IX
Kih seguì Vilkas finché non sentì le gambe che cedevano dalla fatica. I due zaini sulle spalle pesavano parecchio e il paesaggio era monotono: una serie di cunicoli spogli di muschi e suoni dove procedere era faticoso a causa del terreno accidentato. Eppure non sembravano di natura carsica. Con la loro forma relativamente regolare e l'assenza di salite troppo scoscese, sembravano quasi dei tunnel scavati a mano e poi sfregiati dall'azione di terremoti ed erosioni nel corso di migliaia e migliaia di cicli. Ma Kih era troppo stanco per pensare e i polmoni faticavano a respirare l'aria rarefatta.
«Accampiamoci qui» disse. Si addormentò subito e quando si svegliò nutrì la propria lucciola e controllò i rivestimenti di elovalgys nelle placche delle loro giacche da viaggio. L'effetto della pietra si stava affievolendo, ma le temperature erano salite al punto che forse non ne avrebbero avuto più bisogno per camminare. L'idea di frantumare la dipendenza dall'elovalgys, anche solo per un viaggio, era quasi surreale. Vilkas dormiva col petto colto da spasmi e la bocca semiaperta. Le sue dita ghermivano l'orlo del mantello, strette in una morsa d'affetto come quella di un infante che si aggrappa alla madre. Kih restò acquattato a osservarlo, cercando di non guardare l'infezione che gli divorava il braccio, e constatò che il suo sonno sembrava più placido rispetto ai precedenti. Forse la certezza della morte che attendeva sulla soglia aveva sconfitto parte dell'angoscia per l'ignoto che sempre lo tormentava. Inorridito, il geologo scosse la testa per scacciare quel pensiero e decise di mangiare qualcosa in attesa che il compagno si fosse ripreso.
«Ho fatto un sogno» disse Vilkas, una volta sveglio «era da tempo che non ne facevo uno»
Kih lo aiutò ad alzarsi e a mangiare le ultime provviste rimaste nello zaino «E che cosa hai sognato?»
«Ho sognato mia madre. Era uno dei volti di pietra nella grotta. Forse per questo mi spaventavano, forse riconoscevo i suoi lineamenti nel basalto e non sapevo spiegarmelo. Mi ha parlato e mi ha detto che mi ama molto. Poi sono precipitato nel Gran Camino, ma non sono morto. No, ho spiccato il volo e solcavo l'aria nei cunicoli del Nugaredj illuminando la via davanti a me. Ero una lucciola, libera da tutto»
La sua voce era ovattata dal filtro ormai colmo di sporcizia. Kih glielo sistemò, scambiando il dischetto di seta di guropige annerita con uno nuovo.
«Come ti senti?»
«Non molto bene. Il veleno non si è fermato» Vilkas sospirò profondamente «mi servirà dell'altro antidoto, se posso chiederlo»
Kih tentennò di fronte alla richiesta ed esaminò il corpo del compagno, reso asimmetrico dai gonfiori sul braccio e sul torso.
«Siamo quasi arrivati» insistette lui, indicando il soffitto con lo sguardo «ti prego, l'aria è irrespirabile. Il cibo scarso. Porterò io il mio zaino, ma non ce la faccio a camminare senza antidoto»
Il geologo acconsentì e gli fece ingollare la seconda fiala di liquido biancastro. Dopodiché lo aiutò ad alzarsi e a infilarsi l'esuvia in spalla, suscitando un gemito quando sfiorò l'infezione che aveva intaccato le spalle.
«In marcia» rantolò Vilkas, e i due compagni ripresero il viaggio. Il vento di grotta era più debole, ma Vilkas procedeva spedito e non indugiava di fronte ai bivi, come se avesse sempre saputo la strada e la stesse ripercorrendo per la centesima volta. Un paio di volte i due compagni dovettero infilarsi attraverso strette fenditure e mucchi di ciottoli crollati e lui non si scompose, stringendo i denti per ignorare il dolore mentre si divincolava tra le pareti di roccia. Kih lo seguì con la mente distratta. Era come se la diversa densità dell'aria facesse galleggiare i pensieri senza permettere loro di fissarsi o concatenarsi in un ragionamento sensato. Anche i rumori parevano diversi, più echeggianti e innaturali del solito, e quell'insieme di sensazioni aliene lo scombussolava parecchio. Nemmeno si accorgeva di star camminando e le sue mani non registravano il tocco della lanterna che reggeva di fronte a sé. La percezione del tempo si faceva più informe, i passi si mischiavano col martellare dei cuori e gli spifferi con i boccheggi agonizzanti di Vilkas. Kih si riscosse da quella strana sensazione di torpore solo quando vide i muschi tornare a coprire le pareti di roccia. I due compagni procedettero ancora per qualche faratro, ammirando la flora che improvvisamente si era rifatta viva intorno a loro, ed entrarono in un tunnel che sembrava traboccante di vita fungina e vegetale. Quando videro la grotta nella quale sbucava quel cunicolo restarono senza fiato. Le pareti erano del tutto invase da muschi, licheni e vegetazione di ogni tipo, tutti intenti a pulsare all'unisono in una lenta respirazione collettiva. In mezzo alla grotta scorreva un ampio ruscello originato da una cascata che si riversava fuori da un tunnel sopraelevato in maniera simile al rivolo d'acqua che si nebulizzava nel Gran Camino. Numerosi molluschi bioluminescenti vi sguazzavano, saltando di tanto in tanto fuori dall'acqua per cercare una preda nei muschi che ricoprivano il suolo roccioso e tornando poi a immergersi con un bagliore della loro conchiglia luminosa. Era un panorama ben diverso dall'abisso: una sorta di radura quieta e indisturbata con un'elevatissima concentrazione di vita, ma Kih restò egualmente impressionato.
«Andiamo» mormorò Vilkas, addentrandosi nella grotta.
Kih sussultò e lo trattenne per la manica «E se ci fossero predatori?»
«Non ne sento alcuno» Vilkas scrollò le spalle, gli occhi oscurati da un velo di nebbia, e continuò come se nulla fosse. Camminare sopra un tappeto di muschio era strano e Kih si sentì quasi sacrilego nel calpestare forme di vita così rare e preziose. I due compagni s'inoltrarono attraverso la vegetazione, scostando alcune felci (dalle foglie molto ampie e bluastre, per catturare la luce della fauna luminescente) e camminando sui ciottoli bagnati dal ruscello. Dopodiché Vilkas si sedette in un angolino indisturbato, la schiena premuta contro la nuda roccia, e Kih lo seguì lasciandosi cadere a terra con un lungo sospiro. I due compagni restarono lì, avvolti nel nuovo tessuto sonoro della selva sotterranea, e si presero qualche momento per riprendere il fiato e ammirare il panorama. Uno sciame di lucciole svolazzava lì vicino, illuminando la grotta di luce giallastra con la loro danza aerea. Vilkas restò immobile a fissarle per molto tempo, seguendone i movimenti con lo sguardo pregno di curiosità. Si poteva dire fosse quasi meraviglia. Poi si chinò verso la lucciola che teneva all'interno della lanterna e la osservò per bene. L'esserino era piuttosto calmo e si limitava a far vibrare le lunghe antenne, accoccolato in silenzio dietro il pannello di vetro.
«Non è giusto che resti imprigionato qui dentro mentre i tuoi compagni volano liberi» disse, ruotando con goffaggine il meccanismo che teneva chiusa la lanterna. I suoi movimenti erano fiacchi e imprecisi, ma egli riuscì ad aprire il pannello di vetro dopo qualche sforzo. La lucciola esitò per qualche istante, forse intimidita dalla prospettiva di lasciare il luogo dove era rimasta per così tanto tempo, dopodiché spiccò il volo e si diresse verso il nuovo sciame sotto lo sguardo compiaciuto di Vilkas.
«Ecco qua» mormorò.
Kih inarcò il sopracciglio «Quella ci serviva per farci strada» disse. Vilkas non sembrò udire la sua voce. Si limitò a osservare la sagoma della lucciola che si confondeva coi suoi simili in mezzo al suo sciame, il viso marchiato da un miscuglio tra stupore fanciullesco e profonda amarezza.
«Durante la Fortificazione, il Mastro degli Addestramenti Utor mi fece frustare cento volte per questo stesso gesto. Nelle imboscate noi Glauchi dobbiamo schiacciare ogni lucciola che i nemici portano con sé, per soffocare ogni fonte di luce. Perciò ci addestravano ad ammazzarle rapidamente, schiacciandole sotto il piede o schiantandole contro la roccia. Le tenevano rinchiuse in grossi otri di vetro nel cubicolo dietro l'armeria, imprigionate in uno spazio ristretto in attesa di essere uccise da qualche cadetto. Una volta, mentre tutti dormivano, sgusciai fuori e ne liberai due sciami interi prima che riuscissero a fermarmi. Mi scudisciarono talmente forte che una volta finito le vertebre facevano capolino dalla carne martoriata. E non è neppure la cosa peggiore che mi è capitata durante la Fortificazione. Anzi, fu la cosa migliore. Era stupendo vedere le lucciole librarsi sopra il Gran Camino e volare a spirale intorno al Pinnacolo. Ho dimenticato molte cose, ma non quello»
«Mi dispiace» rispose Kih «non me l'avevi mai raccontato»
Vilkas fece spallucce «Mi è tornato in mente adesso. Ci sono molte cose che avrei voluto dire. Ma ora sono troppo stanco per parlare»
I due compagni restarono in silenzio, chini a fissare i calzari logori e il torrente che con gli schizzi faceva sussultare i funghi a mensola sulle sue rive.
«Kih...» mormorò Vilkas, la voce fiaccata dalla lotta contro il dolore «sono felice di averti al mio fianco»
«Anche io sono felice di averti con me,» rispose Kih «sei stato l'amico migliore che potessi desiderare. Ma non morire adesso. Siamo quasi arrivati»
Vilkas annuì e tornò a fissare in silenzio il paesaggio floreale. Kih aprì la sua esuvia e rovistò fino a estrarre la polvere di Lichene che aveva conservato per il viaggio. La osservò per un po', aspettando il sussurro magnetico della tentazione che lo coglieva ogni volta che i suoi occhi si posavano sugli apoteci giallastri. Tuttavia, questa volta, non provò niente. Non c'era bisogno di fuggire da alcunché, persi com'erano in quel piccolo paradiso verde, e l'aria rarefatta gli mozzava già i cattivi pensieri senza bisogno di ricorrere agli effetti del Lichene. Anzi, a un tratto il pensiero di assumere quella polvere lo disgustò nel profondo e con un gesto impulsivo Kih la scagliò dentro il torrente. La guardò scivolare trasportata dalle rapide come un polline rancido e vischioso finché non sparì dalla sua vista e Kih non provò nulla. Vilkas emise un mugolio soddisfatto di fronte a quel gesto, poi si sdraiò in posizione fetale e inspirò a fondo.
«Io dormo per un po'» disse «ti prometto che mi sveglierò»
«Allora mi corico anch'io»
La consistenza dell'aria li stancava presto, e i due compagni dormirono a lungo. Fu Vilkas a svegliare Kih, strattonandogli la manica con forza.
«Vieni» disse «ho trovato una cosa»
Kih si strofinò gli occhi e lo seguì dall'altra sponda del torrente, dove i muschi coprivano le stalattiti facendole assomigliare a delle enormi zanne verdastre. Lì, seminascosto dalla vegetazione, giaceva lo scheletro di un Glauco. Kih restò senza parole.
«Non è possibile» gracchiò, chinandosi per esaminare meglio le ossa «è ancora fresco. Dovrebbe essersi eroso molti cicli fa»
«Guarda che cosa porta al collo» disse Vilkas.
Kih aguzzò la vista e notò qualcosa che luccicava in mezzo alle costole. Una sorta di gemma color turchese legata a una cordicella di seta. Riconobbe subito il motivo inciso sulla superficie, sapientemente intagliato con lame di diamante dagli artigiani del Tempio e raffigurante la sacra spirale discendente verso la conoscenza dei maestri dell'Accademia. Così come riconobbe la montatura d'oro che giaceva spiegazzata sul cranio e il monile col sigillo di famiglia che giaceva di fianco alle falangi.
«Lagozodj...» mormorò, la voce sopraffatta dallo sconcerto. Non c'era alcun dubbio: quelli che rilucevano tra le ossa erano gli effetti personali del suo vecchio maestro; lo sfoggio materiale dei suoi successi in campo scientifico che lui portava sempre con sé. Così Lagozodj non si era perso all'interno dei cunicoli che si intrecciavano sopra il Gran Camino. No, anche lui era partito in una solitaria spedizione alla ricerca di una via di uscita da quella prigione di roccia, stimolato dalle visioni del Lichene e dal timore della vecchiaia incombente che gl'intorpidiva gli arti. Ora il suo scheletro giaceva lì, divorato dai muschi che avevano iniziato a cibarsi del midollo delle ossa e dalle felci che sbucavano dalle orbite del cranio come antenne di falena. Kih strabuzzò gli occhi per accertarsi di non star sognando. Prese la collana con delicatezza e la esaminò da ogni angolazione, esterrefatto dalla coincidenza che li aveva portati a ritrovarla. No, era proprio il turchese di Lagozodj. Il suo maestro se la rigirava spesso tra le mani, levigandola con il sudore e l'angoscia per le aspettative che questa gettava sul suo nome. Almeno finché non era sopraggiunta la demenza, i primi deliri, la depressione, e infine l'inspiegabile smania di libertà che aveva contagiato anche i due compagni in piedi presso il torrente.
Vilkas si voltò verso Kih, le labbra schiuse in un sorriso sghembo «Non si è perduto tra le caverne,» mormorò con un filo di voce «anche lui voleva uscire dalla Roccia. Ed è riuscito ad arrivare fin qui»
Kih annuì, ancora impietrito dalla sorpresa. Al Nucleo era tradizione gettare i corpi degli uomini illustri nel Pozzo dei Giganti, a differenza della concimazione organica per cui si usavano i cadaveri comuni, affinché potessero iniziare la loro discesa verso la Sfera indossando scarpe di piombo e gioielli resistenti alle temperature del magma. Venivano loro estratti gli ossi pisiformi praticando un taglietto lungo il lato della mano, poi conservati in piccole sfere di vetro nell'Ossuario del Tempio. Durante la cerimonie della schiusa del Globocratore, in periodo di pace, esse venivano distribuite ai fedeli perché le scuotessero provocando un tintinnio che presto si trasformava in un travolgente ronzio udibile fin nei ghermuli a mille faratri di distanza. A quanto si diceva, il sonaglio collettivo di tutti i magni Glauchi era come un ruggito che trapanava la mente e celebrava la gloria della civiltà in un eco che si propagava per tutta la Roccia, sovrastando anche il borbottio dei moti sismici. Ma era da centinaia di cicli ormai che la pace non si concedeva alla loro civiltà. E Lagozodj non avrebbe mai tentennato dentro una piccola sfera di vetro. No, le sue ossa erano coperte di muschio e mangiucchiate dalla vegetazione. Non era un destino molto diverso dal trasformarsi in concime, eppure era uno spettacolo molto più bello da vedere. Kih era sicuro che Lagozodj l'avrebbe gradito.
«Lasciamolo qui» disse, abbandonando la collana di turchese nel suo scrigno di costole «forse è stato attaccato da un predatore. Se è così, meglio muoverci»
«Kih...» mormorò Vilkas, rantolando dei colpi di tosse. I suoi occhi erano iniettati di sangue e il suo braccio ormai era una vista raccapricciante. Penzolava inerte, enfiato, con i muscoli completamente corrosi dall'acido e la carne consumata dalla necrosi. Non c'era ombra di vene, di sangue o di pelle, solo un grumo di materia organica dilaniata dall'infezione fino a divenire una polpa irriconoscibile. Il resto del suo corpo stava lottando disperatamente, ma le pulsazioni nerastre nelle arterie e i fremiti di dolore si erano fatti sempre più visibili sotto la pelle mentre il marciume si propagava in ogni capillare. E nonostante tutto, le sue labbra erano contratte in una sorta di ghigno compiaciuto.
Allarmato, Kih tornò di corsa verso il luogo dove avevano dormito. Tirò fuori l'ultima fiala di antidoto dall'esuvia e non ebbe il coraggio di guardare Vilkas negli occhi mentre gliela porgeva delicatamente alle labbra perché ne bevesse il contenuto. Quando ebbe finito, gettò la custodia di vetro nel torrente e si mise lo zaino in spalla.
«Avanti, non ti rimane molto tempo» disse, aiutando il compagno a indossare la sua esuvia e a sistemarsi la maschera sul volto.
«Un'ultima scarpinata e poi saremo arrivati»
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