Capitolo 18. O-me-cidio
Quello a cui non sono stato preparato, perché nessuno l'avrebbe mai immaginato, è che avrei guardato in faccia la morte. La mia morte. Quando la progettavo in dettaglio tenevo in considerazione anche l'aspetto del ritrovamento del mio corpo, e cosa ne sarebbe stato. Forse è stato il freno più potente alla mia spinta suicida. Adesso, a meno di un metro, va in scena il macabro e spaventoso spettacolo che volevo risparmiare ai miei cari. Escludendo le testimonianze pre-morte e esperienze extracorporee (tutte cose di cui ridevo, fino alla settimana scorsa, ma che ora mi sembrano delle innocenti storielle più che plausibili, rispetto a ciò che sto vivendo) credo di poter dire, senza peccare di presunzione, di trovarmi in una situazione senza precedenti. Questo mi rende una persona davvero speciale nel mondo? O solo molto sfortunata?
Mi volto appena verso Serio, senza alzarmi né dire nulla, come se restare immobile e in silenzio potesse congelare anche il tempo e tutto lo scenario fuori controllo che ho intorno.
Liberato dalla scarpiera che lo schiacciava e nascondeva, ora mostra tutta la sua sofferenza, anche solo per respirare: il suo torace sembra gonfiarsi molto meno di quanto dovrebbe e, quando si svuota dall'aria, un rantolio lascia intendere l'entità del dolore delle sue fitte. Eppure, nonostante tutto, ha ancora la forza per provare a parlare, anche se tutto ciò che dice è sempre e soltanto: «Sonia».
Mi ci vuole una bella dose di coraggio per spostare lo sguardo su quello che prima era la mia faccia; innanzitutto, si tratta pur sempre del mio viso e non vorrei guardare un me stesso sfigurato e tumefatto mentre crepa tra atroci sofferenze. In secondo luogo, mi sento in colpa: sono pur sempre io che l'ho ferito a morte, anche se accidentalmente. Questo mi porta a un'altra duplice considerazione:
1. Lui non ha avuto scrupoli nell'affondare un coltello da cucina nel mio fianco, perché invece io ora mi sento responsabile di quello che gli è successo?
2. Quindi, diversamente da quanto sperassi, deduco che non sia il senso di colpa ciò che ho perso stavolta. Ci ho provato.
Colpa a parte, l'odio che provo per lui, per ciò che mi ha fatto, dovrebbe ricevere nutrimento da questa scena ora, rendermi felice. Dovrei sentirmi soddisfatto; ma forse provare odio è incompatibile con la felicità, non è solo semantica, le due cose non possono coesistere.
"Ammazza quel figlio di puttana", diceva Sclero poco fa; il mio desiderio di vendetta invece è più debole, sfocato rispetto al suo, così come la mia capacità di provare rancore, a quanto pare. Forse è rimasto tutto quanto a lui. E di questo credo di potergliene essere grato.
«Soni... a», rantola un'altra volta, consapevole di essere in punto di morte. Gli sono così vicino da vederlo chiaramente piangere nonostante il buio. Dolore fisico? Tristezza?
«La ami così tanto?» chiedo. Non voglio sapere cosa stia provando o pensando; preferisco fargli questa domanda retorica, più per palesare la mia presenza nel regno delle persone sveglie, che per avviare una vera conversazione.
Lui prova comunque a rispondere, ma una specie di tosse compulsiva gli porta via le parole e il fiato. Solo quando si riprende annuisce tristemente. A rendere triste il suo gesto è un'altra lacrima che dall'angolo dell'occhio vedo cadere a terra. Davanti alle sue lacrime, che sono anche le mie lacrime, incredibilmente mi sembra di ricordare: ho già pianto per lei. Lei ha pianto per me. E io per lei.
Il buio che investe ciò che è a più di un metro da noi sputa fuori Manuel, allarmato dalla tosse del mio compagno di branda. Dopo che gli altri due ci hanno portato qui, deve averci presi e sistemati in quest'angolo, dove sembra esserci davvero una brandina, ceduta a Serio, tra i due. Forse lì Manuel gli ha prestato le prime cure. Gli si avvicina e sembra dispiaciuto delle sue condizioni, forse più perché non gli piace vedere gli altri soffrire, piuttosto che per vero dispiacere per lui. Sì, sembra quel genere di persona. Qualcosa emette una luce tremolante, vicino noi, come se provenisse da una piccola candela; ne approfitto per guardare meglio il viso di Manuel, rispetto a poco fa, mentre lui è intento a valutare lo stato di salute di Serio. Ha un'espressione gentile, occhi buoni su un viso segnato dal tempo e una vita dura. Dimostra molti più anni di quanti credevo ne avesse, anche se mi rendo conto solo ora che non ho ancora quantificato il rapporto tra il tempo passato qui e nel mondo oltre il portale. Poco fa mi ha fatto un'impressione diversa, mi è sembrato più rude e sarcastico, nel suo modo beffardo di esprimere la sua intenzione di aiutarmi. Pochi istanti dopo dal buio viene fuori un'altra figura, che riconosco immediatamente: è il nuovo arrivato.
Fa un piano sequenza con lo sguardo che ci prende tutti, poi punta verso di me e mi tende la mano. Non sono ferito, non c'è bisogno che mi aiuti ad alzarmi, sto solo seminando sale come Ulisse per non andare in guerra, sto solo schiacciando dei pisolini nella forse vana speranza di riprendermi, rimettermi in forze e magari svegliarmi prima o poi da questo lungo incubo. Perdo i sensi per nascondermi, qualcuno direbbe che sono "un cazzo di opussum".
In realtà lui non mi pare interessato ad aiutarmi a rialzarmi, sembra piuttosto che abbia intenzione di presentarsi. Mi stringe la mano nella sua, appena gliela porgo, e mi propina un sorriso rassicurante e fiero. Non sono poi così male visto così. Provo a sorridergli di rimando, ma sento il viso tirarsi in una smorfia innaturale. Questa parte la lascio a lui.
«La situazione si è complicata in fretta. Comunque vi ho portati qui in tempo, e di là non c'è nulla per cui preoccuparsi» chiarisce.
Termine appropriato, perché la sua voce è super limpida, pulita, decisa.
«Eh sì.» È la mia classica frase-risposta-quando-non-so-che-cazzo-dire.
Mi leva dall'imbarazzo spostando lo sguardo verso Serio, poi nuovamente su di me, dritto negli occhi. «Lo farei io, davvero,» stranamente gli credo subito, «ma non posso, devi essere tu a farlo.» E senza lasciarmi la mano destra, con l'altra mano mi porge un coltello con l'impugnatura rivolta verso di me. Ma questi hanno davvero una fissazione per le lame! Non capisco subito cosa si aspetta che io faccia, e perché mi sta porgendo l'arma; lui intuisce la mia confusione e con un cenno della testa indica Serio.
«Lo devi fare tu», ribadisce.
"Ammazza quel figlio di puttana", rincara la dose l'eco di Sclero nella mia testa.
"Sclero era il porcellino che ha costruito la casetta di paglia... Tu, Stanco, il porcellino che ha costruito la casetta di legno. E io, si capisce... Si capisce che io sono il porcellino che ha costruito la casetta di mattoni!" Riaffiora la voce di Serio adesso, e con lei l'atroce dolore provato, la paura, il sapore di morte e la convinzione di non svegliarmi più dopo aver chiuso gli occhi. Niente tecnica da opossum, nessun riavvio questa volta, gameover.
"Lo devi fare tu", il nuovo arrivato.
"Stiamo per morire..." il pianto di Strazio.
"Devi recuperare le bambole più piccole nell'ordine in cui sono saltate fuori, capisci?" le vaghe spiegazioni di Manuel. "Devi partire dal primo."
Eccolo qua il primo, steso su questa specie di branda, a rantolare dopo essere stato schiacciato sotto un mobile. Ed eccomi accanto a lui, la matriosca più grande, prendere un coltello dalle mani della matriosca più piccole di tutte, e avvicinarmi a lui, che mi guarda e sorride aspramente mentre mi avvicino, arma in mano.
«Sembra che io non sia il porcellino che ha costruito la casetta di legno, sembra che alla fine io debba essere il lupo.» Ironizzo, faccio un po' il duro, ma me la sto facendo sotto. Devo davvero uccidere un uomo? Devo uccidere me stesso? Se questa non è qualcosa che manderebbe fuori di testa una persona allora non so più cosa potrebbe farlo!
Nessuno mi ha spiegato perché, cosa dovrebbe succedere dopo, come mai sia l'unico modo funzionante. E se fosse un errore? E se stessi peggiorando le cose? Di certo questo individuo è pericoloso; se non lo uccidessi sarebbe lui a uccidere noi, uno alla volta?
Ma chi è dei due che sta impugnando un coltello adesso? E chi dei due è sdraiato, indifeso, ferito? Non è forse una questione di prospettive, come sempre?
Serio non sembra preoccupato, anzi direi che è piuttosto sollevato, come se mettere fine alle sue sofferenze sia un favore, un gesto compassionevole nei suoi confronti.
Guarda alle mie spalle e sorride ancora, debolmente. Prova a parlare ma la tosse lo blocca di nuovo; riesce solo a dire: «Tanto anche tu...» rivolto al nuovo arrivato.
Sì, anche lui: toccherà anche a lui alla fine. Allora perché è così collaborativo? Se sa già che ciò che sto per compiere è solo il primo anello di una catena di eventi che porterà anche alla sua, di morte violenta, perché è quello che mi passa il coltello e mi incoraggia a farlo?
Mi volto nella speranza di leggergli in faccia la risposta alla mia ennesima domanda che, come tutte le altre che la precedono, so già che resterà fastidiosamente irrisolta; infatti, lui mi guarda con un eloquente sorriso soddisfatto e fiero, da cui non si capisce granché. Avrà capito cosa dovrò fare? O il nome di questo qui è Scemo?
«Devi farlo prima che se ne vada da solo» chiarisce Manuel.
«Perché?» Finalmente mi sveglio da questo strano torpore mentale in cui mi mettono in mano armi che dovrei usare su altre persone, se così si può dire.
«Perché è così che va fatto» spiega e non spiega lui, come suo solito.
«Sì, ma perché?»
«Perché altrimenti non funziona.»
«Che cosa non funziona, dimmi di più, cazzo! Non mi metterò a pugnalare qualcuno solo perché tu mi dici che devo farlo!»
«Se vuoi tornare integro devi farlo. Non è qualcuno, è parte di te. Non sarai un assassino perché dopo tu sarai ancora vivo a tutti gli effetti.»
«Semantica», ribatto prontamente: avevo già questa parola in mente, era già lì, a portata.
«E poi tu cosa ci guadagni ad aiutarmi? Non mi sembra di avertelo chiesto» aggiungo indietreggiando di un passo.
«Io non ci guadagno niente, te lo assicuro. Io ero come voi, ti aiuto perché è giusto così.»
«Suo padre...» rantola Serio. Forse dovrei davvero finirlo, le sue condizioni e sofferenze peggiorano in modo evidente, non arriverebbe vivo al pronto soccorso più vicino, quello dove ho lasciato l'appendice.
Suo padre, dice. Deve avere a che fare con gli articoli che ho letto riguardo il varco, riguardo Manuel, la sua scomparsa; non riesco a focalizzare più di così, e sono sicuro che non avrò nessuna informazione in più direttamente da lui.
«... colpa.»
Ripercorro il passo che mi separava da Serio e mi inginocchio davanti a lui. Non ho il coraggio di fare ciò che mi viene chiesto, mi trema la mano, nonostante lui ora mi stia guardando con aria supplichevole.
Non lo farò, ho deciso. Cercherò di capire cosa stia cercando di dirmi e poi aspetterò la fine con lui. Se deve morire che muoia, ma non per mano mia.
«Lei...» Intende Sonia, sapevo che il suo ultimo pensiero sarebbe stato per lei.
«Solo lei...» continua a fatica, «non noi...»
Poi si spegne, credo per sempre.
È morto? Così? Lasciando a metà una frase del genere? Mia madre sarebbe fiera di lui, il figlio perfetto. Che sollievo non dovere essere io a farlo!
«... Completo...» termina dopo mezzo minuto buono di silenzio in cui davvero non ha respirato e noi abbiamo quasi trattenuto il respiro insieme a lui, senza smettere di guardarlo.
Okay, credo di aver capito, ma per sicurezza mi chino su di lui per ripetergli la frase intera, in modo che possa annuire, se giusta.
Sono proteso su di lui quando una mano va a mettersi sopra la mia che stringe ancora il manico del coltello, e con una forza almeno doppia di quella che ho io, in un unico lento e sicuro movimento, sferra un colpo al petto di Serio, sul cuore.
Eccolo il coraggio che prima mi mancava: è una mano identica alla mia, sopra la mia, sopra un coltello conficcato nel petto di una persona. Il nuovo arrivato non è Scemo, è Sicuro. Sicuro che io non avrei avuto il coraggio di fare una cosa del genere, perché il già poco coraggio che ho sempre avuto nella vita, ora è suo.
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