettere che sarebbe andato tutto bene, anche se non aveva alcun diritto per farlo.

"Nulla potrebbe farmi cambiare idea in merito", replicò con calore. "Il mondo potrebbe essere un posto migliore proprio perché siete voi a possedere questo potere, e non un altro".

Aidan sollevò il viso e lo fissò con triste stupore, ma non osò interromperlo.

"Sono pronto a giurare che anche vostro fratello la pensasse così. Siete il Supremo Daimonmaster, Aidanhîn. Potete decidere di non perpetuare il vostro potere, ma dovete comunque arrendervi a ciò che siete. Perché non provate a pensarlo come un lascito? È stato Edheldûr a infondervi la sua parte di Arcani. È stato il suo ultimo atto, riunire ciò che era stato separato. La sua ultima volontà, se questo ve lo rende più accettabile. Non volete rispettarla e onorarla?"

Il re esitò sotto il peso di quella domanda. Troppe volte si era chiesto, in quei due anni, se non fosse Aegis ad avere ragione. E troppe volte era fuggito davanti alla necessità di darsi una risposta.

"Sì", capitolò. "Lo voglio".

"Aidanhîn, è l'ora".

Il re fissò la linea invisibile che lo separava dalla stanza. Non riusciva a decidersi. La voce di Aegis sembrava il richiamo del boia al patibolo e insieme l'unica forza capace di trascinarlo oltre l'ostacolo della sua paura.

Annuì e superò la soglia.

La bellezza della nuova sala gli tolse il fiato. La pianta circolare era interrotta ai quattro punti cardinali da altrettante semi-colonne che si spingevano fino al soffitto, dove formavano una volta a crociera. Quattro spicchi di vetro piombato, frammentato in vari colori, facevano piovere la luce dall'alto e inondavano l'ambiente di riflessi cangianti. Lungo le pareti, tra una colonna e l'altra, erano fissati robusti scaffali. Solo alcuni ospitavano dei libri. La maggior parte era vuota, in attesa di volumi.

La biblioteca di Valkano.

La meraviglia che Edhel aveva cercato di salvare e che Aidan aveva ricostruito.

Fu quel pensiero a fargli superare lo stupore e a convincerlo ad avanzare. Aegis gli andò dietro assieme ad Adwen, diafana e bellissima nella luce ovattata di quell'alba invernale.

Entrambi i sovrani indossavano le insegne regali di Helegdir. Lungo il perimetro della sala erano schierati i Maestri di Valkano, con tuniche di vario colore ad indicare il diverso stato.

Resero omaggio al re, poi si divisero in due file ordinate, scivolarono lungo la parete e lasciarono la sala. Aidan raggiunse un prezioso leggio di legno sistemato al centro. Rami, fiori e foglie, così perfetti da sembrare vivi e racchiusi nell'ambra, si attorcigliavano lungo lo stelo e risalivano a decorare il supporto ancora vuoto. Adwen vi sistemò sopra un libro.

"Un libro? Il libro, vuoi dire".

Parma Eldaëalaron. Il Libro dei Daimon Elfici.

Per fargli dispetto, Adwen aveva detto a Edhel di averlo restituito, ma in verità lo aveva sempre tenuto con sé.

Aidan non riuscì a resistere alla tentazione di sfiorarlo. Con le dita percorse gli angoli, dove le rune galleggiavano inerti all'interno delle pietre preziose.

"Devi avere per forza un motivo per farlo?"

"Non devo avere un motivo, Edhel, ma di certo mi piacerebbe averne uno!"

Un singulto gli mozzò il fiato. Piantò il palmo aperto sulla copertina e cercò di respirare.

"Sei sempre il solito: imprudente e sconsiderato. E io... io sono uno sciocco".

Aegis gli afferrò la mano e gliela allontanò dal volume.

"Grazie".

L'ultimo sospiro di Edhel gli risuonò nella mente come se lui lo avesse appena pronunciato.

"Siete pronto?", chiese l'elfo.

Aidan annuì.

Aegis prese anche la mano di Adwen e lei tese le dita a sfiorare la fronte del marito. Quello era l'inizio. I due incantatori lo avrebbero trascinato nello spazio sacro dei Daimon.

Non era la prima volta che glielo lasciava fare. Tentativo dopo tentativo, aveva imparato a fidarsi e a farsi guidare in quella dimensione che aveva conosciuto con Edhel.

Quel giorno, però, avrebbe dovuto fare qualcosa di diverso. Quel giorno avrebbe dovuto camminare da solo.

Aegis iniziò a snocciolare con calma una formula in elfico e Adwen lo sostenne con la sua voce sottile. Aidan chiuse gli occhi. Quel suono continuò ad accompagnarlo mentre il suo spirito si spostava e sorvolava una distesa di terra.

L'aria era tenera e fresca, piena di odori della foresta. Poteva sentire il rumore dei germogli che spingevano la tenera fibra per nascere, che scavavano il terreno per vedere il sole. La luce era quella avvolgente del tardo pomeriggio. Aidan si fermò a osservare la scena e desiderò restare in quel luogo per sempre.

"Proseguite", lo invitò la voce di Aegis, gentile ma decisa.

Il vento si fece più forte e presente. Aidan sollevò una mano verso il cielo e le correnti cominciarono a giocare attorno al suo braccio teso. Una risata argentina gli colpì l'orecchio. Un bambino biondo, il bambino che Aidan era stato, gli fece cenno di seguirlo, poi si inoltrò nei vortici di nuvole. Il re sorrise e gli andò dietro.

Nei giochi scatenati delle correnti d'aria, lo perse subito di vista, ma continuò a correre, mentre i cirri si distendevano e si fondevano attorno a lui.

Avanti, ancora avanti, finché le nuvole che lo avvolgevano si diradarono.

Aidan si ritrovò in una radura, ai bordi di un piccolo specchio d'acqua dove si tuffava una cascata. Il cielo era azzurro e le api sfarfallavano sui fiori, come nei pomeriggi di giochi sulle rive del lago di Arthalion. Il ragazzo si tolse i vestiti ed entrò nell'acqua. Il fondale era basso, la superficie fresca gli sfiorava la vita. Avanzò, attratto dalla luce che si rifrangeva attorno alla cascata.

"Adesso non posso più guidarvi".

La voce di Aegis gli attraversò la mente, ma le sue parole non lo toccarono. Era ammaliato dal richiamo dell'acqua. Tese una mano a saggiare la violenza della corrente nella caduta. Dal lato opposto della cascata, come fosse stato uno specchio, un'altra mano si tese verso di lui nel medesimo gesto. Aidan la strinse e si sentì tirare dall'altra parte. L'acqua gli piovve addosso e lo obbligò a serrare le palpebre.

Quando sentì il rumore della cascata alle sue spalle, si passò una mano sul viso e sui capelli. Una risata divertita gli colpì l'orecchio e lo costrinse a riaprire gli occhi.

Capelli rossi, sguardo impertinente. Edhel, ragazzino, lo fissava con le mani sui fianchi e sorrideva.

"Andiamo!", esclamò.

Di nuovo gli afferrò la mano e lo trascinò con sé, quella volta al di sotto della superficie.

Aidan affondò. Sulle prime provò un istintivo terrore, ma infine si abbandonò e si lasciò spingere dalla corrente.

A fondo, sempre più a fondo, dove non c'era più luce.

Attorno a lui galleggiavano pezzi di roccia e di legno annerito, libri e fogli di carta il cui inchiostro si andava dissolvendo nell'acqua. Qualcosa afferrò il suo corpo e lo trascinò fino a un luogo asciutto. Aidan si ritrovò seduto sulla terra scura, in uno spazio senza cielo.

Edhel si avvicinò muovendosi sul terreno come un felino e si fermò davanti a lui. Un cerchio di fiamme li circondava ma senza bruciarli. Il gemello lo guardava con occhi tranquilli.

Era identico all'ultima volta che lo aveva visto, vestito di bianco e dorato. Tra i capelli aveva la tiara di Laurëgil, ma non indossava il pettorale. Si drizzò sui calcagni e gli porse uno dei suoi pugnali elfici tenendolo dalla lama. Aidan, d'istinto, si ritrasse.

"No!"

Edhel lo ignorò. Gli afferrò il polso e gli fece scivolare l'arma nella destra.

"Coraggio, Aidan!"

Nello sguardo, nella voce, nell'espressione era Edhel. L'Edhel che lui amava. A poco giovavano gli sforzi di rammentare a se stesso che quella non era che una proiezione, una visione imposta dai Sacri Daimon.

"Devi farlo".

A quelle parole, Aidan iniziò a piangere e a scuotere il capo. Non gli importava che non fosse reale. Riusciva solo a pensare che non voleva perderlo, che non gli avrebbe permesso di andare via di nuovo.

Edhel sembrò leggergli nel pensiero.

"Non posso restare qui per sempre".

Gli serrò le dita attorno all'impugnatura e si appoggiò l'estremità della lama sul cuore. Il gemello trattenne il fiato e si obbligò a non muovere un muscolo. Edhel cominciò a cantare piano.

"Benedizioni dell'Acqua e del Fuoco".

Senza volerlo, anche Aidan iniziò a cantare, la voce scurita dal pianto che non riusciva a trattenere.

"Benedizioni dell'Aria e della Terra".

Le lacrime affogavano ogni cosa.

"Benedizioni della Luce e dell'Ombra".

Edhel lo abbracciò, la lama affondò nel suo petto.

"Benedizioni tutte".

Le pietre agli angoli del volume sfavillarono. Nello stesso istante, anche il medaglione di Aidan prese a splendere sul suo petto. Quattro fasci di luce si proiettarono verso la volta di pietra.

Il rivestimento metallico del libro cominciò a riscaldarsi come se stesse per prendere fuoco. Il re staccò la mano dalla copertina e infranse il cerchio magico con brutalità. Lasciò andare la stretta di Aegis, sputò al suolo un'imprecazione e si precipitò fuori dalla stanza.

Il Maestro rimase interdetto per qualche istante, ma la sua lunga familiarità con gli Arcani gli permise subito di ritornare lucido. Senza un'esitazione, uscì a cercare il re.

Fuori dalla torre della biblioteca, il vento soffiava gelido e senza cortesia.

Aegis si guardò attorno e infine lo scorse. Era poco distante, dove la torre curvava alla sua destra. La cappa gli si era slacciata e cadeva disordinata su una spalla. La corona era rotolata a qualche metro da lui e giaceva abbandonata in mezzo alla neve. Aidan era in ginocchio, una mano contratta contro la pietra esterna dell'edificio, l'altra piantata sul terreno ghiacciato. Non riusciva a trattenere i conati di vomito.

Di fronte a quella scena, Aegis si domandò se, quella volta, non gli avesse davvero chiesto troppo.

Si accostò a lui e gli poggiò una mano sulla spalla, ma il ragazzo si sottrasse al contatto con un movimento brusco. Con un pesante respiro, raddrizzò la schiena, si pulì il viso con un pugno di neve e rimase immobile a fissare il nulla di fronte a sé.

"Aidan", mormorò l'incantatore.

Aveva rinunciato a ogni titolo e ogni ufficialità. Voleva almeno provare a sfiorargli l'anima, ma anche quel tentativo andò a vuoto. Il re girò il capo e lo bruciò con uno sguardo. Il viso contratto, gli occhi arrossati, le iridi azzurre che tremavano di disperazione gli intimarono di restare a distanza.

"Che diamine ci faccio io qui?", gli urlò contro, ormai fuori di sé. "Io volevo andare a caccia, tirare con l'arco, allenarmi con la spada... essere un soldato? Forse, anche se non sapevo cosa volesse dire davvero fare la guerra. Ma io ero questo, Aegis! Ero questo soltanto, fino a poco tempo fa. E mi andava bene, mi calzava a pennello! Quindi ditemi, adesso, che diamine ci faccio qui e cosa mi avete fatto diventare!"

Aegis chinò le ciglia e non rispose. Era giusto che quel ragazzo tirasse fuori, una volta per tutte, il suo dolore. Attese in silenzio che la tempesta si affievolisse, che i toni si quietassero da soli.

"Che cosa volete farmi diventare?", chiese infine il re con voce spenta e monocorde. "Una specie di mostro, costretto a uccidere di nuovo il proprio fratello per evocare un potere che nemmeno conosce?"

Il Maestro si passò una mano a tormentarsi le labbra.

Aidan aveva poco più di vent'anni e in pochissimo tempo gli eventi lo avevano catapultato dall'adolescenza alla maturità senza dargli l'opportunità di elaborare le sue scelte e i suoi lutti.

Quando Edhel era morto, Aegis lo aveva seguito a distanza per giorni. Temeva che quella perdita potesse alterare il suo stato mentale, già provato dalla guerra e dal braccio di ferro con Galanár, ma non era accaduto. Aidan era rimasto lucido e freddo. Aveva negoziato la corona di Laurëgil, progettato Valkano e sposato Adwen, ma nemmeno a quel punto l'incantatore aveva abbassato la guardia.

Viveva con l'ansia costante di non avere abbastanza occhi per proteggere il re di Helegdir.

Perché una cosa era certa e non poteva essere ignorata né sottovalutata: esisteva almeno un'altra persona in Amilendor, oltre a lui e ad Adwen, che era a conoscenza del potere di Aidan. Una persona che non avrebbe esitato a scatenargli contro tutta la sua magia.

Con la chiaroveggenza della propria sapienza, Aegis sapeva che Edhel era morto perché non era ancora pronto. Nonostante il suo potere, non era stato abile a sufficienza nella difesa. Lui, però, sapeva essere letale nell'attacco e rapido nell'esecuzione. Aidan, invece, poteva solo difendersi ed Aegis aveva il dovere di fare tutto il possibile perché non dovesse andare incontro allo stesso destino del suo gemello. Anche a costo di piegargli l'anima. Anche a costo di guardarlo soffrire, come in quel momento.

"Ritirarvi in questa fortezza e rifiutare il vostro dono non vi aiuterà a superare i problemi", sentenziò l'elfo. "Dovete affrontare i vostri demoni, Aidanhîn, o saranno la causa della vostra morte".

Il re parve riflettere un istante su quell'ultima affermazione.

"Mio fratello lo ha fatto ed è morto lo stesso", commentò con tristezza.

"Edheldûr ha scelto il proprio destino. Non lo dimenticate, perché non è un dettaglio di poco conto. E lo stesso potrei dirvi di Galanár".

Quel nome provocò un moto di stupore sul viso del ragazzo. Accettò la mano che Aegis gli stava porgendo e si rimise in piedi, a fronteggiarlo.

"Non crediate che vostro fratello non abbia i suoi demoni personali", continuò l'elfo. "Ma ha sposato una causa ben precisa per tenerli a bada".

In quel momento Aidan avvertì una nuova presenza al suo fianco. Non si girò, non ne aveva bisogno. Il tocco delle dita sottili che si intrecciavano alle sue, l'onda dei capelli d'oro, l'aura stessa della presenza di lei erano sufficienti a mutare il ritmo del suo cuore.

Adwen aumentò la stretta della mano e gli sfiorò l'orecchio con le labbra.

"Vieni con me. C'è qualcosa che devi vedere".

Aidan la seguì all'interno della biblioteca senza protestare. Lei lo trascinò al centro della sala, dove il Libro dei Daimon Elfici riluceva di un tiepido lucore. Adwen gli indicò il soffitto della stanza.

Dai quattro costoloni della volta erano gemmate una miriade di pietre, che ne frastagliavano la superficie come stalattiti in una grotta, dal vertice fino al pavimento. Diamanti, acquemarine, rubini e smeraldi. Esattamente come nei vertici del libro, ognuna di quelle pietre decorava un elemento architettonico. L'intera sala risplendeva dei giochi di luce che si rimandavano da una parte e dall'altra.

La presenza dei Quattro Arcani si era infusa nella struttura stessa di Valkano, come nei tempi antichi narrati dalle Cronache degli Alti Elfi. La bellezza di quella perfetta armonia era commovente, la potenza emanata da quella magia avrebbe rapito il cuore di qualsiasi creatura.

"Sei tu che hai fatto questo", bisbigliò Adwen con amore.

NOTA DELL'AUTORE

Ego nec sine te nec tecum vivere possum.

Non posso vivere né con te, né senza di te.

Ovidio negli Amores (III, xi, 39) ci racconta i rischi dell'amore, dell'irresistibilità che possiedono alcuni legami e della dipendenza cui essi possono portare. La ferita generata da questi sentimenti contrastanti non potrebbe essere descritto meglio, a mio parere. E il dolore che ne deriva, se lo leghiamo alla certezza dell'abbandono e del lutto, non può che essere devastante🥺

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