L'angelo della morte.
In un paese piccolo come quello, le voci circolavano velocemente. C'era una ragazza, nel cimitero di quella cittadina. Si diceva fosse la figlia del custode, una giovane donna cieca che pesava sulle spalle del povero padre... Erano anni che lui non si vedeva più. Ma le aiuole del cimitero restavano curate, i fiori annaffiati e le strade pulite, quindi nessuno si preoccupava più di tanto... Non poteva essere morto, chi altri avrebbe potuto occuparsi del cimitero? La donna che aveva messo alla luce la ragazza, era morta sul momento, lei era cieca. Nessuno l'aveva mai vista uscire dal cimitero, non aveva amici.
Si sapeva fosse alta, bionda, magra. Aveva le forme di una diva. Le sue labbra erano rosse e carnose, i denti dritti e bianchi... Il naso all'insù. Le sue mani erano aggraziate come tutto ciò che le apparteneva, muovendosi avrebbe potuto sedurre una statua, data la sua eleganza. Ciò che indossava era una lunga veste bianca, e non era mai stata vista con altro addosso. Spesso la vedevano attraverso i cancelli, che semplicemente se ne stava ferma seduta su una delle panchine fino alla sera. Ma la cosa che più insospettiva, era che nessuno mai l'aveva guardata negli occhi. Mai. Non c'era stata persona viva a raccontare di quale colore fossero le iridi della fanciulla. C'erano voci... Si diceva fossero stelle rubate al cielo, che avevano lasciato un vuoto agonizzante del tutto privo di poesia, nella volta celeste. Si sussurrava che le sue labbra fossero gocce di sangue prese dai cadaveri dei peccatori. Gli adulti si tenevano alla larga da lei, mentre i bambini ne erano stranamente affascinati.
Si sussurrava che fosse coinvolta nell'incidente avvenuto anni prima. Tre ragazzini si erano persi durante una funzione funebre in quel cimitero, e non erano più stati ritrovati. Solo qualche indumento, per il resto erano come scomparsi nel nulla. Il fatto era che, di notte, il cimitero era chiuso. Quindi non poteva essere stato nessuno se non la fanciulla o il padre... Ma quest'ultimo era già una leggenda. Si diceva anche che fosse stata proprio la figlia ad ucciderlo, perché lui la teneva segregata in casa da quando la moglie era morta, come se avesse accusato lei della sua dipartita.
In un pomeriggio di novembre, un gruppetto di ragazzini stava giocando nella piazzetta vicino al cimitero. Avevano una palla arancione, tutta sbiadita, che chissà come rimbalzava ancora. Le risate echeggiavano nell'aria stranamente calda, e la fanciulla se ne stava seduta come al solito sulla panchina del cimitero, le mani raccolte in grembo e il vestito svolazzante, mentre lo sguardo sembrava perso e le labbra leggermente incurvate.
Ma questo i bambini non lo sapevano, continuavano a giocare. Erano un gruppo di sette ragazzi, tutti più o meno dell'età di Thomas, il "capo". Quel giorno, la madre del ragazzo lo aveva costretto a portarsi dietro anche il fratellino, un piccolo marmocchio dai capelli biondo cenere, che se ne stava in disparte come il fratello maggiore gli aveva detto di fare. Guardava i ragazzi che tanto aspirava ad eguagliare divertirsi, e segretamente sperava che lo lasciassero giocare... Ma no, sapeva che non era possibile. Era piccolo, Thomas gli aveva detto che non doveva disturbarlo. Thomas sembrava tanto importante, tra quei ragazzi. Aveva appena tredici anni e lui sapeva che a casa era un fratello come tanti altri, ma lì sembrava nel suo regno. Quanto avrebbe voluto farne parte anche lui, o almeno avere la dimestichezza che sembrava possedere Thomas col mondo. La mamma gli aveva detto di non cercare di emulare gli altri, di trovare da solo chi veramente era... Ma lui non sapeva da dove iniziare.
Si sistemò per l'ennesima volta la sciarpetta a righe rosse, che era stata trasportata dal vento e ora gli arrivava ai piedi. Se ne stava seduto su una panchina vecchia e cigolante, i suoi piedi non toccavano terra, e lui ogni tanto li faceva dondolare qua e là, avendo la sensazione di volare. La sua sciarpetta aveva quindici righe, e nove fili per entrambe le estremità.
Guardò meglio i ragazzi, socchiudendo gli occhi per il sole caldo e prepotente. Si passavano la palla logora inventando nuovi giochi, ridendo e scherzando tra loro. Era brutto essere il più piccolo. Thomas diceva che non doveva rompere, quando stava con i suoi amici, e lui non ne aveva praticamente nessuno. Si rifiutava di ricorrere all'autorità della mamma anche quando non c'era, anche se il risultato era quello. Lui se ne stava buono buono senza fiatare, e suo fratello si divertiva, gentilmente privato del suo tanto disprezzato ruolo di babysitter. Sentiva il rumore della ghiaia spostata dai loro passi frettolosi, i colpi dei piedi e delle mani sulla palla, il chiacchiericcio spensierato. Anche lui era spensierato, s'intende, era un bambino. I bambini possedevano qualcosa che in pochi apprezzavano: l'occasione di essere felici che i grandi avevano sprecato.
Praticamente appiccicata a Thomas, c'era Carmela. Era una bambina fastidiosa, che girava sempre intorno al fratello. L'aveva visto darle un bacio, una volta. Perché mai a suo fratello sarebbe dovuta piacere? Lui non ne sopportava la vista. Quella bambina aveva i denti storti e i capelli biondi, era piuttosto in carne e i suoi genitori gli parlavano sempre come se lui fosse un cane, o un cucciolo di qualcosa.
Si alzò di fretta, quando vide i ragazzi, con Carmela al seguito, correre via dalla piazzetta. Disse mentalmente alle sue gambe corte di affrettarsi, o sarebbe rimasto indietro... Non che qualcuno l'avrebbe notato, certo, ma lui e la corsa erano proprio agli antipodi. Una volta Thomas l'aveva schernito dicendo che se avesse dovuto scappare da un lupo assetato di sangue, non avrebbe avuto vita lunga. E da lì aveva il terrore dei lupi... Ma non c'erano lupi, in quel paesino. Era ridicolo.
Raggiunse gli altri che già aveva il fiatone, nonostante avesse fatto pochi metri. Erano tutti radunati vicino alla barriera del cimitero, che guardavano dall'altra parte. Lui aveva sempre provato una certa curiosità per il cimitero. L'unica volta che c'era entrato, era stato con i suoi genitori per la morte di un vicino, ma Thomas gli aveva raccontato delle storie spaventose... Aveva paura più di quello che doveva essere il custode, però.
Sulle loro teste si alzò una brezza autunnale insolitamente calda, che sollevò qualche foglia e la fece librare in aria. Lui immaginò di essere una di quelle foglie, che cadute poi riuscivano a trovarsi di nuovo in alto. Immaginò di essere leggero come una piuma, di poter venire trasportato dal vento oltre i cancelli del cimitero, oltre i cancelli del mondo. Oltre i cancelli che separavano il materiale dalla sua fantasia.
I ragazzi stavano discutendo animatamente. Li osservò gesticolare ed indicare il cimitero ancora per qualche secondo, poi decise di avvicinarsi ancora. Quando ebbe raggiunto suo fratello, gli tirò delicatamente un lembo della giacca, per attirare la sua attenzione senza disturbarlo troppo. Thomas distolse lo sguardo dai suoi amici che ancora bisticciavano animatamente, per guardarlo dall'alto.
«Cosa succede?» domandò lui piano.
Thomas lo scrutò per un momento, poi nei suoi occhi balenò il lampo di un'idea. Lo prese e lo trascinò più vicino al cancello. In quel momento, lui notò una cosa.
«Dov'è la palla?» chiese. Thomas lo guardò e poi guardò il cimitero.
«Lá dentro.»
...
Il bambino guardò meglio l'albero sotto cui si trovava. Giurava di averlo visto almeno altre due volte... Si era perso. Il sole aveva già cominciato a calare, come a congedarsi dal suo compito di luminaria. Come a dire a tutti coloro che avevano uno scopo come lui, che se la dovevano cavare da soli. Come a dire loro, vediamo se ce la fate senza la luce dalla vostra. Lui non aveva mai amato il buio. Ma non era solo perché esso veniva associato al male, ma perché lui poteva dire di sentirlo. Il buio aveva un corpo, un'anima e un peso, diverso da quello del giorno. Ti gravava sulle spalle come se qualcuno ti si fosse seduto sopra, non era leggero come la luce. Era serio e terrificante.
Difficile dire da quanto era lì dentro. Forse tre ore, forse trenta minuti. Lui era piccolo e le sue gambe si stancavano in fretta. Si sedette di nuovo, giocherellando con la sciarpetta e scrutando in giro per vedere se riusciva a riconoscere qualcosa. In quel momento, non era tanto preoccupato per la sua posizione, quanto per Thomas. L'avrebbe aspettato?
Lui sapeva che non avrebbe dovuto andarci. Thomas l'aveva mandato nel cimitero a cercare la palla, come avessero fatto a mandarla chissà dove poi, lo sapevano solo loro. Non l'aveva trovata, e nel vano tentativo di trovare qualcosa di perso, si era smarrito anche lui.
Doveva ammetterlo, quel cimitero dava i brividi. Faceva più freddo, adesso... Gli alberi sembravano tutti scheletrici, lì dentro. Qua e là, spuntava qualche lapide con nomi di persone che non avrebbe conosciuto mai. Gli faceva un certo effetto sapere che sotto i suoi piccoli piedi ci fossero dei cadaveri.
Lui aveva solo sette anni, aveva tutta la vita davanti, ma trovarsi difronte la fine della vita delle persone, lo rendeva come consapevole della sua mortalità.
Sollevò lo sguardo, si era alzata una leggera brezza che sollevava la polvere dal suolo. In lontananza, scorse qualcosa di bianco. Capì cos'era ancor prima che la fanciulla gli si parasse davanti, bella e incantevole.
«Ciao.» gli disse. La sua voce era melodiosa, ipnotizzante.
«Ciao.» rispose il bambino. Oddio. E se fosse stata arrabbiata perché non poteva stare lì?
«Come ti chiami?» lui la guardò meglio, e gli mancò il fiato.
Era davvero bellissima.
Magra e alta, indossava un vestito bianco che arrivava fino a terra. Le maniche erano lunghe e le contornavano i polsi sottili, qua e là c'erano dei pezzi in pizzo. Il tessuto le aderiva addosso, rendendola simile ad un angelo. C'era qualcosa in lei che lo affascinava terribilmente.
La sua pelle era perlacea, resa incredibilmente morbida dalla luce del crepuscolo. I capelli le arrivavano alla vita, lunghi e setosi, di un biondo che somigliava alle spighe di grano, e le incorniciavano il volto. Aveva delle labbra incredibilmente rosse, di una tonalità innaturale quanto affascinante, il naso era aggraziato e gli occhi... Il bambino aggrottò le sopracciglia.
Non riusciva a guardarla negli occhi. Com'era possibile? Ci provò e riprovò, ansioso di intuirne il colore, ma era come se il suo sguardo si rifiutasse di essere catturato. Ogni volta che la guardava dove dovevano esserci i bulbi oculari, la sua attenzione veniva catturata da qualcos'altro, come le sue clavicole magre o la vita sottile... Era impossibile, e la curiosità lo smembrava.
«Non é educato non rispondere quando ti fanno una domanda, sai?» gli disse dolcemente.
«Jonathan, mi chiamo Jonathan. Ma tutti mi chiamano Jonny.» le labbra della fanciulla si distesero in un sorriso soddisfatto, e il cuore di Jonathan batté forte. Era felice di averla resa contenta, e senza pensarci sorrise anche lui.
«E perché mai, é un così bel nome.» commentò. In un gesto elegante, si piegò verso di lui, come se avesse voluto dirgli un segreto.
«E cosa ci fai qui, Jonathan?»
«Tommy ha mandato il pallone di qua, e mi ha mandato a prenderlo...»
«E chi é Tommy?»
«É mio fratello, ma io la palla non l'ho trovata...»
«E Tommy non poteva prenderselo da solo, il pallone?» Jonathan sussultò. Nella voce della donna si era insediata una sfumatura brusca, cattiva. Già, non poteva prenderselo da solo il pallone?
Ma la nuova sfumatura nella sua voce l'aveva come svegliato da un sogno, e ad un tratto sentì freddo.
«Comunque... Io l'ho visto un pallone.» disse poi lei, e la sua voce era la stessa di prima. Calda e melodiosa, come se non fosse mai cambiata. Il tepore nel corpo del bambino tornò, e i suoi nervi si rilassarono. Chissà perché aveva avuto quella reazione, lei era così tranquilla e bellissima.
«Davvero?» chiese contento «E dove?»
«Vieni con me, te lo mostro.» e con queste parole, si alzò.
Una volta in piedi, gli tese la mano dalle dita sottili, e lui la prese senza indugio.
Quando la sua mano piccola e sudata venne a contatto con la sua, Jonathan venne turbato. Era gelida. Starà male?, pensò. Il freddo lo contagiò. Gli entrò nelle ossa della mano, e avrebbe giurato di poter sentire il suo scheletro congelarsi pian piano.
Alzò lo sguardo verso il suo volto. Gli sorrideva di un sorriso tranquillo, le labbra rosse e piene distese. E quel sorriso gli fece pensare che un po' di gelo non poteva fargli nulla.
Camminarono per un po', ma Jonathan si sentiva più stanco di prima. Le gambe sembravano pesare di più, così come la sua testa. Ogni tanto buttava un'occhiata verso di lei, e la scopriva sempre sorridente, a dimostrare il suo aspetto di angelo. Come se avesse avuto un segreto bellissimo. E qualcosa gli diceva che, se fosse stato abbastanza bravo, lei l'avrebbe reso partecipe di quell'informazione privata e allettante.
Il cielo era diventato scuro, e il sole l'aveva definitivamente abbandonato, ma non gli importava più. Guardandola, si sarebbe potuto dire che la fanciulla splendeva nel buio, come un guida fluorescente o un fuoco fatuo.
Pensò che non aveva mai visto nessuno così bello, uomo o donna che fosse. Ma, se si usava il luogo comune "bella come il sole", c'era qualcosa nella sua persona che gli avrebbe fatto dire "bella come la Luna". Possedeva il fascino misterioso della notte, e il buio non sembrava più così spaventoso se associato a lei.
Avvertiva uno strano peso all'altezza del petto. Era come se il suo corpo fosse diviso tra l'enorme sollievo del guardarla, e il terrore che sembrava ghiacciargli le ossa. La mano della fanciulla gli sembrava sempre più fredda, eppure avrebbe dovuto abituarsi. Il suo corpo infatti, cominciava ad intorpidirsi, ma era il gelo nelle membra a spaventarlo di più. Era come ricoprire un cubetto di ghiaccio con della cioccolata calda... Le sensazioni lievi che lei gli regalava non bastavano a sollevarlo da quel senso di turbamento che gli sconvolgeva l'inconscio.
Quando le gambe di Jonathan sembrarono trascinarsi e lui seppe di non poter fare un'altro passo, tirò leggermente la mano della fanciulla. Lei lo guardò.
«Manca molto ancora? Sono stanco.» si lamentò. Sentì lei dire un'imprecazione soffocata, e aggrottò le sopracciglia. Cominciava a sentirsi pizzicare gli occhi... Voleva chiuderli. Si portò la mano libera alle palpebre e se le strofinò.
«No, non manca molto. Siamo arrivati.» disse la donna che gli teneva la mano... Nella sua voce c'era ancora quella sfumatura che non gli piacque.
Con un gesto secco, fece un cenno verso un punto alla sua destra. Il pallone se ne stava appeso ad un albero, l'arancione sgargiante nella notte. Jonathan lasciò la mano della fanciulla e sentì subito caldo. Sentì tanto caldo, il gelo cominciò a lasciare le sue ossa e lui cominciò a sentirsi sudare freddo. C'era qualcosa di strano.
Si avvicinò al pallone e lo osservò.
«Come faccio a prenderlo?» chiese.
«Oh... Io ho un'idea.» sentì lei parlare, e la sua voce era definitivamente priva della melodiosa gentilezza che aveva prima. Il cuore di Jonathan cominciò a battere più velocemente.
Sentì una mano che gli toccava la spalla, e quell'innaturale gelo tornò, portandosi dietro un pizzicore in tutto il corpo che l'avvertiva che qualcosa non andava. La presa sulla sua spalla si fece più forte, sempre più forte, finché non sentì che lo stava tenendo con le unghie. Faceva male.
Si voltò, la fanciulla era chinata verso di lui. Non seppe come, ma riuscì a guardarla negli occhi. E trasalì.
Erano neri. Ma neri in un modo innaturale... Non avevano pupilla, sembravano delle cavità che lo volevano inghiottire. Vide che le labbra delle ragazza si distendevano in un sorriso che aveva qualcosa di cattivo, e non sembrò più bella. Sembrò spaventosa.
Il cuore cominciò a sentirglisi nelle tempie. Gli rimbombava nella testa e non sentiva nient'altro. Vide che lei spalancava gli occhi e gli affondava le unghie nelle braccia.
Faceva male. Faceva tanto male. E fece male finché il gelo non lo avvolse, fece male finché il terrore non lo pietrificò e il nero dei suoi occhi non lo invase.
Fece male, poi fu solo buio.
...
In una mattina di novembre, nessuno giocava vicino al cimitero con nessun pallone. Non c'erano risate o scherzi, era troppo presto comunque... Il sole quella mattina era sbucato timido, e c'era ancora l'umidità della notte che aleggiava. Faceva freddo.
C'erano poche persone in quella piazza, ma se avessero allungato lo sguardo probabilmente non avrebbero visto. Non avrebbero visto nulla.
Però era lì.
In alto, tra i rami più senza foglie, c'era una sciarpetta. Questa sciarpetta penzolava da sola, triste. Questa sciarpetta aveva quindici righe, e nove fili per entrambe le estremità.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro