II
Vilkas ansimava nell'oscurità, gli occhi sgranati a osservare le sagome dei suoi compagni appartati dall'altra parte della galleria. Tutte le lanterne erano già state coperte, l'elovalgys sotterrata nella melma di calcare e le mani stringevano nervosamente l'elsa dei pugnali. Il giovane soldato inspirò profondamente, dopodiché poggiò l'orecchio sulla parete della grotta. Ignorando i rumori interni al suo corpo, riuscì a distinguere il debolissimo ronzio che segnalava la marcia in corso della carovana. A giudicare dal volume distava all'incirca mille, millecinquecento faratri. Nella roccia i suoni si propagavano molto più velocemente – e distintamente – e un bravo esploratore doveva sempre far uso dell'udito affinato negli anni della Fortificazione per riconoscere ciò che lo aspettava lungo il cunicolo. Potevano essere i passi di una bestia cacciatrice, lenti e ritmati, o il terrificante gemito che preludeva a un cedimento; l'incubo di ogni minatore del Nugaredj.
Fece tre schiocchi con la bocca per indicare ai suoi compagni la distanza della carovana e ricevette dei sospiri di assenso. Avevano scelto una sezione particolare del sentiero per l'agguato, in quanto era uno spazio molto aperto che andava via via sempre più richiudendosi in una piccola strettoia. Gli Álvani si credevano furbi per aver scelto una delle gallerie meno frequentate e pattugliate per il loro transito, ma il Capitano Gapkaj aveva immaginato lo stesso e aveva predisposto il necessario per l'imboscata molto prima che le vibrazioni del corteo si facessero percepibili nella pietra. E al solito ci aveva visto giusto, come dimostrava il flebile bagliore di luce che iniziava a intravedersi in fondo al tunnel. Alla vista del bersaglio, i soldati cessarono ogni sospiro e la grotta sprofondò nel silenzio più solenne.
La civiltà dei Glauchi combatteva in modo diverso dalle altre tribù di creature della Roccia. Mentre queste costruivano i loro eserciti reclutando quanti più giovani possibile, strappati al loro futuro per accrescere il numero di combattenti, i Glauchi si basavano sull'addestrare pochi soldati ma estremamente letali. I loro assassini sapevano orientarsi alla perfezione nell'oscurità, avendo affinato i loro sensi per molti cicli fin dalla giovanissima età per sviluppare una completa consapevolezza di ciò che accadeva intorno a loro. Vilkas non si era dimostrato particolarmente dotato, e per questo durante la Fortificazione aveva dovuto trascorrere molto più tempo bendato, in modo da sviluppare al massimo l'udito, ma era molto abile con le daghe. In più, sapeva trattenere il respiro abbastanza a lungo da aspettare che un compagno si addormentasse di fianco a lui prima di sgusciare fuori dalle tende e colpirlo attraverso la seta del bozzolo. Ciò tornava parecchio utile in un agguato, quando l'unica possibile traccia dell'imboscata pronta ad agire era, forse, il troppo silenzio.
La luce in fondo al tunnel, proiettata dai faretti di elovalgys, si fece sempre più intensa. Presto lo scalpiccio dei due centopiedi giganti che trasportavano il carico sulle loro schiene emerse dal silenzio, così come il chiacchiericcio nervoso degli Álvani. Vilkas soppresse ogni fiato in gola e acuì i sensi, pronto a colpire. Man mano che la carovana si avvicinava, egli riusciva a identificare le posizioni degli elementi della scorta unicamente dalla fonte dei passi, e socchiuse gli occhi quando la luce delle lanterne si fece intensa al punto da abbagliarlo. Erano lì, a distanza di pochi passi. Poteva sentirne l'odore. Strinse la lama con forza e s'inebriò dell'adrenalina che gli tendeva i muscoli in attesa del colpo.
I centopiedi indugiarono un momento di fronte allo strozzatoio della grotta, e fu quello il momento in cui un forte fischio risuonò nell'aria. Vilkas, il Capitano e tutta la compagnia d'arme abbandonarono in un lampo i propri nascondigli e si fiondarono sulla scorta con le daghe sguainate. Due enormi otri d'argilla comparvero ai lati della carovana, trasportati dai Glauchi delle retrovie, e riversarono una marea di sale addosso agli enormi miriapodi che subito s'imbizzarrirono e scalpitarono scagliando via i soldati della scorta con le zampe acuminate.
Vilkas si precipitò addosso al combattente più vicino, che non ebbe nemmeno tempo di sguainare la spada prima di ritrovarsi la gola tagliata. Il Glauco afferrò la lanterna e la frantumò, schiacciando la lucciola che v'era all'interno, dopodiché schivò il fendente di un soldato che era riuscito a estrarre l'arma. Le strilla di dolore e sorpresa degli assaliti lo scombussolarono per un attimo, facendogli perdere la cognizione spaziale, ma egli reagì con rapidità e infilzò il nemico nel torace. Ne attaccò subito un altro, che si era allontanato dai centopiedi per non venire travolto dalla loro manovra di fuga, e gli conficcò una daga nella schiena mentre con l'altro pugnale si proteggeva il fianco dagli attacchi. Due Álvani in armatura di placche di scarabeo gli vennero incontro ad armi snudate, ma Vilkas con due calci abbatté le due lanterne più vicine e si aggrappò alla parete della grotta per nascondersi nella penombra. Con la massima cautela si trascinò lungo la parete, usando gli artigli per restare assicurato alla roccia, e li osservò guardarsi intorno con aria confusa. Poi, quando fu dietro di loro, si spinse in avanti per coglierli di sorpresa. Riuscì a infilzarne uno con la daga, ma l'altro gli si gettò addosso e lo placcò bloccandogli l'altro braccio. I due ruzzolarono a terra e Vilkas sussultò quanto l'avversario riuscì a costringerlo al suolo, la schiena premuta sulla nuda roccia. Provò a divincolarsi, ma l'altro era più forte e gli fermò entrambe le braccia con un latrato di furia. Per un attimo si guardarono negli occhi, bagliori di violenza selvaggia nelle pupille dilatate. Poi, in un attimo, una lama di ossidiana trapassò il petto dell'Álvano e qualcosa lo sollevò di peso liberando Vilkas dalla presa. Hallang gli porse la mano e lo aiutò ad alzarsi.
«Grazie» mormorò Vilkas, riafferrando le daghe e chinando il capo.
«Di nulla» rispose l'altro.
Subito i due tornarono a gettarsi nella mischia, disperdendo i soldati rimasti della scorta affinché non si unissero in formazione difensiva. I due centopiedi continuavano ad agitare le zampe e torcere i corpi segmentati nel tentativo di liberarsi dal sale, e nel mentre fecero cadere al suolo molti dei bozzoli e dei sacchi che formavano il bottino della carovana.
«Le luci! Non lasciate che spengano le luci!» strillò un Álvano da qualche parte in mezzo al trambusto. Le sue parole si persero nel frastuono e nell'oscurità mentre i soldati dei Glauchi si prodigavano a schiacciare tutte le lucciole che accompagnavano la carovana, il suolo ormai una poltiglia di grani di sale, cocci di vetro e sangue fresco. Le fonti di luce si spegnevano una dopo l'altra, rendendo la galleria sempre più buia finché l'oscurità non tornò a calare sul campo di battaglia. Allora i gemiti si fecero più intensi, le braccia tremanti e i denti digrignati, perché gli assaliti avevano perduto qualsiasi possibilità di vittoria.
Vilkas si lasciò abbracciare dal buio, l'adrenalina che ruggiva nel sangue e lo rendeva perfettamente conscio delle mosse degli avversari. Percepiva ogni sibilo di fendente, ogni passo cieco, e il lamento dei centopiedi trafitti sotto le placche di chitina non era abbastanza da sovrastare i suoni dei soldati. Ne eliminò tre, poi altri due, sgusciando dietro di loro con rapidità e trapassandoli prima che potessero scorgere il suo profilo nell'ombra. Un altro soldato era accasciato al suolo ma respirava ancora. Era inutile fingersi morti in un combattimento contro i Glauchi. Potevano udire l'affannato battito cardiaco di un avversario anche da cinque faratri di distanza. Voltandosi, Vilkas sentì qualcosa sibilargli vicino all'orecchio e subito si gettò al riparo, nascondendosi dietro alcuni sacchi precipitati al suolo. Un gruppo di Álvani si era radunato dalla parte opposta della grotta, le spalle al muro per non essere presi di sorpresa, e stavano lanciando dardi avvelenati alla cieca. Non gl'importava di colpire amici o nemici, poiché le sorti della battaglia erano già state decise; speravano solo di eliminare qualche soldato d'élite dei Glauchi sparando più dardi possibile nell'oscurità. Hallang schioccò la lingua e si gettò di fronte a Vilkas, facendolo sussultare.
«Sono gli ultimi» mormorò «uso uno di loro come scudo e li finisco»
«Sono sette. Non ce la farai da solo. Aspetta che finiscano i dardi»
«Ne hanno un bozzolo pieno»
Vilkas aggrottò la fronte e fece capolino dal riparo per esaminarli. Nonostante il buio, i suoi occhi erano abbastanza sviluppati da rilevarne le sagome, e vide che uno di loro stava disperatamente cercando di rianimare una lucciola. I centopiedi smisero di dimenarsi, crollando definitivamente al suolo, e un silenzio improvviso calò nella grotta. Alcuni dei compagni di Vilkas iniziarono a lanciare dei sacchi vicino al retro della carovana, incitando gli Álvani rimasti a lanciare dei dardi verso la fonte di rumore. Tuttavia Hallang aveva ragione, ne avevano un sacco pieno.
«Tu da destra, io da sinistra» sussurrò Vilkas «li prendiamo da due direzioni mentre ricaricano i propodi»
«D'accordo, facciamo in fretta»
I due combattenti si separarono e Vilkas sgusciò da una stalattite all'altra, cercando di esporsi il meno possibile alla pioggia di dardi. Il rumore dei propodi che si contraevano durante la ricarica bastò a coprire il fruscio di lui che afferrava un cadavere come scudo e si dirigeva verso i malcapitati. Mentre procedeva, udì un gemito provenire dalla direzione di Hallang, e gli Álvani scagliarono subito i loro dardi verso la fonte del suono. Probabilmente avevano bersagliato un loro compagno morente, eppure Vilkas sentì un brivido freddo percorrergli la schiena. Ora stavano armeggiando con le loro armi per ricaricarle. Era il momento di colpire.
Vilkas corse verso il soldato più a destra e gli afferrò il braccio, impedendogli di incoccare l'arma, poi lo infilzò sotto il mento. I suoi compagni si voltarono allarmati verso di lui, ma Hallang dalla direzione opposta aveva già eliminato due di loro. Uno dei soldati con l'arma già carica scoccò in direzione di Vilkas, che riuscì a proteggersi dietro il corpo dell'Álvano appena ucciso. Ringhiò e si scagliò contro il tiratore, colpendolo con l'elsa del pugnale in pieno volto e facendogli sbattere la nuca contro la roccia. Poi gli tagliò la gola con un singolo fendente e uccise l'ultimo membro della scorta, disarmato, con un colpo al petto. Hallang aveva eliminato gli altri quattro in un lampo. Lo sterminio era compiuto. Il silenzio restò ad ammantare la galleria ancora per qualche secondo, le orecchie di tutti tese a captare l'eventuale respiro dei superstiti. Dopodiché, seguì un coro di schiocchi a indicare che non c'erano stati sopravvissuti.
«Fuori le luci. Controlliamo il carico» ordinò il Capitano Gapkaj. I soldati delle retrovie grattarono via la fanghiglia e tirarono fuori le lanterne nascoste nel suolo. La luce tornò a illuminare la grotta e gettò lunghi fasci di luce sul lugubre spettacolo di sale e corpi martoriati che poco fa componeva la carovana.
Vilkas fece un cenno d'intesa a Hallang, soddisfatto del lavoro, e quello ricambiò con uno stralunato sorriso mentre si strofinava via il sangue dalla fronte. Il Capitano Gapkaj avanzò verso di loro, accompagnato da due Glauchi, e chinò il capo in segno di riverenza.
«Ben fatto con quei tiratori. La prossima volta non agite così impulsivamente»
«Non era improvvisato, signore. Coordinarsi con segni auditori non era possibile» rispose Vilkas.
«Così come non è possibile schivare dardi nel buio. Due soldati del vostro calibro non dovrebbero esporsi» ribatté l'altro con indifferenza «ad ogni modo è andata bene. Ora aiutatemi con il carico»
Vilkas annuì e seguì l'ufficiale verso le carcasse dei millepiedi, ancora scosse da qualche spasmo. La maggior parte dei sacchi e dei bozzoli assicurati ai loro dorsi era caduta a terra e il Glauco poteva distinguerne il contenuto, principalmente composto da gabbie a maglie molto strette che si espandevano e contraevano come se respirassero. Incuriosito, Vilkas si chinò ad osservarne una e scostò i lembi per esaminarla meglio. Aguzzando la vista, vide uno sciame di insetti simili a scarabei che si dimenava all'interno della gabbia e mordeva la seta rinforzata con una miriade di ganasce acuminate.
«Sono degli apropolifagi, o Denti del Macero» disse il Capitano, senza nascondere il suo disgusto.
«Credevo portassero armi e trivelle per preparare un appostamento» rispose Vilkas.
«No» il Capitano afferrò una delle gabbie e indicò le affilate mandibole degli insetti che sporgevano dalle maglie di rete «sono insetti parassiti, che mangiano la flora. Resistono al calore e si moltiplicano in fretta. Gli Álvani li liberano nelle colonie nemiche perché ne divorino le colture»
Vilkas aggrottò la fronte, stregato dal palpitare di quella massa nera che si deformava in un sovrapporsi indistinto di ali d'insetto e lucida chitina.
«Non ne avevo mai visto uno» mormorò «potremmo usarli sulle loro colture»
Il Capitano scosse la testa «Non funzionerebbe»
«Perché?»
«Perché gli Álvani non hanno colture. Sono popoli nomadici, si cibano delle altre colonie. Per questo hanno gli occhi frontali e le zanne così lunghe» il Capitano indicò il muso allungato di uno dei cadaveri, dove spiccavano due denti sporgenti e acuminati «L'unica cosa da fare con queste bestie è gettarle nel magma, lontano dall'Endoavamposto e dalle città»
Detto questo, emise un forte schiocco e i due luogotenenti della compagnia, Jaedhj e Mogared, si fecero avanti.
«Addentrandovi in quella galleria troverete l'inghiottitoio di una fornace,» il Capitano indicò una delle molte imboccature della grotta «è profonda più di duemila faratri e non molto distante. L'odore dello zolfo si sente anche da qui. Radunate dieci soldati e gettate tutto lì dentro. Poi raggiungeteci all'Endoavamposto. Ho delle faccende urgenti da sbrigare, un accademico è stato convocato sotto mia richiesta»
«E se arrivano i rinforzi?» domandò uno dei luogotenenti.
«Non ci saranno rinforzi, potrete constatarlo voi stessi dalle vibrazioni della roccia. Mi raccomando, è assolutamente necessario che le gabbie restino intatte. Se uno di questi insetti fugge, schiacciatelo subito»
«Sissignore»
«Bene. Voi due al lavoro» concluse il Capitano, poi si girò verso Vilkas «tu invece vieni con me»
I due soldati si misero sull'attenti e iniziarono a sbraitare ordini al resto della compagnia che già aveva iniziato a raccogliere i sacchi caduti a terra. Vilkas chinò il capo di fronte al Capitano e iniziò a seguirlo verso il fronte della carovana quando udì una sorta di rantolio provenire dalla sua sinistra. Voltandosi, fu assalito dal terrore quando vide Hallang intento ad ansimare e barcollare presso la parete della grotta. I suoi occhi erano iniettati di sangue e la sua mano tremava violentemente mentre reggeva il braccio destro, che si era gonfiato e annerito fino ad assumere un colorito tumescente.
«Hallang!» gridò, allertando il Capitano, e corse verso il compagno. Riuscì ad afferrarlo proprio mentre le gambe gli cedevano, e lo prese tra le braccia.
«Vilkas...» rantolò Hallang, il suo viso contratto da una smorfia mortificata.
Vilkas notò il foro che pulsava sul braccio dell'amico, annerendo le vene sottopelle come gli avessero iniettato dell'inchiostro, e iniziò a correre disperatamente verso il Capitano.
«Serve una barella» balbettò, la gola stretta in una morsa di panico «dobbiamo riportarlo indietro subito»
«È troppo tardi» rispose quello con espressione amareggiata «Il veleno dei triteuri agisce rapidamente. Non c'è speranza di riuscirci»
«Ti prego, capitano!» gridò Vilkas, attirando l'attenzione degli altri soldati, che smisero di lavorare «Lo hai detto anche tu! Non possiamo perdere un soldato così valido! Dov'è la barella?»
«Non alzare la voce con me, soldato,» continuò il Capitano, senza scomporsi «e non insistere, prima che perda la pazienza. Conoscevate i rischi. Non c'è più niente da fare»
Vilkas sentì le dita fremere dalla rabbia, i suoi muscoli pronti a scattare per cancellare quell'espressione indifferente sul volto del superiore, ma riuscì a trattenersi con un respiro profondo. A un tratto la mente gli girava, le emozioni lo stavano sopraffacendo mentre panico, furia e desiderio di violenza brulicavano scalcianti come gli insetti nerastri in quelle gabbie. Con il cuore che batteva all'impazzata si voltò e corse verso l'amico col corpo sempre più martoriato dalla necrosi che gli divorava il braccio.
Hallang provò ad aprire la bocca alla vista dell'amico, il viso completamente stravolto dal dolore del suo corpo che marciva più in fretta dei suoi pensieri. Le corde vocali si erano già atrofizzate, la possibilità di un ultimo addio già troncata. Vilkas poté solo offrire qualche ultimo singhiozzo, accasciato sul corpo dell'amico con la schiena che palpitava lucida di sangue e sudore alla luce degli elateridi. Gli altri soldati smisero di trafficare con i bozzoli, chinarono il capo e si racchiusero in un silenzio solenne per omaggiare il compagno caduto. Il silenzio tornò ad avvolgere la grotta ancora una volta, uno scrigno di rammarico comunitario intorno al pianto soffocato di Vilkas, e durò il tempo necessario che l'anima del defunto si librasse verso le profondità della Roccia prima che ricominciassero a lavorare. Ma non Vilkas, che in una manciata di attimi sfocati aveva visto il compagno di una vita spegnersi per sempre con la stessa banalità di una lucciola schiacciata sotto il piede. Lui restò immobile, fermo ad ansimare sulla carcassa, finché il Capitano non lo richiamò con uno schiocco.
«Dobbiamo andare, soldato»
«Ancora qualche momento» mormorò lui. Stava cercando di ricomporsi, di riassumere l'atteggiamento di allerta neutralità per cui era stato addestrato, ma non ci riusciva con quell'arsura che gli tendeva i muscoli del viso in una smorfia di dolore.
«Ancora qualche momento, signore...»
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