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I

Il primogenito tra fauci dorate,
schegge di valgys su gusci di tartaro.
Il secondo per forti cinghiate,
il padre lo aprì come un bulbo di cardo.
Il terzogenito coi polmoni intasati,
da gas che non sibilano nel Cunicolo.
Il quarto ebbe gli occhi cavati,
e dal perdersi non lo trasse miracolo.
Il quinto, ahimé, morì per un male,
che nessun luminare poteva intendere.
Il sesto schiacciato da un masso anormale,
dopo una notte di fumi dall'etere.

Il settimogenito, invece, si dice
fu trovato a letto con una meretrice,
a lui tra le costole infitta una daga,
a lei nelle tasche di un mese la paga.

E l'ottavo fratello, ultimo del gene,
poté solo vivere tra mille pene,
e come sua unica consolazione,
delle sue miserie scrisse una canzone.

Come sua unica consolazione,
delle sue miserie scrisse una canzone.

O almeno così se la ricordava Kih. La cantava con i compagni durante i viaggi dal Nucleo ai ghermuli circostanti, attraverso alcune tra le gallerie più antiche mai mappate dai cartografi dell'impero. Scavate a mano dai Glauchi nel corso di secoli, erano così larghe e alte che nei cicli più umidi potevano riempirsi di nebbia. Una foschia bassa e immota, senza gorghi e pennacchi, che rendeva l'atmosfera lugubre al punto da costringerli a cantare qualche stupida ballata per risollevare gli animi. E ora, tutto d'un tratto, quella canzone un tempo causa di risa lo stava scombussolando, come se lo deridesse personalmente. Le sue labbra erano rigide mentre ripercorrevano le parole della filastrocca, sussurrandola come una nenia spettrale nel silenzio dello studio.
Kih sfregò i polpastrelli contro la carta di larva, sfilacciandola un poco nel tentativo di distendere i nervi e sciogliere la mascella che si era completamente serrata. Era una lettera breve e informale, sigillata con il cerchio sacro di un colore blu sanguigno: il segno che i contenuti recavano brutte notizie. Lentamente la rilesse.

Al Maestro Cadetto Kih del ghermulo di Koryn, Nucleo Esterno,
con dolore rechiamo notizia che tuo fratello Okos è morto in battaglia durante un'imboscata dei Rehki Dvar, a trenta cicli dall'inizio della ventisettimesima guerra coloniale. La battaglia ha avuto luogo otto cicli fa e le sue spoglie sono state disposte alla concimazione come previsto dal contratto della compagnia. Il suo nome sarà inciso sulla Parete di Hrudd. Condoglianze e gloria alla Civiltà dei Glauchi.
Il Ministero della Guerra del Nucleo Interno

E così ora quella filastrocca gli risuonava in testa come una maledizione, dilaniandogli la mente. Le memorie dei suoi compagni che la canticchiavano durante i primi sopralluoghi in galleria gli sembrarono improvvisamente aspre, quasi sadiche. La riduzione della vita di un individuo allo scherno, la banalità della morte di un'intera famiglia vincolata ai versi di una stupida canzone. Quello sberleffo, quel tradimento gli stava risucchiando via il tepore dal corpo come i venti di grotta ascensionali che soffiano via il calore per riempire osmoticamente qualche camera magmatica a centinaia di faratri di distanza. O come una miniera che, terminati i filoni di elovalgys, diventa inutile e in pochi cicli si svuota di tutta la vita e diviene più fredda di un inghiottitoio. Un'opprimente desolazione iniziò a permeargli il corpo e presto si trasformò in un vortice d'odio. Odio per la maledizione che era la sua vita, per ciò che il Nucleo chiamava "civiltà" ma che in realtà era solo un contratto di sopravvivenza macerato da quelle guerre infinite; e per l'elovalgys, la pietra della vita venerata da tutti i popoli della Roccia in quanto unica fonte di luce e di calore in quel mondo di grotte, ma che in realtà celava una maledizione sanguinaria. Una madre litica intenta a nutrire i propri pargoli col latte dell'esistenza per poi osservarli passivamente scannarsi in una perenne e disperata lotta per il predominio del suo seno avvelenato. Egkol e Prikk, due dei suoi fratelli, erano morti come milioni di altri Glauchi nelle miniere situate nelle profondità più remote della Roccia. L'esistenza di ogni un popolo non era legata ad altro se non la speranza di succhiare abbastanza luce e calore dal proprio filone. E se questo si esauriva? Ecco che l'angoscia lievitava, lo spirito si fiaccava e la strada della violenza iniziava a delinearsi come unica possibile soluzione. Il richiamo della sopravvivenza, la necessità del sacrificio del popolo vicino per il bene dei figli. Così la guerra non aveva mai fine. A dirla tutta, il tentativo di numerare le guerre che l'impero del Nucleo aveva affrontato durante la sua breve storia nasceva solo dalla necessità di un riferimento cronologico, dato che la vita lì dentro era solo un ininterrotto conflitto. Mraen e Torudj? Morti in battaglia anche loro quando Kih era ancora piccolo, forse strafatti di Lichene pallido per abbandonare la loro coscienza e lottare con la stessa ferocia di chi non vedeva la luce da decine di cicli. E infine c'erano stati Horva e Keoh, uno morto da giovane per una qualche emorragia improvvisa e l'altro ucciso da un ladro dopo essersi addormentato in un bagno termale. Sette fratelli caduti come insetti, di una morte che nessuno avrebbe mai ricordato a parte Kih.
Il suo corpo si afflosciò sulla sedia, le pupille svuotate di ogni impulso di vitalità. Nemmeno il danzare della lucciola dentro il vetro della lanterna sembrava lenire l'impressione che tutto in quella stanza si fosse a un tratto irrigidito. Kih non voleva più combattere contro quell'esistenza. Non era un pensiero di sconforto passeggero, era un'illuminazione tangibile e marmorea che gli aveva scosso le vene fino al più sottile capillare. Un'estasi di vacuità totale che conferiva improvvisa solennità alla banale quotidianità della morte. La pelle era una prigione di sensazioni opprimenti, il cuore un nido di desideri corrotti. E la vita ruotava attorno a una risorsa troppo scarsa per non essere una grande presa in giro, il sadico scherzo di una qualche divinità travestito da gloriosa benedizione. Come quella dannata filastrocca, così stupida e profetica. Kih la maledisse ancora, ma con sempre meno convinzione. Non era accettazione la sua, né un qualche tipo di ribellione. Solo un'estrema stanchezza. Era stanco di trascinare le sue gambe a vuoto, di "fare la sua parte" e di riflettere sul fatto che lui fosse ancora vivo e gli altri no. Era stanco di giocare a quel gioco.
Nessun sospiro accompagnò la sua mano mentre apriva la busta seguente. Stavolta il sigillo era di color arancione, segno di una convocazione o di un invito a qualche attività accademica. Per quanto lo riguardasse, comunque, non era meglio di una cattiva notizia. Estraendo la lettera le sue braccia gli sembrarono distanti mille faratri, incorporee, come se stesse controllando gli arti di un automa. Il suo respiro non emetteva alcun suono, più gelido dell'aria, e i suoi occhi si mossero in modo indifferente e meccanico per leggere il messaggio.

Al Maestro Cadetto Kih del ghermulo di Koryn, Nucleo Esterno,
spero di trovarti bene. Sei richiesto alla presenza del Capitano Gapkaj Torvva dell'Endoavamposto di Nugared, Sesto Arco, in qualità di mastro geologo, scriba e sacerdote di terz'ordine del Tempio della Luce. La tua conoscenza e la tua saggezza nel campo della geologia e in ambito teologico sono richieste dal capo dei minatori Ulep Tuvj con la massima urgenza. Sarai raggiunto sul luogo da un'equipe di studiosi e apprendisti per condurre una spedizione nelle miniere per l'investigazione di un fenomeno che, stando alle parole del capitano, pare connesso con gli studi del tuo maestro, il compianto Lagozodj. Ti chiediamo di portare tali studi con te e di raggiungerci al più presto all'Endoavamposto. Ti chiediamo anche di riservare la massima segretezza in merito a questa spedizione. Ti saranno fornite più informazioni a riguardo quando ci raggiungerai qui all'avamposto.
Buon viaggio e Gloria alla Civiltà dei Glauchi,
scriba Vondor Torvvaj di Nugared

Kih aggrottò il sopracciglio una volta terminata la lettura. Era la prima volta che chiedevano specificamente di lui per una missione. Conosceva bene il capitano e le zone circostanti a Nugared, dove aveva trascorso diversi cicli ad assistere il suo vecchio maestro, ma mai si sarebbe aspettato di rivederle dopo le ultime incursioni degli Álvani. Il Capitano Gapkaj era un uomo rude, estremamente serio, e Kih rammentò il cinismo con cui trattava gli accademici e il loro interesse per le rovine situate all'imboccatura del Gran Camino, tra le più antiche ed elevate della Roccia. Non v'era zona più estesa, verticalmente parlando, e un viaggio dal fondo delle miniere alla cima delle pericolosissime gallerie del Camino poteva durare anche un ciclo intero. Proprio esplorando la cima dell'abisso si era perso Lagozodj, il suo vecchio maestro. Così l'impero aveva perso uno dei suoi accademici più acclamati e Kih era stato costretto ad abbandonare le ricerche e a tornare alle stagnanti mansioni di cadetto interno alla capitale. Durante la sua assenza, la zona era stata piagata da un numero sempre maggiore di incursioni da parte di tribù remote e dimenticate, nonché estremamente disperate, come costrette a un esodo forzato da terre lontane. In più, sembrava fosse una delle zone più esposte al recente rialzo delle temperature che aveva coinvolto gran parte della Roccia. Molti cadetti si sarebbero disperati alla notizia di una convocazione urgente in quel luogo, il che equivaleva forse a una mezza sentenza di morte. Ma non Kih. No, per lui era una sorpresa, forse una lieta sorpresa. Kih non temeva più la morte, era questa la situazione adesso. A dire la verità aveva sempre conservato la speranza, mai apertamente manifestata, di ritornare in quei luoghi dall'atmosfera mistica, arcana; ammalianti e letali come il tocco di una succube. Conosceva molti segreti su quelle gallerie, segreti che il suo maestro gli aveva confidato e che lui non aveva mai detto a nessuno. Di fronte al vuoto che ora dimorava nel suo animo, forse concludere quella vecchia spedizione era l'ombra di uno scopo che gli permettesse di sentirsi vivo ancora per un po'. Un fine in grado di spezzare quella sensazione di grande inerzia, una scusa per lottare ancora qualche ciclo solo per vedere come finiva quella patetica storia. Non gl'interessava la prospettiva di una delusione o la possibilità di una morte violenta. Non gl'importava un fico secco. Voleva solo abbandonarsi al fascino dell'inesplorato per un'ultima volta, invece che lasciarsi affogare nella macerazione da totale indifferenza fino a ridursi all'oblio una volta per tutte.
Stuzzicato da quel barlume d'ispirazione, aprì il cassetto della scrivania e rovistò fino a estrarre un po' di polvere di Lichene. Era rimasta lì per un po' di tempo, ma doveva essere ancora buona. Kih la inalò tutta in una volta ed emise qualche colpo di tosse, facendo sussultare la lucciola che lo fissava dalla propria gabbia di vetro. La droga fece subito effetto e Kih si accasciò sulla poltrona assorbendo la sensazione dell'anima che per un attimo abbandonava il corpo e si librava in alto, nella direzione opposta al sacro nido dell'elovalgys. Per i sacerdoti le anime migravano verso il basso dopo la morte, dove i filoni della pietra della vita confluivano in una sfera perfetta; la culla della vita soffocata dai conati basaltici che costituivano l'infinito volume della Roccia. Eppure a lui sembrava che lo spirito andasse verso l'alto, che l'idea che tutto tendesse al verso della sacra gravità fosse solo una menzogna. Che ci fosse qualcosa dall'altra parte, qualcosa di diverso da un'eterna e impenetrabile massa di pietra.

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