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Come quando il verme fa affogare la cavalletta

«Sai, stavo pensando ad una cosa».
«A cosa?»
«Beh, è strano».
«Cos'è strano, Scout?»
«La cosa a cui stavo pensando».
«A cosa pensavi?»
«Beh... sai che mio zio è stato messo ai domiciliari, no?»
«Tuo zio?»
«Sì».
«Ora lo so».
«E stavo pensando... ma la gente che come domicilio ha un camper o una roulotte, come fa? Voglio dire, possono andare lo stesso dove vogliono o sono costretti a restare fermi in un punto?»
«Tu pensi troppo, Scout».
«Lo so».
«Adesso a che pensi?»
«A niente, Buk».
«A tuo zio?»
«Mio zio?»
«Ai domiciliari».
«Stavo scherzando. Non è stato messo ai domiciliari».
«A che pensi, Scout?»
«Alla pecora gialla».
Risata.
«Ti giuro».
«Quanto sei scema».
«Tu pure».
«Dai, a che pensi?»
«Te l'ho detto».
«Scout?»
«Dimmi».
«Ti amo».
«Ti amo anche io, Buk».
Ho sempre avuto paura delle persone che piangono. Non so perché. Soprattutto di quelle che lo fanno in silenzio, quelle che non singhiozzano né fanno spettacolo del loro rivoltante, meschino modo di esprimere certi sentimenti abbacchiati e pressoché deplorevoli, con mucchi di fazzoletti pieni di moccio e il naso umido di lacrime fastidiose.
Piangono in silenzio. Neanche te ne accorgi. È difficile piangere in modo silenzioso. C'è qualcosa all'interno dei muscoli del viso che ti distorce i lineamenti, ti rende una specie di mostro condizionato da impulsi totalmente, completamente involontari, come quando inizi a vomitare e non riesci più a smettere fino a che non hai svuotato tutto.
In questo caso, parlando di pianti, il viso si contorce, il mento trema, le labbra si assottigliano in un semi sorriso dolorante di sconforto; le sopracciglia aggrottate ti fanno socchiudere gli occhi dai quali fuoriescono copiosamente rivoli d'acqua salata che inevitabile ostruiscono anche i canali nasali. Non riesci a respirare, annaspi alla ricerca di un fazzoletto (o della carta igienica, se questi ultimi non li hai) e ci soffi dentro e scopri che non serve a un cazzo, non serve a un cazzo.
Fa solo tanto, tanto schifo.
Quelli che piangono in silenzio, invece... credo abbiano qualcosa che non va, ma sul serio questa volta. Qualcosa che non va, dentro di loro.
È la rassegnazione che mi fa tremare dalla paura, quando li vedo, la rassegnazione che impedisce al loro volto di distorcersi. Magari hanno solo gli occhi arrossati, ma giusto un po', quel che basta, tanto per far capire che qualcosa è storto. Perché le lacrime sono trasparenti e se non hai la luce che le fa brillare, non le vedi, quindi gli occhi si arrossano. Per il resto, rimangono impassibili. Nulla a che vedere con tutti i fazzoletti di cui ti ho parlato poco fa.
Prima o poi, arriva sempre una tempesta a cui non sei preparato. È inevitabile. E francamente, detto fra noi, sarebbe alquanto noioso se non giungesse mai.
Questi qui che piangono in silenzio, però, non sentono la tempesta. Sembrano non sentire nulla, ed è questo che li fotte.
Al principio di tutto, non te ne importa poi molto – è questa la cosa che ti frega: non te ne rendi neanche conto, di quando comincia ad importartene, finché non è troppo tardi e sei andato. Spirato. Completamente. Troppo tardi.
Può avvenire dopo un paio di canzoni di Mark Knopfler così profonde da farti trasalire fin nelle ossa, ascoltate di notte con le auricolari mezze rotte, di maniera che devi giocare con il filo per permettere alla musica di uscire dalla cuffietta destra, così come può avvenire dopo una discussione sulle particelle subatomiche o sulla legge di Boyle, quella che afferma che il volume occupato da un gas, mantenuto a temperatura costante, è inversamente proporzionale alla pressione alla quale il gas è sottoposto, o ancora dopo aver parlato di politica sporca col timore di essere rintracciato ed ucciso da un sicario di quel mafioso laggiù, che si sta confessando proprio ora.
Non sai mai quando succederà. Accade all'improvviso, credo, così veloce che nell'immediato è pressoché impossibile accorgersene, voglio dire. O almeno, così la penso io.
Accade che ad un certo punto della giornata, inizi a pensarci (e non dirò a cosa, nello specifico, perché dipende da chi ci sta pensando). La cosa peggiore è quando stai facendo la cacca, seduto sul cesso, ma può avvenire anche giocando a pallone o al telefono con tua nonna – o che ne so io cosa fai abitualmente. Insomma, hai capito no? Così, dal nulla, inizi a pensarci. E continui a rimuginarci su e un po' ci stai male. È questo che ti frega.
E ad un certo punto arriva la tempesta, la vedi da lontano, si avvicina, ora ti si sta abbattendo contro, ma non riesci a sentirla. Non fa male, neanche un po'. Arriva dall'orizzonte nero, e tu sei lì seduto sul tetto di casa tua che la aspetti, e quando finalmente arriva, tu la accogli a braccia aperte, ma non la senti. Non senti un cazzo.
Qui scendono le lacrime. Scendono scendono scendono scendono e corrono veloci ed inesorabili verso il mento, per gettarsi nel vuoto, ma tu non le senti, non te ne accorgi. Sei rassegnato.
E il viso non ti si distorce, forse perché il tuo cervello non ha capito che stai piangendo e non manda alcun impulso ai muscoli, non dice loro di contrarsi. A volte ti capita, mentre stai piangendo in silenzio, di sbattere le palpebre, ma succede di rado perché gli occhi sono già tutti bagnati e scivolosi. Magari lo fai perché davvero non ci vedi più, sei come sott'acqua. Tutto è sfocato.
Ti togli gli occhiali, sbatti le palpebre, impassibile, ma non smetti di piangere. Fissi gli occhiali, vedi che sono tutti pieni di goccioline? Sarà acqua della tempesta o lacrime salate? Boh. Chissà.
Non ha molta importanza.
Voglio farvi capire meglio: ci sono tante cavallette che si sentono così, perché hanno questo verme nematomorfo (Spinochordodes tellinii) che parassita il loro corpo, spingendoli ad andare incontro ad una morte sicura obbligandoli a tuffarsi in acqua e ad annegare. Quei vermi successivamente escono dal corpicino esanime del loro ospite e sguazzano con sfrontata spudoratezza lì nello stagnetto che ha ammazzato la piccola creatura. Le penose cavallette sono impotenti, rassegnate. Ed è lo stesso, il principio di come quando il verme fa affogare la cavalletta, lo stesso identico principio delle lacrime che corrono dai visi muti e comodamente insensibili di persone come me o come te. Credimi, è lo stesso, crudele principio. Non possiamo farci nulla, penso. Solo aspettare che la tempesta passi, e sperare che quando il verme se ne sarà andato, la cavalletta esca dall'acqua e non ci si anneghi dentro (non succede mai, lei muore sempre).
Fa sempre tutto un po' più schifo, con il dolore, no? Ed io ho sempre avuto paura delle cavallette e dei loro orribili parassiti.

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