17. Domande
Quando apro gli occhi mi rendo conto che sono da solo in albergo: devo aver dormito con un bicchiere di rum in mano, seduto sulla poltrona girata verso la vetrata panoramica, che stanotte era piena di luci alcune fisse, altre brillanti, molte in movimento, segnali di una città viva.
È presto, ma vorrei usare bene la giornata, quindi esco subito. Davanti all'hotel c'è un'auto della polizia con appoggiati sul cofano il detective e un poliziotto rossiccio in divisa, col cipiglio e una sigaretta puzzolente fra le dita.
Il detective sta imprecando contro il telefono, non riesce a fare qualcosa, però quando mi vede smette e mi fa un cenno:
- Vieni qua!
Mi avvicino, mette via il telefono, mentre l'altro dice sbuffando fumo puzzolente:
- I taccuini di una volta, quelli sì che funzionavano sempre.
Lo dice serio, ma lo sguardo che vuole essere cattivo manca di spessore sotto i capelli arancioni ricci. Sembra più che altro un bullo e la divisa leggermente stazzonata non ne migliora l'aspetto.
- Il sergente McCoy qua - e fa un cenno al poliziotto in divisa - dice che non vi ha mai visto nel suo quartiere, Dumbo.
- Certo, vi ho detto che sono appena arrivato da Milano.
- Sì, e anche che la signora non era con te, che vi siete incontrati al ristorante.
- Sì?
- Non lo neghi, vero? Come lo spieghi che anche lei dice di essere casualmente appena arrivata? Anche lei da Milano?
- Il caso, appunto.
Il detective stringe la mandibola visibilmente, McCoy a lato si sta infilando due dita sotto la guancia a cercare qualche residuo di cibo fra i molari.
- Dei dudderidde che di diede... incontrati per caso? - l'inglese senza vocali è non intelleggibile all'inizio, poi tira fuori le dita dalla bocca e finisce in una frase chiara, mentre esamina il filamento di cotenna estratto.
Non rispondo, visto che non c'è altro che posso aggiungere, il detective dice:
- Ho controllato e ho scoperto che la tua amica intrattiene contatti e contratti con aziende sospette. Invece tu cosa mi nascondi?
- Vi ho detto che sono qui in vacanza e per fare un favore personale ad un amico.
- Chi di voi due deve saldare un debito da queste parti? - insiste il detective.
- Nessun debito, che io sappia - Stringo le spalle, saluto e faccio per andarmene per la mia strada.
- Aspetta ad andartene, ho una domanda: cosa ci facevi dieci anni fa a Manhattan? - fa il tipo in divisa con un dito puntato, ancora luccicante di unto.
Una decina d'anni prima eravamo arrivati ai ferri corti, anche se diplomaticamente gentili, con la famiglia italoamericana. A parte la disponibilità a parlare con loro come se lo sbarco commerciale in sicilia fosse non solo possibile ma anche auspicabile, il mio mandato era di farli cadere in dubbi e dissuaderli.
Li avevamo incontrati una seconda volta, sempre nello stesso posto. C'era più gente e quelli nuovi erano visibilmente arrabbiati con i loro compagni perché erano stati tenuti all'oscuro, inizialmente.
Quindi, riassumendo, l'operazione era auspicata dai due giovani emergenti, gli anziani invece erano contrari soprattutto perché non gli era stato anticipato niente.
La seconda riunione fu quasi divertente: io fingevo di essere d'accordo con chiunque parlasse, ma in realtà ritornavo sempre sugli argomenti di quelli più dubbiosi, sorvolavo sulla lista dei vantaggi, paventavo una serie di problemi amplificando dicerie e paure.
Insomma lasciammo più caos di quanto ne avevamo trovato: eravamo così su di giri che uscendo Tano mi propose di andare a festeggiare nel pub più vicino.
Ma non avevamo alzato i boccali di birra che si presentarono i due emergenti: a farla breve, accettavano la sconfitta, ma volevano misurare a chi durava di più a pugni.
La serata fu memorabile, ce le demmo di santa ragione, nessuno chiamò la polizia, ma quando il locale era ormai distrutto e le nostre facce troppo gonfie intervenirono i ragazzi della famiglia. Pagarono il proprietario del locale, raccolsero i loro due compari e ci chiamarono un taxi per l'aeroporto.
- Io? non ricordo bene, ci sarò venuto in vacanza - stringo le spalle, ma in realtà a quel tempo avevo un nome diverso e un'identità ormai sparita. Ma questo poliziotto come la conosceva? I miei dati veri saranno stati conservati in qualche pratica burocratica? Forse era girata qualche informativa?
Lo guardo negli occhi, lui ritira il dito unto, ma non aggiunge altro, solo lo sguardo torvo. Alla fine mi giro e riprendo la mia strada.
L'aria frizzante della mattina è animata di ciuffi di vapore che esce dai tombini, e i marciapiedi sono pieni di fattorini con carrelli di giornali, ceste di pane, casse di bottiglie di latte.
Ho preso la metro per raggiungere il residence degli studenti del giorno prima. Mi chiedo come diavolo sia finita la serata a Tina, non ho ricevuto nessun messaggio e di sicuro non gliele ne mando io. Magari più tardi.
Arrivo in zona e faccio un giro attorno all'edificio: voglio solo assicurarmi che il ragazzo stia bene per tornare a Milano e rasserenare il padre. Quando vedo uscire qualcuno dal portone di vetro, mi infilo prima che si chiuda. L'ingresso è un po' malmesso, ci sono scale che portano sia sopra che sotto.
Vicino all'ascensore trovo una tabella con indicazioni del tipo che nel seminterrato ci sono lavanderie, palestra e anche una mensa.
Vado sotto, c'è giá viavai nonostante sia ancora presto. Nella mensa c'è un bancone self service con montagnole colorate, mi avvicino e scopro essere di uova strapazzate, di strisce di bacon, pancake, donut, muffin. Salto tutto e vado diritto al caffè, che è del tipo tazzona da mezzo litro, profumato e brodoso come deve essere da queste parti.
Superata la cassa, entro nella sala dei tavoli dove ci sono già alcuni gruppetti di giovani. Me ne trovo uno all'angolo e aspetto di vedere se il figlio visconteo passa a far colazione.
Dopo quasi un'ora lo intravedo in un gruppetto, si affaccia alla porta in mezzo ad alcuni bellimbusti e una ragazza. Mi vede, scambia due parole con gli altri e rientra subito indietro sparendo dalla vista. I rimanenti giovanotti palestrati si girano, mi puntano e vengono al mio tavolo, occupando tutte le sedie libere.
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