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VI

I due compagni partirono appena i bagagli furono pronti. Si portarono solo due esuvie con le provviste necessarie per resistere meno di un ciclo e nulla di superfluo. Marciare verso l'alto era faticoso, perciò non poterono appesantirsi troppo, e la loro speranza era che Vilkas durante il viaggio riuscisse a cacciare qualche mansueta tracheomanta o un succoso stalattomorfo: grossi insetti che si mimetizzavano da stalattiti tipici del Nugaredj. La fauna era rara e poco nutriente, ma a loro non importava. Volevano abbandonare l'endoavamposto al più presto, prima che il cinismo tornasse a stringerli nella sua morsa.
Nessuno si accorse di loro quando percorsero il sentiero che dal limitare della conca di pietra conduceva verso la cima dell'abisso risalendone la parete verticale. Kih lo aveva percorso molte volte insieme a Lagozodj mentre si dirigeva verso le rovine dei templi dei primi Glauchi. Un tempo doveva essere stata una strada molto trafficata, ma ora era solo un sentiero composto da rozzi gradini di pietra che poi si tuffavano nella roccia e si diramavano in una complessa rete di gallerie scavate a mano. Fortunatamente Kih aveva un buon senso dell'orientamento e ricordava la strada. E dove finivano memorie e studi geologici di Kih, era l'intuito di Vilkas a sopperire. Dopo la visione della Sfera, era come se una grezza mappa della Roccia gli si fosse impressa violentemente nei pensieri. Aveva accennato all'aver concepito, per un singolo e asfissiante istante, la morfologia dell'intero groviglio di caverne che al di sopra di loro, fino al limitare del nulla. Non era in grado di descriverla, né di riprodurla, ma era come se avesse permeato il suo intuito integrandosi nel misterioso istinto che guidava i suoi sensi. Titubava, certo, e il suo viso era più inquieto che mai dopo quell'esperienza, ma Kih si fidava ciecamente di lui. La Fortificazione era un processo talmente radicale da squarciare ogni limite dell'esperienza, da far nascere sensazioni inspiegabili nel tentativo di creare un organismo in perfetta simbiosi con la Roccia. Vilkas forse non se ne rendeva conto, ma poteva percepire quando la terra era in procinto di tremare molto prima di chiunque altro. La sua pelle temprata avvertiva il crescere delle temperature, seppur impercettibile, e lui s'innervosiva quasi come provasse lo stesso dolore dei minerali che lo circondavano. Kih poteva asserire di conoscere le tutte caratteristiche della roccia, ma Vilkas ne conosceva le emozioni. Per questo era essenziale.
«Spero che non ci pentiremo di questa scelta» mugugnò il soldato. Kih sospirò.
«Se preferisci, puoi tornare all'Endoavamposto. Non voglio costringerti a venire» rispose, picchiando a terra il bastone mentre si issava lungo i gradini.
Vilkas tacque per un momento prima di rispondere.
«No, questa strada mi rammenta bei ricordi»
«Avevi detto di esserti scordato tutto»
«Mi stanno tornando in mente»
I due continuarono a salire a lungo, fermandosi di tanto in tanto per addentare delle neanidi essiccate o per succhiare della carbonella salata. Non riposarono finché non giunsero all'imboccatura delle gallerie: una grossa crepa che squarciava la parete dell'abisso e dalla quale usciva un rigagnolo d'acqua che si nebulizzava precipitando verso le profondità dell'abisso. Si abbeverarono avidamente dopo la scarpinata e mentre si coricava Kih pensò che il rumore dell'acqua corrente lo confortava ricordandogli i complessi acquedotti scavati nella roccia del Nucleo. Il sussurrare dei ruscelli nelle gallerie era l'unico suono che avvolgeva la città quando la maggior parte degli abitanti dormiva e Kih poteva vagabondare per i cunicoli concedendosi un attimo di contemplazione.
«Faccio la guardia» disse Vilkas. Quel luogo era sicuro, ma Kih non volle insistere. Sapeva che il compagno non avrebbe ceduto, lui era troppo nervoso per dormire. L'odore sulfureo che saliva dalla gola del Gran Camino era già meno percettibile lassù e il vento di grotta scompigliava i capelli e li ungeva di cenere. Li avrebbe accompagnati nel loro viaggio, il vento, suggerendo loro dove risalire lungo la crosta di roccia laddove i sedimenti si facevano più anellari e le creature più feroci. Era una bella sensazione per Kih, come il fiato caldo di una madre che più non c'era e che lo cullava in un sonno d'infante. Dormì più a lungo del necessario e quando si risvegliò Vilkas tremava nell'ombra.
«Andiamo» disse, e ricominciarono a camminare.
Si addentrarono nella fenditura e imboccarono il primo tunnel a sinistra. Kih ricordava la strada e si chiese se dalla scomparsa del suo maestro qualcuno l'avesse più percorsa. Probabilmente la risposta era negativa, data l'invasione nei tunnel di tele tessute dai voraci sedimentofagi per catturare i lapilli emessi dal Gran Camino. In alcuni punti dovettero strisciare sulla pancia e alcune volte dovettero bruciare le tele con una pietra focaia, i loro occhi fissi sui piccoli organismi che fuggivano in un brulicare di zampe e organi suttori. Man mano che salivano, Vilkas e Kih iniziarono ad ansimare sempre di più. L'aria si stava facendo più rarefatta e carica dei gas che il vento di grotta trasportava verso l'alto; prima o poi avrebbero dovuto indossare i filtri che Vilkas aveva rubato dalla riserva dell'Endoavamposto.
«Di là ci sono delle splendide rovine» disse Kih, indicando l'entrata di un cunicolo, «con volti spigolosi intagliati nelle colonne. Dei cubi scavati nell'ardesia che un tempo erano perfetti, allineati in una griglia come celle di un formicaio geometrico. In alto, un tempo, doveva esserci stato un grande nido di lucciole a illuminare tutto. Ora, invece, alla luce delle lanterne sembra un mare di tombe»
«Lo so bene» sorrise Vilkas «ero io ad accompagnartici»
«Perdonami. Quest'aria cattiva mi dà alla testa. Fermiamoci un po'»
I due compagni posarono le lanterne e si sedettero sull'orlo del cunicolo. Kih aprì l'esuvia e gettò uno sguardo famelico al Lichene avvolto in un fazzoletto.
«Fossi in te lo conserverei,» disse Vilkas «il viaggio sarà lungo»
Kih sospirò «Hai ragione». Chiuse il fagotto e si mise a fissare il vuoto, boccheggiando a bassa voce per riprendere fiato.
«A quanto pare non sei l'unico con la memoria sbiadita» mormorò poi con un accenno d'amarezza nella voce.
«Eppure ti sei ricordato la strada fin qui» rispose Vilkas.
«Ho sempre voluto tornare a visitare questi luoghi. Tu no?»
«Non molto. I volti nella roccia mi mettono impressione»
«Sei un soldato fortificato dei Glauchi, onorato di un'elsa di topazio bianco per aver combattuto trenta cicli di battaglie. Rischi la morte per mestiere eppure ti spaventano dei visi di pietra?»
Vilkas si grattò la nuca e tese le orecchie in direzione della caverna. Come di consueto, si prese un attimo di riflessione prima di rispondere.
«Un soldato quando non combatte apprezza il conforto di una stanza familiare, di un letto dove dormire in pace. Non c'è nulla di familiare in questi volti. Vederli emergere dal buio mi mette in allerta: non posso farci nulla. Questi sono luoghi ostili, il mio corpo lo sa. Io lo so»
All'improvviso un'ombra semovente coprì i raggi di luce proiettati dalle lucciole nelle lanterne. Kih si chinò a esaminare cosa fosse: era un grosso isopode in cerca di cibo. Lo prese in grembo e lo carezzò sul dorso placcato di chitina. Vilkas aveva le spalle rigide e il mento serrato.
«Capisco che intendi,» disse Kih «preferisci la sicurezza dell'Endoavamposto, allora?»
«No» la risposta di Vilkas fu secca «anche lì ero sempre in allerta. Con l'aumento delle invasioni l'Endoavamposto crollerà a momenti, anche il Capitano lo sa. Il tempo che avrei dovuto trascorrere dormendo l'ho passato domandandomi se quella sagoma sul soffitto della grotta fosse una stalattite o un guerriero Rehki Dvar mimetizzato nella roccia. E al Nucleo, quando mi hanno convocato per la promozione, sentivo il mio nome risuonare nelle chiacchiere dei mendicanti. Le luci dei fari del Tempio mi abbagliavano, il latrato dei lucanidi mi portava a sfiorare la daga con le dita. Posso fuggire dai nemici, posso fuggire dai mostri, ma non posso fuggire da questo. Perciò sono qui»
Kih annuì livido e continuò a carezzare l'isopode che aveva smesso di sgambettare.
«Mi dispiace» disse con un fil di voce.
«Non dispiacerti. Dimmi solo che non sono un codardo per aver scelto di seguirti»
«Non lo sei. Non pensarci nemmeno»
Entrambi i compagni rimasero in silenzio ancora per qualche attimo, poi Kih aprì l'esuvia, estrasse un po' di cibo e lo porse alla bocca dell'isopode perché si nutrisse. Vilkas aggrottò la fronte e restò a fissarlo con un'espressione confusa.
«Non dovresti sprecare le provviste così»
«Hai ragione. Scusami» sospirò Kih. Rimise il cibo nel fagotto, posò a terra l'isopode e gli diede un'ultima carezza sul capo prima di alzarsi in piedi. Il crostaceo ricominciò a zompettare indisturbato lungo la galleria mentre Kih si rimetteva lo zaino in spalla e riprendeva la marcia seguito dal compagno. I due ripresero la scalata, che ora si era fatta più ripida, lungo i cunicoli che ascendevano sempre più. Le tele dei sedimentofagi si fecero sempre più rade e il vento di grotta sempre più debole mentre l'aria assumeva un odore insopportabilmente stantio. I gradini scavati nella roccia divennero sempre più smussati, sempre più erosi dal tempo, e l'oscurità era totale. Vilkas e Kih attraversarono un vecchio tempio con guglie spiraliformi che si arricciavano nella pietra, le nicchie scavate nelle pareti che intessevano un complesso gioco di ombre danzanti a incorniciarne la struttura circolare. Lunghe corde di un materiale sconosciuto erano tese verticalmente a formare un reticolo su cui facevano il nido piccoli organismi bioluminescenti, e Kih le ammirò in silenzio. Un frullo di ali nell'ombra lo fece desistere dall'indugiare, e i due chinarono la testa per attraversare la porticina dall'altra parte del tempio. Allora i gradini scomparvero del tutto e le gallerie iniziarono a farsi più irregolari, intersecandosi in un contorto labirinto di regolite e basalto come la traccia d'un nido d'amore di vermi giganti nella roccia. Alle volte i due compagni dovettero arrampicarsi, aiutandosi con le punte di metallo dei calzari militari, e altre volte dovettero sfilarsi le esuvie dalla schiena per infilarsi in imboccature più strette della norma. L'orientamento di Kih terminava qui, perciò d'ora in poi avrebbero dovuto procedere alla cieca. Si accamparono per dormire un po' e per permettere ai loro polmoni di abituarsi alla nuova aria, ma Vilkas a malapena riuscì a chiudere occhio. Più salivano verso l'alto, più si addentravano in un ambiente vergine e selvaggio, dove l'unico modo che gli animali avevano per scaldarsi era bere il sangue delle prede o rotolarsi nella sabbia di pomice. Dormivano in strettissime gallerie seppellite nel cuore della roccia vulcanica, laddove i grani, sfregandosi l'uno contro l'altro, creavano abbastanza frizione da generare il minimo calore necessario per far battere un piccolo cuore. Occhi termici, artigli acuminati, veleni letali. Quelli erano il segreto per la sopravvivenza in un luogo così ostile. E Vilkas, nonostante i sensi sviluppati, non era più un predatore.
Una volta svegli, i compagni mangiarono qualcosa, nutrirono le lucciole nelle lanterne e ripresero il viaggio. Seguirono le sporadiche folate di vento di grotta che di tanto in tanto sfioravano la loro pelle facendoli rabbrividire, fermandosi a ogni bivio per controllare dove queste confluissero. Quando incontrarono un ruscello, bevvero un po' e Kih decise di seguirlo.
«Ricordo ciò che diceva il mio maestro: seguendo l'acqua si arriva al Bacino» mormorò. Il Bacino era un'antichissima grotta che ospitava un enorme lago ghiacciato e, a quanto si diceva, un intero ecosistema. La proliferazione di fauna aggressiva in quel luogo faceva sì che nessuno l'avesse mai esplorato a dovere; per questo motivo il Bacino veniva considerato uno dei luoghi di delimitazione della civiltà dei Glauchi. Oltre, secondo i libri dell'Accademia, c'era soltanto morte. Mentre i due compagni risalivano il corso del fiumiciattolo, Kih notò parecchi muschi di grotta abbarbicati alle pareti del cunicolo. La loro peluria bluastra ondeggiava e si spostava seguendo la luce delle lanterne e anelandone il tiepido abbraccio, salvo poi afflosciarsi quando l'oscurità tornava ad avvolgere il tunnel. Solo allora Kih si rese conto che la temperatura si era rialzata. Il tipico gelo di quelle grotte era stato rimpiazzato con un freddo più mite, più adatto a ospitare la vita laddove gli schizzi d'acqua umettavano la roccia. In effetti, da quel che dicevano gli scritti del Tempio, i ruscelli erano sempre stati una presenza molto rara nella Roccia e si erano moltiplicati solo con il recente aumento delle temperature. Vilkas, invece, era più nervoso che mai. Aveva sentito di alcune creature che, strofinando le mandibole sul ventre, imitavano lo scroscio di un corso d'acqua per attirare le prede.
I due compagni risalirono le gallerie a passo spedito, avventurandosi sempre più in alto, sempre più lontani dal conforto della civiltà. L'unico modo per distrarsi dalla solitudine era indugiare in qualche breve conversazione, ma Vilkas rispondeva con tono strascicato e dubbioso, distratto dalle impercettibili vibrazioni della roccia che avvertiva a ogni passo. Perciò Kih si accontentò di riflettere, e pensò se qualche Glauco avesse mai percorso il cammino dal punto più basso della Roccia fino al punto più alto, alla fine della pietra, laddove Vilkas aveva intravisto il grande vuoto. Il pensiero che nessuno avrebbe mai saputo di quell'impresa non lo turbava, ma lui sognava lo stesso. S'immaginò di tornare al Nucleo con pergamene colme di rivoluzionari appunti di geologia, di illustrazioni zoologiche, e dell'acclamazione che lo aspettava per aver portato a termine l'opera del maestro. Dopo tutti quei faratri in ascesa sognare non era più una distrazione dal dovere. No, era come il frinire di una cicala nel buio: non un gesto dettato da ragione o necessità, ma solo un'inconscia e libera asserzione della propria esistenza. L'eco di vita che guida in un oceano d'oscurità. Poco più avanti, il ruscello svaniva sotto una lingua di roccia troppo stretta per divincolarcisi attraverso. Vilkas posò la mano sul petto del compagno, le orecchie tese.
«Sento molti echi» disse, chiudendo gli occhi per concentrarsi meglio sulle vibrazioni dell'aria che puzzava di morte «e molta acqua»
«Siamo vicini al Bacino» sussurrò Kih. Vilkas annuì con espressione grave «Stammi dietro. Faccio io strada»
I due compagni iniziarono a marciare sulle punte dei piedi mentre la grotta si faceva più pianeggiante e il gorgoglio dell'acqua più intenso tutt'intorno a loro. L'unico suono che tradiva la loro presenza era il ronzio delle lucciole nelle lanterne e l'ansimare dei polmoni non ancora abituati alla nuova altitudine. Vilkas estrasse le daghe con gesti lenti e solenni, le pupille che guizzavano da una parte all'altra del cunicolo e le orecchie tese all'indietro, come se avvertissero la presenza di qualcosa intenta a seguirli. Anche Kih ora si sentiva nervoso e non si lasciava distrarre dai pensieri. Una sorta di pece bioluminescente aveva iniziato ad apparire negli infissi verticali delle pareti della grotta. In più, il soffitto del cunicolo si era fatto sempre più alto e sottile, stirando la pareti della grotta nella forma di una netta fenditura, fino a risultare a malapena visibile alla luce delle lanterne. I gorgoglii dei ruscelli crebbero di volume, la strana pece si addensò intorno a loro e Vilkas indugiò sempre più nei suoi passi finché i due compagni non uscirono dal cunicolo e il fiato non si mozzò loro in gola.

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