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Capitolo 10. Stallo

«Quindi ogni volta che ho attraversato quella maledetta tana per topi ho perso una o più parti di me?»

«Qualcosa del genere; magari non del tutto perse, ma si sono sbiadite di molto.»

«E tu e quell'altro...»

«Quello con il coltello» precisa lui.

«Sì, tu e quell'altro ve le siete prese e ne avete fatto cosa? Il vostro tratto distintivo?»

«No, semplicemente quello che tu hai lasciato, in noi si è sviluppato di più. Abbiamo le stesse cose che hai tu: i ricordi, le emozioni, le esperienze; però gli aspetti della tua vita che hai lasciato indietro si sono presi in noi più spazio di quanto gliene concedevi tu.»

«Come Sonia?»

«Come Sonia» risponde con decisione, ma sembra un po' infastidito dal fatto che io continui a nominarla, «o la tua rabbia. Anche se spero che di quella te ne sia rimasta abbastanza, preferirei non vederla tutta concentrata in un solo individuo, sarebbe...» lascia la frase in sospeso, voltandosi verso la porta della cucina, alludendo al portale e, ovviamente, all'uomo con il coltello, al me armato e rabbioso.

«Sarebbe un bel casino» concludo io.

«Già.»

Chiacchierare con lui ora non mi sembra nemmeno male come all'inizio, mi trasmette un po' di calma e serenità, forse perché ho perso del tutto la tendenza a stressarmi e agitarmi, se ho ben capito. Poi penso a me che in preda al panico vomito sulle mie ciabatte e capisco che, per quanto io possa evitare di agitarmi, la tendenza a stressarmi è invece ancora qui con me.

Il mio problema adesso è capire quali altre parti del mio essere siano rimaste incastrate di là e in che modo il tizio in ciabatte e il tizio con il coltello le abbiano prese e fatte loro. E se avessi smarrito frammenti importanti della mia personalità e della mia vita? Quella ragazza, Sonia, ad esempio mi sembra una parte consistente della mia storia personale. Se avessi dimenticato familiari, passioni, eventi importanti?

L'altro me mi ha detto di volere fare una doccia e vestirsi.

«Fai come se fosse casa tua.» Ho provato a scherzarci su, ma ho sorriso solo io. Lui mi ha guardato serio, poi si è diretto verso il bagno. Pochi secondi dopo ho sentito il suono del mio rasoio.

È notte, noi stiamo letteralmente andando in pezzi, ci aspettiamo che arrivi da un momento all'altro una nostra versione super incazzata e armata (seppure con un coltellino svizzero buono forse soltanto a tagliare del formaggio e stappare una boccia di vino) e lui che fa? Pensa a farsi la barba! Un attimo, ma io non ho mai la barba. Nemmeno quando sono saltato nel portale la prima volta avevo la barba.

Raggiunto in bagno, lo guardo nel riflesso dello specchio.

«Quando hai detto di aver comprato le sigarette e quell'accendino?»

Spegne il rasoio e si volta lentamente verso di me, infastidito e quasi spazientito per l'interruzione. «Un paio di settimane fa.»

«Ma non sono passate un paio di settimane.»

«Forse non per te.»

Perché ho bevuto la birra? Perché con Sonia, con la rabbia, con la concentrazione e lucidità mentale e con qualsiasi altra cosa mi sia stata strappata, non ho perso anche questa sensazione di contorcimento di budella ogni volta che non so come far fronte alla realtà, per quanto assurda sia? A ogni dettaglio che si aggiunge vedo la comprensione del quadro generale che si allontana da me. Però questa volta mi sembra di aver capito: «Quindi di là il tempo passa in modo diverso?»

«Sei sorpreso? Eppure, lo sospettavi già, ti ricordi del terzo topolino? La sua ferita alla zampa sembrava già in via di guarigione, era diversa dalla ferita del primo e del secondo topo, anche se non a livello razionale, lo avevi già capito.»

«Sonia3.» Questo me lo ricordo, è scritto sulla mia agenda.

Appena io pronuncio il nome che ho dato al topo, lui sorride.

«Perché ridi?»

«Niente, pensavo...»

«Pensavi a lei, vero? Non mi vuoi aiutare a ricordarmi di lei? Non mi vuoi ridare ciò che è mio?»

Il suo volto, se possibile, diventa ancora più teso e la sua espressione si trasforma a tal punto da farmi sospettare che anche la mia rabbia ce l'abbia lui.

«No» risponde perentorio. «E comunque non è una cosa tua, non più. Adesso scusami ma devo finire di preparami per uscire.»

Uscire? Ma è impazzito?

«Senti,» provo a prenderlo con le buone, «questa cosa da cartone animato Inside-out, dove c'è la rabbia, la tristezza...» Faccio mente locale, ma non ricordo gli altri personaggi, solo quello rosso e quella azzurra. Lui viene ovviamente in mio soccorso, non può perdere l'occasione per fare una precisazione, e aggiunge: «Gioia, Disgusto e Paura». Sicuramente Disgusto è ancora in me insieme a Paura. Quanto a Gioia, ho il sentore che sia andata via da un pezzo, forse persino prima che tutta questa stramba storia avesse inizio.

«Sì, loro. Comunque, questa storia dove ogni emozione ha un suo personaggio, a me sembra un po' pericolosa e credo che separarsi non sia una buona idea.»

«Ah, quindi se dovesse arrivare quell'altro vorresti che ci trovasse qui entrambi? A che pro?»

«Beh, tu sembri il più ragionevole, se è davvero incazzato come dici potresti aiutarmi a tenerlo calmo, potremmo fare squadra tutti insieme e capire come uscire da questo casino.»

Mi guarda dritto in faccia e restiamo un paio di secondi così immobili da avere la confortante illusione percettiva di trovarmi davanti a uno specchio. Purtroppo dura poco, perché le mie labbra sulla sua faccia riprendono a muoversi in modo inquietante: «Ma io non voglio risolvere questa situazione».

Dal tono che usa più che una confessione sembra voler ribadire un concetto che dovrebbe essermi ovvio, ma che io sembro cogliere completamente solo quando lo confessa chiaramente: «Questa è la mia occasione per rimediare alle stronzate fatte, alle decisioni sbagliate prese. E poi non è come il cartone animato, quelli erano nella testa di qualcuno, io mi sto facendo la barba a casa mia, è diverso».

«A casa mia» lo correggo. Almeno questa precisazione me la deve lasciare.

«È tua quanto mia.»

«Beh, no. Io sono l'originale, tu sei il clone.»

Per un attimo sembra ridere di me, poi torna serafico: «Abbiamo appurato quasi due ore fa che non sono un clone, ma che ero te finché non sono stato più te. Ed ora sono solo me. Questa però rimane casa mia, come lo era prima lo è adesso.»

«Sì ma non possiamo vivere qui insieme, lo capisci, vero?»

«Ok, allora prendi metà della roba e vattene. Capisco che per te ci voglia del tempo per elaborare tutto, ma a me non serve, ho già pensato abbastanza a tutto quanto.»

Bene, a quanto pare il mio fantomatico omino rosso basso tracagnotto e con la cravatta non è andato via del tutto, perché sento un certo nervosismo tradursi in formicolio alle mani. Ho seriamente voglia di levargli quell'espressione da gelido cyborg dalla faccia. Peccato che l'altro arrivi prima di me.

«Lo sapevo che vi avrei trovato qui a succhiarvelo a vicenda!»

La sua voce somiglia alla mia e quella del tizio in ciabatte, ma in una tonalità più alta, come se non si rendesse conto di essere in un condominio in piena notte, o semplicemente non gliene fregasse niente. È in tuta, e la sua torcia sulla fronte inizia a lampeggiare pochi secondi dopo aver messo piede nella stanza. Mi sto chiedendo come facesse a sapere che avrebbe trovato me e l'altro insieme, quando anche il suo telefono, proprio come la torcia, si accende improvvisamente.
Bene, penso, ho scoperto che si può sdoppiare uno smartphone: se mi fossi limitato a quello ora sarei già sulla via della ricchezza. Guardandolo meglio mi accorgo che la mia tenuta da esploratore era davvero ridicola e ringrazio il cielo per non aver trovato nessuno dall'altro lato del muro.

Il tizio con il coltello sblocca lo schermo e sembra voler fare una telefonata: chiunque stia chiamando sembrerà che sia io a farlo.

«Chi stai chiamando a quest'ora?»

«Quella stronza della mia ex», risponde secco. Non con la stessa freddezza quasi inespressiva dell'altro, più come se volesse farmi capire che non sono affari miei, mi sta rispondendo solo per pura forma.

«Sonia?» Si fa avanti il tizio in ciabatte, mentre io resto immobile tra i due. È già tanto che non stia vomitando, sudando, perdendo i sensi.

«Sì, e allora? Ho dei conti in sospeso con un po' di persone e lei è la prima della mia lista.»

Chiude la chiamata, andata evidentemente a vuoto: «Ah già, lei e la sue fisse del cazzo di spegnere sempre il telefono per dormire».

Strano, lo faccio anche io. Per un attimo questo pensiero mi distrae e mi fa percepire una sensazione di piccola perdita, come quando stai addentando del cibo dalla forchetta, ma un attimo prima di arrivare alle labbra ti cade nel piatto.

Il tizio in ciabatte si avvicina pericolosamente all'altro: «Non ci provare, stalle lontano o giuro che ti ammazzo».

«Provaci. Non vedo l'ora, cazzo!» Lo provoca l'altro.

No no no no, così non va.

«Fermi!» Adesso sono io che non controllo il tono della mia voce.

«Possiamo calmarci un secondo e discutere civilmente?»

A quanto pare no. Il tizio in ciabatte brandisce il rasoio elettrico come fosse un taser, l'ultimo arrivato tira fuori il coltellino dalla tasca e lo apre in un secondo: ho il vago sospetto che, mentre io non sapevo usarlo quando l'ho messo in tasca, lui ne sia invece in grado.

Non so perché, ma sento l'impulso di afferrare anche io qualcosa da brandire con aria minacciosa, giusto per non essere da meno. Ci troviamo in sala, vicino all'ingresso, il primo oggetto contundente che trovo è l'ombrello: lo impugno come fosse un manganello, ma sono sicuro di sembrare più una vecchietta a cui provano a scippare la borsa, piuttosto che un minaccioso militare di qualche tipo.

«Questo è lo stallo alla messicana più strano del mondo.»

Alla mia battuta sembrano sorridere entrambi; forse l'ironia è la strada giusta per il dialogo, è anche un'arma migliore dell'ombrello e non sono l'unico a notarlo.

«Quello che hai in mano tu in che modo dovrebbe essere una minaccia? Si dice "incrociare le lame",» spiega quello calmo indicando il coltello dell'altro, «essere "sul filo del rasoio",» aggiunge muovendo un po' il polso e la mano con cui impugna la sua arma impropria, «ma un ombrello! Cavolo, sei davvero patetico!»

Si mettono entrambi a ridere, mentre io mi sento leggermente ferito nell'orgoglio e offeso. Sembra che l'ironia possa davvero funzionare, anche se avrei preferito fosse più generica, non rivolta contro di me.

«Ok, è stata una bella riunione, divertente per qualche minuto, ora però levatevi dai piedi. Ho diversi conti in sospeso che questo brutto cazzone», indica me con un cenno della testa, «non hai mai avuto le palle di chiudere.»

Mi sembra strano sentire me stesso esprimere in quei termini, così scurrili e volgari, ma credo che in qualche modo sia liberatorio e un po' lo invidio; dev'essere bello lasciarsi andare completamente qualche volta, fregandosene di sembrare maleducati o fuori luogo. Quello che mi sconvolge è il pensiero che esiste una parte di me che farebbe del male a una persona, a una donna, a qualcuno che ho amato. Com'è possibile? Io sono sicuro che non lo farei mai. Non lo farei... vero?

Il tizio in ciabatte mi guarda, finalmente concorde con la mia idea di fare fronte comune: io non posso permettere che un altro me se ne vada in giro ad aggredire le persone, e lui più di ogni altra cosa vuole proteggere Sonia. Gli leggo negli occhi che per lei potrebbe persino morire e ora invidio un po' anche lui; il suo amore per questa ragazza è qualcosa che io non provo da un po'. È così che mi sentivo anche io? È questo ciò che ho perso? Sembra che l'avessi perso già prima di trasferirmi qui, ma perché? Il suo sentimento è intenso quanto lo era il mio osi è preso più spazio in lui, come lui stesso mi ha spiegato poco fa? Devo assolutamente riprendermi i pezzi mancanti del puzzle, ma prima dobbiamo uscire da questa assurda situazione. 


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