2. La voce delle tre
«... Thomas...»
Era una voce dolce e sembrava provenire da un luogo impalpabile. S'era addentrata nella densità del sonno.
Thomas aprì gli occhi e fissò la sveglia digitale sul comodino. I luminescenti numeri verdi segnavano le 3:00 del mattino. Chiuse gli occhi e ripiombò quasi subito nell'incoscienza.
................................................
«... Thomas...»
Thomas batté le palpebre più volte. Era difficile sfuggire alla viscosità del sonno profondo. La camera era buia, fatta eccezione per un tenue fulgore che proveniva dalla finestra, le cui tende non erano state tirate. Sollevandosi sul gomito e cercando di riprendere la coscienza, scocciato per l'interruzione, Thomas fissò i numeri della sveglia. 3:00 AM.
«Quegli idioti devono avere messo qualcosa che ogni notte, alla stessa ora, si accende. Un dannato registratore o roba simile, piazzato da qualche parte, nascosto. L'avranno studiata bene per darmi il benvenuto nella nuova casa. Non mi viene nemmeno una maledizione da tirargli contro.»
Ributtò la testa sul cuscino ascoltando l'aria immobile di settembre, il ronzio del frigorifero e il respiro del legno di qualche mobile.
«Non appena li vedo, gli dirò di piantarla con gli scherzi e gli caverò fuori dove l'hanno messo. Devo alzarmi presto la mattina e svegliarmi nel cuore della notte perché sento qualcuno che mi chiama mi fa incazzare da morire. Garantito.»
Aprì e richiuse gli occhi per quattro volte fino a che la stanchezza annebbiata lo ghermì e non li riaprì più.
...........................................
Alla mattina non ricordava quasi mai ciò che era accaduto di notte. Una volta sola ci inciampò sopra e gli sembrò un sogno più vivido di quelli che abitualmente rammentava ed erano davvero pochi.
Nei primi tempi capitava di lunedì, poi cominciò ad estendersi al mercoledì e al venerdì. Ogni notte, alla stessa ora, la voce compariva dal nulla e dopo aver pronunciato una volta il nome scompariva. A tendere l'orecchio, Thomas non udiva altro che i ronzii del frigorifero, qualche cassetto che aggiustava la sua posizione con un colpo leggero e a volte l'abbaiare di un cane. Aspettava qualche secondo, secondi che diventavano minuti con il passare dei giorni, e non si accorgeva di trattenere spesso il respiro, quasi che il fiato sporcasse la percezione.
Dopo due settimane, si svegliava turbato e restava in ascolto a lungo senza riaddormentarsi. La voce, però, non si ripeteva. Una notte provò a restare sveglio fino alle tre, invano.
Verso la fine di settembre, poco dopo le tre, venne svegliato da una melodia. Non riconobbe la canzone, eppure era onnivoro, musicalmente parlando, il più ferrato della sua compagnia. Al momento di aprire gli occhi, la canzone era già ben avviata, ma non riuscì a discernere le parole.
Da quel momento, quando non compariva la voce aleggiava la canzone.
Una mattina incontrò sul pianerottolo del terzo piano, prima delle scale, una donna sui quaranta ruggenti nella quale riconobbe l'inquilina del quarto, l'ultimo, e che fino a quel momento s'era udita per un ciabattare leggero, un confabulare ovattato con il marito, per qualche scossone della lavatrice e per il passaggio mattutino del sabato dell'aspirapolvere – Thomas lo udiva quando non era di turno.
Fin da quando aveva acquistato l'appartamento ed era entrato ad abitarci non aveva avuto alcun rapporto civile con i suoi vicini. Ognuno conduceva la sua vita parallelamente all'esistenza degli altri e sembrava che queste strade non dovessero incrociarsi mai. Di rado i condomini si fermavano a conversare, e il saluto consisteva in un cenno del capo per gli uomini e in un sorriso frettoloso da parte delle donne.
Gli unici che avevano bambini erano i coniugi del primo piano, a discapito di quello che aveva detto il signor Smith sulla metratura degli appartamenti: tre creature di età assortita, un maschio e due femmine che vivevano la loro giornata nel ritmo marziale scandito dagli impegni scolastici e dagli hobby. Quando a Thomas era capitato di incrociarli, soli sul pianerottolo o seduti sul marciapiede davanti all'ingresso ad attendere l'arrivo paterno, li aveva salutati. In cambio, aveva ricevuto un grugnito dall'adolescente e due "ciao" appena udibili dalle bambine. Nemmeno il gatto che aveva portato con sé, e che i tre vedevano talvolta alla finestra della cucina al terzo piano, era servito a rompere il gelo antartico che permeava la palazzina.
Pertanto, fu con garbo che avvicinò la donna e le chiese che tipo di canzone fosse quella che ascoltava qualche volta nel mezzo della notte. Lei sorresse la domanda e lo sguardo inquisitore di Thomas, mentre le labbra restavano appena socchiuse. Dopo un giro di fandango di parole, terminato con lui che le chiedeva di regolare il volume, lei troncò con gentilezza il discorso: evidentemente aveva fretta.
«Mi spiace, non viene dal mio appartamento. Abbasserei volentieri il volume se si trattasse della mia televisione. Noi non abbiamo un impianto stereo, l'abbiamo regalato a nostra figlia quando è andata via di casa.» Fece una pausa per cercare la posizione delle chiavi nella tasca del soprabito leggero. «A quell'ora io e mio marito, di solito, dormiamo. Siamo insegnanti e abbiamo la buona abitudine di andare a letto presto perché dobbiamo alzarci presto, cosa che non si può dire dei nostri studenti. Discorso diverso quando non siamo in salute. Nel caso, chi sta male si limita a prendere una medicina e sistemarsi sul divano per non disturbare chi dorme. Purtroppo non si può fare molto per l'andirivieni di passi, di cui spero mi perdonerete.»
«Mi scuso per essere sembrato qualcuno che lancia accuse. Non disturbate affatto. È per via della canzone, pensavo...»
«Non siamo noi a dare feste. Quel tempo è finito, purtroppo.»
«Davvero, mi scuso ancora. Giuro di sentire spesso una canzone. Ho controllato se fosse il mio impianto, ma è spento. Per sicurezza, dopo la prima volta, stacco la spina ogni notte. Fra l'altro, so che sembra ridicolo a dirsi, non ho nemmeno un cd che possa suonare un pezzo del genere.»
«Che tipo di canzone è?»
Thomas le canticchiò la melodia sentendosi uno stupido, mentre la donna lo fissava con uno sguardo vacuo e cortese. Smise ancor prima che lei potesse scavare nel juke-box personale della memoria e suggerirgli una pista.
«Non saprei» concluse la donna, sebbene non avesse udito quasi nulla. «La melodia non mi dice niente.»
Quindi lo salutò e sparì ticchettando sulle scarpe dal tacco basso lasciando, a rivelare quella che era stata la sua posizione un attimo prima, un profumo nell'aria con note di mandarino, vetiver e ortensia.
Scartando i due anziani del secondo piano, che talvolta sembravano morti anche quando vivevano la quotidianità in casa, Thomas provò ad interpellare la famiglia del primo. Gli fu detto che Ethan, il figlio maggiore, ascoltava rap e aveva reso la sua parte di camera un altare eretto ad Eminem, il suo dio, e a vecchie glorie come i Run-D.M.C e LL Cool J, conosciuti per merito di uno zio a sua volta veneratore; le bimbe si limitavano a canzoncine come The cat came back o All the pretty little horses. E gli fu detto che nessuno aveva ancora trovato da ridire sul loro comportamento.
...................................................
Sempre alla fine di settembre, Thomas conobbe una ragazza.
In realtà l'aveva osservata parecchie volte, da quando entrava dalla porta a vetri automatica fino a che usciva carica di sacchetti dal supermercato. In un'occasione le rivolse la parola perché si trovava sulla soglia e controllava un gruppo di ragazzi, poco più giovani di lui, al terzo andirivieni fra gli scaffali delle birre. Non era nuovo alle catture di cleptomani; un affare spiacevole soprattutto – come era già capitato – quando i ladri non esercitavano disarmati.
«Bel pomeriggio.»
Lei sollevò il viso dalla borsa che portava a tracolla, dove aveva appena messo il portafoglio, e si guardò in giro. L'unico che poteva aver parlato era la guardia giurata in divisa.
«Ah sì. È tranquillo, non c'è tanta gente.»
«Poco traffico in strada e nel supermercato, eppure le persone hanno sempre una fretta del diavolo. Guardale, come si ammassano nelle casse libere. Non ti sembra una gara?»
«Ha ha! Sì, hai ragione. Proprio una gara.» Osservò il viso di Thomas, il cui colorito sano spiccava sul nero della divisa, si spostò sull'azzurro trasparente degli occhi, sul rosa scuro naturale delle labbra, e discese sullo scudo d'oro del distintivo appuntato sul giubbotto antiproiettile. "Carino. Starò al gioco" pensò, e sorrise. «Mi sa che è difficile diventare una guardia, eh?»
«In realtà è più semplice di quello che si crede. È sufficiente avere i requisiti psicofisici adatti.»
La ragazza ebbe un singulto. La faceva ridere il modo di esprimersi della guardia. "È giovane, ma parla come un vecchio. Che particolare!"
«Ho fatto domanda in un istituto di vigilanza privato, ho passato gli esami fisici e i test, riempito scartoffie burocratiche. Poi c'è stato l'addestramento. Ma sono state cose da poco, davvero.»
«Ma è rischioso.»
«Di certo non è per tutti.»
«Ah.» La ragazza notò che lui spostava la testa e lo sguardo scivolava altrove mentre parlava osservando la situazione all'interno del supermercato. A volte la spingeva leggermente all'indietro, sbilanciando il corpo per aver una visuale migliore. Capì che si era intrattenuta troppo.
«Comunque mi chiamo Elizabeth Lee, molto piacere.»
«Thomas Rogers.»
Si strinsero la mano. Dopodiché Elizabeth riprese le borse, che aveva appoggiato e rialzato durante l'intera conversazione, pochi minuti di continuo movimento.
«Vado, adesso. Ti lascio lavorare.»
Thomas vide le borse piene. Si sarebbe offerto di trascinargliele fino all'auto se non avesse dovuto badare ai suoi affari.
Elizabeth si riforniva all'incirca una volta alla settimana, di solito il lunedì pomeriggio, ma capitava che si facesse vedere per acquisti di poco conto anche il sabato sera.
"Mi sa che se non mi faccio avanti io, continueremo a salutarci all'infinito."
In uno di questi sabati la ragazza si espose, sul viso magro il sorriso delle belle speranze, indosso un paio di calzoncini di jeans e una maglia con le maniche lunghe per via dell'aria lavata di fresco da una pioggia improvvisa e mattutina.
«Cosa fai il sabato sera, di solito? Lavori?»
Giochicchiava con i capelli, che portava lunghi e lisci su una spalla come se fossero stati una stola degna della Venere in visone, mentre dialogava con Thomas, fermo nei pressi delle casse.
«Finisco il turno alle otto quando arriva il collega di notte. Ti andrebbe di uscire?»
«Stasera?»
«Andiamo a bere qualcosa. Una cosa informale, Elizabeth.»
«Benissimo, ma chiamami Liz. Ci troviamo davanti al supermercato alle nove, va bene? C'è un posto nuovo dove non sono ancora stata, dicono che è bello. Possiamo andare lì.»
Andarono in un locale di musica live dove si esibiva un gruppo piuttosto bravo nel proporre un pop-jazz un po' annacquato che Thomas sopportò con galanteria soprattutto perché, nonostante i gusti, aveva rispetto per tutti i tipi di musica e chi li suonava. Aveva provato ad imboccare la via del musicista al college, comprendendo quanto fosse difficile comporre ed esibirsi davanti a un pubblico per la maggior parte svogliato, invidioso, desideroso solo d'insultare per movimentare l'ambiente.
Senza la divisa che gli donava una fisionomia più torva, Liz dovette ammettere che Thomas era un bel ragazzo. Non era facile accorgersi della sua avvenenza perché era diverso dagli uomini che di solito la circondavano. Non portava i capelli alla moda, vestiva capi che funzionavano almeno un quindicennio indietro, e aveva uno sguardo diabolico, da demone, appena rischiarato dalla purezza degli occhi chiari. Non era un tipo spigliato e se messo a disagio poteva sputare una parola ogni quarto d'ora. Ma di questo, Liz non se ne accorse: la sua parlantina bastava per entrambi, e il modo in cui lui le cercava il braccio sfiorandola senza premere, l'attenzione desta sul viso, le comunicavano che stava facendo sul serio. Thomas si rivolgeva a lei con rispetto, una sorta di devozione reverenziale che strideva con la sua immagine di giovane uomo d'un pezzo, rude, solido.
Al primo appuntamento, Thomas non le chiese niente più di quello che Liz si sentì di dare. Si salutarono quando l'ebbe riaccompagnata in macchina; attese che lei salisse gli scalini esterni e varcasse la soglia di casa per girare la chiave, avviare il motore della sua vecchia Jeep Cherokee nera e sparire dietro la curva sulla via di casa.
Liz non era la prima ragazza con cui stava. Aveva già avuto due relazioni lunghe ai tempi del college: la prima era durata un anno e tre mesi, la seconda due anni e qualche giorno. Storie diverse, non inconsuete. Una l'aveva conosciuta a scuola, l'altra ad una festa. Il filo conduttore fra le due riguardava la rottura della relazione: Thomas preferiva risolvere da subito i contrasti e, laddove non era possibile, interrompere il rapporto. Una rottura pulita, senza strali. Entrambe avevano invece lottato, procrastinato la fine in un'agonia di recriminazioni, poste, lacrime e mugugni. La seconda era persino riuscita a cavare di bocca a Thomas una bestemmia.
In apparenza, Liz era diversa. Lavorava da qualche anno in un salone di parrucchieri poco distante dal supermercato dove Thomas era impiegato; viveva con la madre divorziata, ma sapeva gestirsi con indipendenza. Era sorridente, educata, gelosa. Il tutto senza strafare.
Per Thomas era l'ennesimo tentativo di affidarsi a qualcuno dopo i fallimenti. I primi baci si erano consumati sulla Cherokee fin dalla seconda serata trascorsa insieme. Il rapporto si basava sulla parità, entrambi prendevano e cedevano in egual misura, con Liz che tastava la pelle sotto le magliette e le camicie di Thomas come se dattilografasse, e lui ad annusare l'odore della ragazza e percorrere la linea che dalla coscia conduceva alla clavicola.
Alla metà di ottobre, seguendo il trend di amori spicci del nuovo secolo, arrivarono al sesso oltrepassando le labbra, la saliva, il tocco e rivelando il confine che i vestiti celavano ma che già conoscevano alla cieca.
Rimasero a guardare il soffitto mentre la sera del lunedì scuriva, il tramonto spariva al di là delle colline e la stanza si faceva fredda. Thomas cinse il corpo nudo della sua ragazza con le braccia, mentre Liz giocava con il laccio di cuoio che lui portava al collo quando non era in servizio, una collanina fatta di diversi giri con una chiusura in argento.
«Hai freddo? Ho sentito uno spiffero che mi ha fatto venire la pelle d'oca.»
«No, tu sei bollente. Scaldi anche me.»
«Vuoi mangiare?»
«No, dopo. Voglio solo stare un po' qui a riposarmi. Mi sento a casa.»
«L'appartamento è stato un affare. Piace anche a me.»
«Metti su un po' di musica?»
Verso le nove cenarono con un piatto da asporto, alle dieci si misero a guardare la televisione, lei che stava quasi sdraiata sopra di lui e lo torturava passandogli la mano sulla faccia o riempiendolo di piccoli baci.
Il gatto passò nella luminosità tremolante proiettata dalla televisione accesa e saltò sulla poltrona.
«Dovresti farti la barba.»
Dormirono insieme senza toccarsi oltre. Alle tre del mattino, come succedeva ormai da diverso tempo, ricomparve la voce.
Thomas si svegliò all'istante, ormai abituato, e toccò la ragazza sulla guancia. «Liz?»
Lei aprì gli occhi e fissò il buio senza vederlo. «Sì?»
«Sei tu che mi hai chiamato?»
«No. Dormivo.»
Thomas si liberò dalle coperte e mise i piedi sul pavimento umido. Non accese la luce e concentrò l'attenzione nell'orecchio.
«Se solo capissi da dove viene, troverei l'affare e lo spegnerei. Speravo che la batteria si esaurisse in fretta, ma deve essere di lunga durata.»
«Di cosa parli?»
«Ti ricordi che ho accennato allo scherzo che mi hanno fatto i miei ex coinquilini?»
«La voce registrata? Ma non avevi cercato dappertutto?»
«L'ho fatto. Devono averlo ficcato in un posto dove non ho guardato.»
«Tu sei scrupoloso in queste cose, e casa tua non è grande.»
«Sono capaci d'aver scavato un buco da qualche parte, messo l'aggeggio nella parete e risistemato prima che me ne rendessi conto. Uno di loro è un ingegnere edile. Mi hanno aiutato con il trasloco, e se ben ricordo anche a montare i mobili. Può essere che l'abbiano fatto scivolare fra un armadio e la parete in un luogo inimmaginabile.»
«Non ti resta che aspettare che finiscano le batterie.»
.......................................................
Anche senza la voce ad infastidirlo c'era la canzone. Sembrava provenire dal soffitto o da sopra; una notte in cui era solo, Thomas aveva provato a seguirne la traccia e il suo orecchio l'aveva indirizzato alla finestra del soggiorno, solo per scoprire che quando s'affacciava si faceva più flebile e non più forte, e che si udiva meglio all'interno della stanza. L'impianto stereo era spento, i muri silenziosi. Fra i suoi cd non c'era nulla di minimamente accostabile alla melodia soave, ariosa, fatta di chitarre jingle-jangle che udiva, con le parole condotte per mano da un'angelica voce femminile.
Una di quelle volte si era seduto sulla poltrona con indosso i pantaloni del pigiama e una camicia aperta, in mano un quaderno e una penna. Aveva chiuso gli occhi per cercare di acchiappare qualche parola: si era dovuto arrendere perché la canzone era stata interrotta e nel quartiere era tornato il solito silenzio. L'orologio della cucina segnava le quattro e cinquantadue minuti. Anche il gatto – un europeo di cenere – s'era svegliato e aveva atteso con la stessa concentrazione del padrone, sistemato immobile davanti a lui con gli occhi socchiusi e qualche sbadiglio a mostrare che era ancora vivo.
............................................................
«Lo sai, credo che qualche mio vicino ascolti musica ad alto volume, la notte.»
«Immagino che gli hai già chiesto di smetterla» disse Liz con il tono che condivideva fastidio e assieme elargiva supporto per il suo ragazzo.
«Sembra che non sia nessuno della palazzina. O almeno, nessuno disposto a confessare.»
«I ragazzini usano le cuffie, adesso, quando si chiudono in camera.» Lo diceva una ventunenne, ci si poteva credere.
«Può darsi che venga da qualche altro appartamento qui vicino.»
Liz si voltò verso la finestra, scostando i capelli dalla spalla e lasciandoli ricadere sulla schiena. Indossava un maglione leggero e leggings neri.
Il panorama inglobava un'ampia strada e sul lato opposto si alzavano alberi rossastri, le cui foglie secche tintinnavano come campanelle arrugginite. Oltre gli alberi c'era il parco, lei notava le panchine e un sentiero che s'attorcigliava finendo nel cemento. Da lì la strada saliva e compariva un edificio gemello della palazzina. Sul lato opposto le abitazioni sembravano più vicine, ma non in modo tale da giustificare una musica che arrivasse fin lì.
«Mi sa che devono tenere il volume alto.» Tornò verso Thomas, che era seduto al tavolo della cucina con una tazza di caffè davanti. Si appoggiò al divisorio dove era sistemato il cellulare. «Che canzone è?»
«Non saprei. Una che non ho mai sentito alla radio.»
«Nuova?»
«Non ne ho idea, ma direi di no.»
«Perché la prossima volta che la senti non usi Shazam?» Gli porse lo smartphone. «Almeno soddisfiamo una curiosità.»
.................................................
«...Thomas...»
La notte era piuttosto luminosa per via della luna piena. Thomas scese dal letto, accese la lampada, osservò per puro scrupolo l'ora – che venne confermata – e cominciò ad aggirarsi per la casa. Controllò ovunque, in posti dove in condizioni normali non avrebbe frugato; poi si buttò sulla poltrona e fissò la parete per raccogliere i ricordi del pomeriggio.
Era andato a trovare i suoi ex coinquilini che gli avevano assicurato, con una buona fede che traspariva dalle parole, di non saperne nulla. Nessuno aveva mai voluto giocargli uno scherzo che non fosse la sorpresa di fargli trovare un pesce fra le lenzuola la sera in cui avevano finito di sistemare la casa e l'avevano costretto ad uscire per comprare del cibo per festeggiare.
Dopo la visita era tornato a casa seccato e aveva trovato il gatto sul letto che osservava il nulla sopra la cassettiera. Gli era seduto accanto e lo aveva accarezzato con distrazione, facendo scorrere lo sguardo in una stanza che cominciava a divenire estranea. "Spifferi d'aria, la canzone, la sensazione che ci sia qualcuno anche se non c'è nessuno."
Provava insofferenza riguardo un appartamento che aveva creduto di poter amare fin dal principio, ma che gli mostrava a volte un sentore di disagio, un'inquietudine nonostante la luce che lo pervadeva finché il cielo rimaneva sintonizzato sul giorno.
Doveva gestire una paura irrazionale che lo coglieva appena tornava dal lavoro; viceversa l'idea di uscire al mattino gli era di conforto. Inconsciamente il suo corpo avvertiva che non era solo. Gli riusciva difficile dormire quando non c'era Liz. Si alzava e controllava con attenzione le stanze, a volte scombinando il percorso – bagno-soggiorno-studio-camera da letto era il tragitto dell'abitudine –, un orecchio teso a qualsiasi rumore: un vicino che starnutiva, lo sgranchirsi di un mobile, la pioggia nella lavastoviglie, l'avanzamento militare della lancetta dell'orologio in cucina, una forchetta che si inclinava facendo vibrare le altre posate in un barattolo di legno.
Niente di quello che udiva lo preparava mai all'avvento della voce che pronunciava il suo nome come se sospirasse dopo un amplesso, e che sempre più spesso riusciva a cogliere sul fatto. Né riusciva a penetrare il segreto di una canzone che era inespugnabile persino per Shazam. Aveva tentato come suggeritogli da Liz: la prima volta lo smartphone si era spento, scarico al punto da costringerlo a collegarlo al caricatore. Durante la seconda, il programma aveva emesso un sibilo come non ne aveva mai uditi e il responso era rimasto sospeso. Sullo schermo non era apparso niente, come se la melodia che lui sentiva ogni volta con maggiore chiarezza non la udisse nessun altro.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro