Compleanno del cazzo
Essere un uomo di 48 anni non è affar semplice. Prima di tutto, il numero 48 è la somma di 12 più 12 più 12 più 12, e il numero 12 proprio non lo riesco a mandar giù. Non vi fa ribrezzo il numero 12? Perché a me sì, molto (come il vomito, anche quello fa veramente schifo).
Essere un uomo di 48 anni non è diverso dall'essere un uomo di 47 anni, tranne il fatto d'essere 365 giorni più vecchi; vale a dire più grandi di 8760 ore, che tradotte sarebbero 525600 minuti – avete la minima idea di quante cose si possono fare in 525600 minuti?
Inoltre, tenete conto del fatto che a 48 anni, scrivendo una poesia al giorno dall'età di 18 (sono circa 10950 poesie), e supponendo di ficcare 100 di quelle poesie in ogni raccolta, a 48 anni dovrei per lo meno trovarmi con 109 libri pieni zeppi delle mie poesie, e come minimo dovrei averne pubblicati 20 o giù di lì. Giusto? Beh, non è mai successo, tenete conto di questo.
Era gennaio del 1988 quando scrissi la mia prima poesia, 30 anni fa oggi; parlava di un uomo che scopriva le 5 fasi della vita (nascita, scoperta del sesso, sesso, lavoro, morte) e descriveva com'era nato, come aveva scoperto il sesso, come aveva fatto sesso, come aveva lavorato, ma non com'era morto, perché se fosse morto non avrebbe potuto descriverlo: da qui era giunto alla conclusione che la vita non aveva 5 fasi, ma solo 4. La morte era una cosa a sé – e chissà cos'era!
«Joey,» dice Lisa, e mi fa ripiombare di colpo sul letto della mia stanza. Il soffitto sempre uguale, sempre schifoso, le molle del materasso che scricchiolano sotto i movimenti di lei. Io me ne sto fermo a guardarla. «Cos'hai in testa, oggi, Joey?»
«Niente».
«Ma-»
«Ho detto niente!» quasi urlo. Ammettere che non mi si rizza ferisce il mio ego, specie quando si tratta delle donne. Quindi mormoro: «Lisa, non ho più voglia. Lascia perdere».
«È colpa mia?» Con uno sbuffo, si sposta dal mio corpo, e io scuoto la testa.
È colpa delle 10950 poesie, ecco tutto. Inutili poesie che se ne stanno lì a fare la muffa nel mio baule, chiuso a chiave sotto al letto che scricchiola anche quando lei si alza da me, stendendosi nuda al mio fianco.
«Tutto okay?»
«Ho sete,» replico, ma non è un cazzo vero. Ho solo voglia di bere, non ne ho bisogno.
Lei continua, non sembra aver sentito ciò che le ho detto: «Io sono venuta tipo tre volte in neanche mezz'ora. Cos'è che non va? Dovresti essere felice, è il quattro gennaio».
«Il quattro gennaio,» quasi rido. «I compleanni sono una stronzata. Sempre stati, sempre lo saranno. E ho sete».
«Hai 48 anni. Perché non mi fai un sorrisetto?»
Le lancio un'occhiataccia. «Non ricordarmelo, ti prego. Ho sete».
Si mette a sedere, senza preoccuparsi di coprirsi. È più giovane di me, per questo gli anni non le pesano – lei non sente la vecchiaia incombere su di sé, e se la sente, la nasconde molto bene, con tutto quel trucco che si è messa addosso (ed è quasi ironico considerando la facilità con cui si toglie i vestiti, quando viene a contatto con me).
«Vuoi un caffè?» domanda.
«No».
«Tè?»
«No».
«Acqua?»
«Mi prendi per il culo?»
«Guarda che mio fratello ha finito il brandy. Caffè, tè o acqua naturale, Jo».
«Non ho sete,» borbotto, alzandomi e infilandomi i boxer e i jeans. «E non chiamarmi così».
«Preferisci Saddler?»
«Chiamami Joey, cazzo. Lascia stare il cognome».
«Io penso che dovresti ricominciare a scrivere, Joey Saddler,» prosegue con il suo chiacchiericcio tedioso mentre si veste a sua volta, mentre mi segue in cucina, e mentre si prende una fetta enorme della mia torta al cioccolato. «Insomma, se vendessi un libro potresti farci tanti soldi. E poi lo sai che a me piacciono le tue poesie-»
«Lisa...»
«-e non fissarmi con quel tuo sguardo da cane bastonato».
«Ma dopo essere venuta tre volte sei sempre così ficcanaso?»
Si lecca le labbra, sporche di glassa, prima di tagliarsi una seconda fetta, e ignorare completamente la mia domanda. «Vuoi?» me ne porge un pezzo.
«No».
«Risponderai di no a tutte le mie offerte?»
«No».
«Mi leggi una storia?»
«No».
«Perché no?»
«Perché no,» taglio corto, sedendomi al tavolo. «Questa giornata fa schifo».
Il mio problema è che man mano che i giorni passano, divento sempre più incolmabile. Il bere non mi disseta, il cibo non mi sfama, scrivere poesie non lenisce la mia noia. È come se io, in 48 anni di esistenza, sia passato dall'insieme N, all' insieme Z, all'insieme Q e sia arrivato all'insieme R, e ora non mi resti più nulla a cui passare, e di conseguenza, sono ineluttabilmente intrappolato in un insieme infinito che ho finito di esplorare, e non so che cazzo fare a riguardo.
Vengo distolto dai miei pensieri quando la porta d'entrata si spalanca di colpo: il mio coinquilino, Billy (ex marito della ragazza con cui scopo, hanno divorziato dopo sei mesi) sfaticato e un po' spendaccione, fa capolino oltre la soglia. È fradicio d'acqua, il suo cappotto marrone sembra nero, e i suoi capelli ricci e castani sono tutti appiccicati alla sua fronte.
«Ciao,» dice, togliendosi la giacca e calciando le scarpe nella cassapanca. Poi viene verso di me, mi tira una pacca sulla spalla, si siede al tavolo, e «buon compleanno!» urla, nel mio orecchio. Si prende pure una fetta di torta.
«Billy,» lo avverto.
«Sai che ha la fobia di invecchiare, Billy. Lascialo stare,» ridacchia Lisa.
«Non ho la fobia di invecchiare». Ed è vero, non ce l'ho. Ho la noia di invecchiare, ho lo schifo, la repulsione di invecchiare. Sento l'orologio della mia vita che rintocca, tic toc, tic toc, e l'unica cosa che posso fare è contare i secondi, i minuti, le ore, i giorni.
Gli anni. E sono già 48.
«Comunque,» il cambio di voce di Billy quasi mi spaventa. Ogni volta che deve darci una brutta notizia, inizia col "comunque". Quando aveva fatto a botte con uno spacciatore, o quando aveva rubato un portafogli, o quando aveva accidentalmente rotto un vaso in un negozio di ceramiche antiche, aveva pronunciato quella piccola parolina. Per non parlare di quando aveva scoperto di me e la sua ex moglie. Aveva detto "comunque" tre volte, e poi "comunque," di nuovo, "Jo, so che vai a letto con Lisa".
«Oh, Cristo,» sbuffa lei, spingendo i suoi capelli neri lontani dal viso. «Che hai combinato?»
«Nulla di grave... ma comunque, io e Jo siamo in ritardissimo con l'affitto. Il padrone del condominio mi ha chiamato, prima, e se non paghiamo entro mercoledì prossimo, ci sbatte fuori».
«Grandioso!» esclamo. «Dove li troviamo i soldi?»
Lisa mi si avvicina. «Te l'ho detto, dovresti far pubblicare quelle tue poesie-»
«No».
«Ma pensaci, Joey, magari ci farai un mucchio di soldi».
«Ho detto di no, cazzo!» sbotto. «Mi troverò io un lavoro».
Ha! Il punto 4, come no. Finché si parla di nascita, scoperta del sesso, e sesso, mi va anche bene... ma il lavoro, figuriamoci.
Billy, interdetto, alza un sopracciglio. «Non ti credo neanche se me lo giuri su mia madre defunta. E poi, quale lavoro paga dopo una settimana, hmm?»
«Quanti soldi servono?» chiedo.
«L'affitto è 450 dollari al mese. Moltiplica per 2, visto che il mese scorso mi sono inventato una scusa per non pagare, e dividi il totale fra te e me...»
Aggrotta le sopracciglia mentre cerca di fare il calcolo, anche se da calcolare c'è ben poco.
«Billy,» ridacchia Lisa, scuotendo la testa, ma lui la zittisce con un cenno della mano: «Un attimo, sto pensando. Non sono bravo con le divisioni».
«Se prima moltiplichi per due il totale, e poi lo dividi, di nuovo per due...» faccio io, stavolta. «Cosa ti resta?»
«Che cazzo ne so... ah!» esclama, come colpito da un lampo di genio. «Il totale di partenza!»
«Entro mercoledì,» aggiunge Lisa. «Quindi avete sette giorni esatti».
Billy si alza dallo sgabello e si mette a frugare nelle tasche dei suoi jeans. Fra tutte le scartoffie, le ricevute, i fazzoletti usati, e pure una bustina di preservativi, ne emergono 25 dollari e 65.
«Iniziamo bene,» borbotto. «Come facciamo?»
«Pubblica quelle poesie,» fa Lisa, ancora una volta, e io, ancora una volta, storco il naso. Poi lei s'infila il cappotto e le scarpe, ci dice che deve andare perché la sua zia matta la aspetta (è una bugia, vuole solo liberarsi dei nostri problemi) e esce dal piccolo appartamento.
Quando siamo soli, io e lui, lo vedo sospirare. Billy si guarda attorno, un po' spaesato, lo sguardo perso nel vuoto, illuminandosi solo quando i suoi occhi si posano sulla nostra scorta di liquori di cui Lisa non è, chiaramente, a conoscenza.
Con due bicchieri di vetro sul tavolo, stappiamo una nuova bottiglia di bourbon, versandocene un bel po'.
«Matematica del cazzo,» borbotta lui, prima di trangugiare tutto in un sorso unico.
In effetti, potrei anche pubblicare quelle poesie – non dovrei lavorare se diventassi ricco. Fanno schifo, la gente fa schifo, alla gente piacerebbero. Forse le venderei, pure. Che ne so.
Però ora ho sete, quindi alle poesie ci penso più tardi: per qualche secondo vedo il mio viso riflesso nel liquido ambrato del bourbon, ma quell'immagine svanisce non appena avvicino il vetro alle mie labbra, sporcandole di peccato che sa di alcol.
«Compleanno del cazzo,» dico io, e mando giù.
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