23. La Possibilità Dell'Impossibile Pt. III
L'animo tormentato di Ariel aveva una compagna a Filadelfia. Lucia non riusciva a svegliarsi dal sonno disturbato che aveva caratterizzato quella notte.
Le lenzuola erano disordinate ai piedi del letto, la finestra spalancata lasciava entrare un soffio caldo e avvolgente che riusciva a spostare la tenda velata. Dopo essersi girata e rigirata, alla ricerca di una posizione comoda, con rapidi gesti delle braccia tolse via anche il cuscino, per poi mettersi seduta, ansante e con gli occhi ancora chiusi.
Un sogno la disturbava. Immagini confuse, sbiadite, le vorticavano davanti.
«Basta! Ti prego!»
Quella visione le stava provocando gravi capogiri, capaci di farla cadere sul pavimento se non si fosse ancorata al materasso. Per molti minuti, non riuscì ad aprire gli occhi per tornare alla realtà.
Nella visione, un violento boato sembrò romperle i timpani, tant'è che dovette portare i palmi alle orecchie. Un fumo grigio seguì il rumore e le annebbiò la mente, mentre le immagini caddero al suolo, come foglie di un albero mosso dal vento. Erano fogli bianchi, che una volta poggiati al pavimento, lo coprirono come un tappeto; si piegò oltre il bordo del letto per osservare meglio e su ogni carta era incisa solo una parola, un nome, per l'esattezza.
Si sporse di più per cogliere uno dei fogli e, nel leggere, lacrime calde sgorgarono dai suoi occhi verdi, che apparivano ancora chiusi.
Il nome di Joshua riempiva il pavimento della sua camera, diventata una stanza senza pareti e inondata da una luce bianca, innaturale e gelida.
Dei passi riecheggiavano in quell'ambiente illusorio. Un ragazzo si posizionò di fronte a lei: vestito di un paio di pantaloni scuri, una maglietta bianca, sporca di sangue, e un mantello nero sulle spalle. Aveva gli occhi azzurri e i capelli neri incorniciavano un viso simile a quello di Acab. Il giovane di fronte a lei era malridotto, contuso, e, in ginocchio, con uno sguardo implorante, le chiedeva perdono.
«No. Mai!» gridò.
Quell'urlo rabbioso destò Heliu dal suo sonno profondo. Si sedette, prima di poggiare i piedi nudi sul marmo delle mattonelle e si strofinò gli occhi con i palmi delle mani sudate. Si alzò, e, dopo qualche passo lento, avvicinò la mano alla maniglia della porta, ascoltando l'ambiente circostante prima di aprirla. Già altre volte si era trovato in quella situazione, perciò, prima di uscire dalla sua camera, attese l'arrivo di uno dei ministri di Simon. Dopo tutto, non propriamente vestito, si sarebbe ritrovato nella stanza della ragazza chissà in quale condizione. Gilbert aveva il turno in ospedale e non sarebbe tornato prima dell'ora di pranzo, Simon era a riposo e, forse, nessuno, a parte lui, aveva sentito l'urlo di Lucia.
Decise di far scattare la serratura e percorrere il corridoio a piedi scalzi, con i pantaloncini da mare e una canottiera bianca, girandosi indietro di tanto in tanto.
Lucia non era molto distante, le camere erano posizionate su uno stesso piano e gli bastò percorrere qualche metro per trovarsi di fronte alla porta della giovane.
Si voltò un paio di volte, con i muscoli tesi e lo strano presentimento che quel che stava per fare non era del tutto secondo le regole del Centro.
Avvicinò l'orecchio al legno e tentò di capire se la situazione fosse davvero critica.
«Non sei altro che un demone. Vai via! Ti odio!» le urla stridule, gli bloccarono il respiro.
Decise di tentare. Aprì la porta lentamente, analizzando la situazione dall'esterno, ma quando la vide accartocciata su se stessa, con la fronte appoggiata al materasso e i tremori muscolari che preannunciavano una convulsione, si fiondò ai piedi del suo letto per cercare il contatto visivo. Si piegò sulle ginocchia «Lucia...» le sussurrò. «Lucia, sono qui.»
Posò il suo palmo sulla guancia innaturalmente gelida della ragazza, ma una voce autorevole e profonda gli bloccò gli arti e gelare il sangue.
«Non toccarla. Spostati. Adesso.»
Nathan era posto sulla porta e lo fissava con sguardo truce e pugni stretti. Heliu si girò lentamente e per non incontrare subito il suo sguardo di fuoco, camminò a occhi bassi; via via che si avvicinava inquadrò le sneakers basse e scure, i jeans chiari e quando arrivò al busto notò il petto alzarsi e abbassarsi in maniera irregolare dentro una maglietta nera. Un profondo senso di terrore lo fece drizzare rigido, quasi sull'attenti nell'incontro con quegli occhi minacciosi. Il ragazzo fece aprire la bocca, per giustificarsi, ma il ministro lo anticipò e, a denti stretti, gli ordinò: «Non una parola. Esci.»
Nathan non gli staccò gli occhi di dosso mentre Heliu lo oltrepassava per uscire e, a giusta distanza, gli bloccò il braccio.
«Guardati dal toccare nuovamente un'anima che ha bisogno di liberazione invece che di una umana consolazione!» Heliu sbarrò gli occhi, aumentando la frequenza del respiro; in fondo, aveva avvertito qualcosa di strano. La presa di Nathan si fece più vigorosa. «La prossima volta, chiama un Mandato, stupido!»
«S...Sì» boccheggiò l'altro.
«Ora informa Simon. Corri.»
Lo seguì con lo sguardo mentre si dirigeva verso le scale di corsa. In cuor suo, Nathan sperava che l'amore che quel giovane incosciente provava per Lucia non lo avesse portato a collegare lo spirito carnale a quello maligno della ragazza; sarebbe bastato il tocco di un cuore aperto e vulnerabile per far sì che il demone passasse da un'anima all'altra e creare un collegamento di morte.
Rimase sull'uscio, aspettando l'arrivo di Simon, ascoltando la mente pervasa da pensieri preoccupanti.
***
Per un tempo indefinito, Acab poté osservare le labbra di Ariel, così vicine alle sue da riuscire a vedere le increspature della pelle secca e fondere il respiro nel suo; dietro di lei, il buio impenetrabile da cui erano riusciti a scappare, fino a quel momento, indenni. Quel buio li tenne stretti, per chissà quale ragione.
Ariel attese, percorrendo con lo sguardo le linee invisibili che delineavano i contorni del viso di Acab; la saliva inesistente e il suo respiro affannoso solleticava le labbra aride.
«Tu...» cominciò Acab, quasi non riuscisse a comporre quel concetto che aveva mosso le sue azioni fino a quel momento. «Tu sei stata la mia rovina...» a denti stretti, chiuse gli occhi e si bagnò le labbra, mentre quelle parole avevano prodotto spilli acuminati nella schiena di Ariel, che tentò di allontanarlo da sé, facendo una leggera pressione con i palmi sul suo petto. «Però...» stringendola con più vigore per farla partecipe di un battito incontrollato «...In te, c'è la luce della mia redenzione.» Concluse, poggiando il mento sul suo capo.
Ariel non riuscì a trovare la forza di rispondere o di ribattere, ma gli fece capire che, forse, in qualche modo, aveva ragione. Se quelle parole fossero state reali, sicuramente avrebbe avuto una buona possibilità di redimersi.
"Non basta essere portatori luce."
Ariel ricordò una delle ultime prediche di Simon.
"Bisogna essere luce. Amarci gli uni gli altri, come Gesù Cristo ci ha amato, ci fa diventare luce."
Si trovavano su due gradini, l'uno su quello più alto, l'altra su quello più basso e, improvvisamente, sentendo che la presa di Acab si allentava, percepì un senso di vuoto dietro di lei; lui la tenne dalle braccia e si piegò sui talloni, con occhi bassi.
Per Ariel era tutto troppo surreale. Da quando aveva compiuto l'azione di colpire a morte il padre, Acab non sembrava più lo stesso.
In fondo, come avrebbe potuto esserlo?
Lei non poteva saperlo ma - nei piani di Acab- una volta piegato in ginocchio, lei avrebbe visto le serpi e, nello stesso momento, lui si sarebbe offerto alle fauci dei rettili, permettendole la fuga.
«Acab.» Lo chiamò, con voce ferma. Lui alzò lo sguardo, perplesso alla vista del suo muso duro. «Ancora non mi hai detto cosa sta per succedere e perché dovrei perdere la vita a causa tua...» disse d'un fiato, stanca di aspettare il compiersi dell'ignoto.
Alla fine, anche la morte sarebbe stata un'ottima via d'uscita a quell'inferno. Dopo tutto, lei aveva la certezza che Gesù Cristo l'avrebbe accompagnata nell'eternità; ma perché Acab aveva usato quelle parole, non le era dato saperlo.
Lui si girò di scatto e vide le serpi avvicinarsi alla sua schiena, pronte a sputare veleno. Sapeva di aver detto quella frase per prepararsi all'eventualità che il suo piano non fosse andato a buon fine. Quegli animali erano stati un inconveniente del tutto inaspettato.
«Ne ho abbastanza!» esclamò, perentoria Ariel, prima di muovere un passo per oltrepassarlo, ma al sentire la sua stretta alle gambe per impedirle il passaggio, ebbe un crollo di nervi. Lo spinse malamente alla parete con un movimento brusco e gli urlò: «Smettila! Non c'è niente, Acab! E' la tua mente! E' la tua mente!»
Lui sbarrò gli occhi, e, sbigottito, schiuse le labbra per proferire suono, ma non riuscì ad articolare alcuna parola.
Ariel non seppe spiegarsi il motivo della reazione che aveva appena avuto; sapeva solo si aver udito il timbro di una voce familiare, oltre il portoncino di ferro che svettava alla fine dell'ultima rampa di scale.
In un paio di sorrisi nervosi, Acab fissò lei e poi le scale, per poi chiederle: «C...Come hai fatto a farle andare via? Non hai nemmeno usato il Suo Nome...» farfugliò «T...Tu.» e, in un misto di gioia e terrore, giunse ad una conclusione: «Tu sei il Leone di Dio.»
Acab rivolse lo sguardo un'ultima volta al punto in cui vi erano solo cinque gradini di cemento. Tornato sui suoi occhi marroni, le regalò un sorriso, pieno, ampio, di chi ha la felicità tra le dita. Quella curva nel suo viso - così diversa dai precedenti - provocò un profondo turbamento nel cuore di Ariel, come una scossa di terremoto a un palazzo già instabile.
Poi, in un istante, quella voce familiare udita poco prima, divenne fin troppo riconoscibile.
Nathan...
Un pensiero e le gambe di Ariel percorsero quella rampa saltando gradini, per poi bloccarsi di fronte alla porta: l'emozione le faceva tremare le mani e tutto il suo essere venne come irrigidito. Fu la spallata di Acab a permettere l'accesso a quello che Ariel, in un lancinante colpo allo stomaco, riconobbe come il Pub Lithium.
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