52 (prima parte) - Triccia
Lunedì 1, Triccia's pov
Sono tre ore che sto fissando, a rotazione, il muro, le mie gambe, i miei piedi, le mie braccia, la finestra, il mio zaino mentre dentro sento una scarica di brividi che si fa sempre più insistente a ogni respiro. Prima di piangere, mi paralizzo completamente, come se il mio corpo non riuscisse a compiere il minimo movimento. Odio questa sensazione, odio stare male, odio dover soffrire così tanto per una cazzata che ho fatto, ma soprattutto odio il mondo che ha scheggiato la mia felicità. L'odio è diventato una parte di me, scorre nelle mie vene, ha spazzato via quel briciolo di amore che credevo essere in grado di poter provare per una persona come d'inverno il vento gela il mare con una sola folata. Rabbrividisco al pensiero di quanto male abbia affrontato, sola, nascondendomi da tutti e nascondendo a tutti il mio dolore. Quanti pianti disperati, quanto dolore da far sfogare, quanta tristezza negli occhi, quanta malinconia dentro e quel vuoto, incolmabile, ma da riempire, quelle fitte allo stomaco, quei mal di testa sempre più insistenti, la paura di finire male, la paura di rovinarsi l'anima, la paura di torturarsi con pianti sempre più frequenti, la paura di tutto. E alla fine, quando hai paura di tutto, finisci per avere paura anche di te stesso. Non sai come potrà reagire il tuo corpo d'ora in poi, non sai cosa ti succederà se continuerai a piangere sempre, soffocando le tue lacrime su un cuscino che ne ha viste tante e che sa tutto di te, che sa quanto sia stato difficile fare la guerriera con un'anima da pulce per evitare di essere sbranata come succedeva alle elementari quando ti insultavano, ridevano di te perché eri una povera sfigata con l'apparecchio ai denti e vestiti improbabili. La gente non sa un cazzo di me. La gente pretende di sapere tutto, ma non sa un cazzo. E io non mi fido più di nessuno. Non ce la faccio, cazzo, ho paura. Ho una fottuta paura di vivere, ma anche un fortissimo bisogno di credere di poter uscire da questo tunnel. Mi sento una merda che cammina. Mi sento una nullità, ma adesso voglio qualcuno che mi stia vicino, anche solo in silenzio. Voglio ritrovare la libertà di essere me stessa.
- Triccia?
Licia apre la porta e mi trova seduta sul letto con la schiena appoggiata alla testiera. In altri momenti avrei ascoltato la musica, ma il mio cellulare ce l'ha ancora mamma.
- Tutto bene? - mi chiede, con quel sorriso che le invidio tanto. Non afferri il valore di un sorriso finché non lo perdi. Allora capisci che non si tratta solo di un movimento delle tue labbra, ma di una forza che ti nasce dentro, che ti sconvolge a tal punto da far brillare anche gli occhi.
Annuisco. Mi fissa e non sa quanto mi sta facendo male dentro. Non ce la faccio ancora a sostenere gli sguardi delle persone. Sono sempre troppo ferita per rialzarmi. Non so se raccontarle della chiacchierata con Giorgio, ma soprattutto non so più se dirle quello che è successo sabato, anche se lo vorrei tanto. Ho sempre paura di aprirmi troppo con lei e che possa non credermi da un giorno all'altro come è successo di recente. Indugia, in piedi, sulla porta, poi entra, la chiude e mi fa cenno di farle spazio sul letto. Si siede e mi abbraccia. Mi abbandono completamente, in posizione fetale, a quella stretta forte che mi fa sentire protetta.
- Tu sei la persona più preziosa della mia vita.
Cazzo. Non me l'ha mai detto nessuno e sentirselo dire da una sorella è qualcosa di unico. Non avrei mai pensato che le parole potessero curarti, dopo averti ferito. Mi accarezza i capelli e io mi sento un piccolo riccio calpestato da tutti che trova finalmente un riparo sicuro. Rimaniamo così per un tempo che mi sembra indefinito, ma che non vorrei finisse mai.
- Ti voglio bene - le rispondo, sottovoce, come se non volessi spezzare la magia di quel momento con altre frasi più lunghe e forse meno spontanee di questa.
Licia è entrata nel mio mondo in punta di piedi quando ero solo una bambina, è uscita ed è rientrata da poco. Averla vicina adesso è impagabile. I suoi abbracci mi fanno bene, mi fanno ritrovare quel pezzetto di cielo che ho perso e io gliene sarò eternamente grata. All'improvviso sento qualcosa che mi bagna le guance. Alzo gli occhi e vedo che sta piangendo. Mi stacco subito e gliele asciugo, dicendole che lei non merita di stare male per quello che mi è successo. Mi fa una carezza mentre i suoi occhi continuano a sciogliersi in un pianto liberatorio. Sento una forte fitta allo stomaco mentre le ripeto le stesse cose che mi diceva quando a piangere ero io. La abbraccio ancora più forte di quanto lei stessa abbia fatto prima e accetto di inumidirmi i capelli con le sue lacrime. Mi accarezza i capelli e mi fa sentire di nuovo quella piccola pulce di tanti anni fa che sognava una vita felice e che credeva di poterla avere, quella bambina che non sapeva cosa fosse la cattiveria.
- Sto piangendo perché ti devo dire una cosa che non ti piacerà - esclama, improvvisamente, staccandosi da me e guardandomi negli occhi - le cose potrebbero cambiare dopo che te l'avrò detta... potresti non volermi parlare più - fa una pausa - per questo voglio dirtelo il prima possibile.
- Non adesso - le dico, appoggiando di nuovo la mia testa sul suo petto e aggrappandomi a lei con quanta forza ho in corpo - ho bisogno di te, perché sono troppo sola.
Mi dà un bacio in fronte, continua ad accarezzarmi i capelli e a ripetere Ti voglio bene, piccola pulce. Non vorrei separarmi da lei per niente al mondo, almeno non adesso. Qualsiasi cosa debba dirmi può aspettare. È un momento così speciale, così unico, così nostro che non permetterò a niente e a nessuno di rovinarlo.
- Se non te lo dico adesso, non te lo dico più - replica, dopo una manciata di minuti, alzandosi in piedi.
Rimango lì, sul letto, privata del suo abbraccio mentre la guardo camminare per la stanza avanti e indietro cercando, forse, il modo più indolore per vomitarmi addosso le sue parole. Dalla premessa so che già mi faranno male e io non ce la faccio a dover star male di nuovo, non ce la faccio a pensare che ci sia ancora qualcosa che possa mettersi fra noi. Si appoggia al muro. Fa un respiro profondo. Le tremano le mani. Scendo dal letto e mi fiondo fra le sue braccia, in cerca del riparo perduto, ma lei mi allontana.
- Ti prego, lasciami spiegare, poi deciderai se parlarmi ancora o no.... - dice, con un filo di voce.
Si sente in colpa per qualcosa, non ha neppure il coraggio di guardarmi in faccia. Fissa la punta delle scarpe e se ne sta zitta mentre io tento in ogni modo di interrompere quello che sta per dire.
- No, ti prego tu.... Io sto male, cazzo, sto tanto male e ho bisogno di te - le dico, facendomi uno chignon improvvisato mentre sento un brivido che mi sconvolge dentro.
Mi accarezza una guancia, ha le mani gelide. Rabbrividisco e mi stringo nella felpa dopo essermi seduta sul letto. Capisco che qualsiasi cosa possa dire o fare ormai ha già scelto di dirmelo. Mi preparo, mentalmente, ad accogliere in testa questo vomito di parole anche se non sono pronta ad affrontare altri discorsi potenzialmente nocivi per l'equilibrio interiore che sto cercando di recuperare.
- Quando mi hai detto che nel tuo telefono non c'erano prove che potessero incastrare Michele, non ci ho creduto - ammette - mi dispiace, ho dovuto farlo, non appena mi si è presentata l'occasione....
Prima che possa aggiungere altro, mi viene un flash e mi ricordo che il mio cellulare l'aveva lei, non mamma. Mi sento sbiancare, improvvisamente, mentre la solita scarica di brividi mi divora la schiena. Corro in bagno, afferro il primo secchio che trovo e rimetto tutto il mio dolore. Licia mi raggiunge, mi sostiene mentre vomito l'anima e scoppio in lacrime per l'ennesima volta. Non reagire così, ti prego, ho sbagliato a leggere le tue chat, ma credimi, l'ho fatto per il tuo bene. Non potevano non esserci prove e quello che ho scoperto è anche peggio di quello che cercassi la sento affermare sottovoce.
Lo so che è peggio, cazzo, lo so bene. Per questo non ho avuto il coraggio di dirtelo.
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