XVII. Tamacti
Sentii i passi di Ombra e Selva avvicinarsi piano alle mie spalle.
Mi ero fermato poco prima dell’ennesimo burrone cosparso di travi di legno marcio che avremmo dovuto attraversare per arrivare finalmente a Sarymnaia.
Quello che era successo a Selva era stato inevitabilmente tragico.
Nessun essere umano poteva sfuggire al morbo. Non avrei mai voluto che accadesse, lei non se lo meritava, nessuno si meritava una malattia del genere.
I mutanti delle fogne non salivano mai così in alto, attraversare i ponti non era mai stato così pericoloso. Il nostro viaggio probabilmente si sarebbe concluso prima del previsto. Non avevamo abbastanza cuori per nutrire tre Cuorassiti, di cui uno appena nato e quindi più affamato. Non ero nemmeno certo che sarebbe sopravvissuta alla mutazione.
Quando mi raggiunsero, la non più puledra Sembrava stare apparentemente bene. I graffi nel volto e nelle braccia si stavano rimarginando in una velocità inaspettata, eppure Ombra aveva detto che erano ferite profonde.
I suoi occhi però erano tristi, colmi di Lacrime trattenute. Ombra doveva averle rivelato cosa sarebbe accaduto da lì a poche ore.
-Diventeró…come voi.-
non era una domanda ma nemmeno un’affermazione. Era rivolta unicamente a me ed io non sapevo cosa dire, non ero bravo in queste cose.
Quando fui contagiato ero più giovane di lei e mi era caduto il mondo addosso. Ero arrabbiato e avrei preferito morire, piuttosto che diventare un mostro assassino. Non avrei mai dimenticato il dolore che provai durante la trasformazione, una sofferenza che durava giorni e giorni, una fame incontrollata di cuori umani che proseguiva per settimane,per poi placarsi ora dopo ora, diventando via via più gestibile, ma comunque orrenda.
-Mi dispiace. Non abbiamo valutato tutti i pericoli.-
fu l'unica cosa che riuscii a dirle, senza guardarla negli occhi e col mio solito tono di voce autoritario.
Attraversammo anche quel burrone, con più attenzione rispetto a pochi minuti prima, ma quella volta non c'era traccia di mutanti affamati.
Ci fermammo dall’altra parte, già dentro al confine di Sarymnaia, ma prima di uscire alla luce del sole dovevamo fare il pieno di energie.
Porsi il contenitore con il resto delle uova che avevo cucinato a Selva il cui stomaco non smetteva di brontolare da molto tempo, ma nonostante ciò quasi non le toccò.
Presi anche la borsa frigo, chiedendomi se mangiare i cuori davanti a lei non fosse troppo crudo e macabro, ma non importava molto. Presto anche lei gli avrebbe mangiati.
-Devi mangiare, non sappiamo quando troveremo altro cibo, e devi essere Forte per la mutazione.-
Selva giocherellò a lungo con la frittata, ignorando il mio consiglio.
-Che importanza ha, ormai…-
Avrei voluto dirle qualcosa, o che Ombra lo facesse, ma potevo capire la sua tristezza. Era la stessa che avevo provato io quando mi avevano graffiato.
20 anni prima.
Non rimaneva nulla della casa.
Quella che una volta era stata la cucina, la parte preferita della casa, dove mamma passava la maggior parte del suo tempo durante tutto l'arco della giornata a cucinare per noi ricette mediterranee che leggeva sui libri comprati al mercatino del sabato, ora era solamente un buco incenerito e puzzolente in mezzo alla stanza. La bomba aveva colpito proprio quella parte della casa, la parte che teneva unità la nostra amata famiglia.
I Cuorassiti e pochi sopravvissuti umani erano entrati in casa dopo l'ennesimo bombardamento e avevano rubato tutto, dal televisore al plasma al colapasta.
Inizialmente avevo provato a difendere la nostra dimora dai malcapitati di turno, ma dopo giorni mi ero arreso.
Che prendessero tutto, oramai non c’era più nulla da fare per riunire la famiglia. Non esisteva nessuna famiglia.
La mamma era morta sul colpo, proprio mentre faceva quello che amava fare più di qualsiasi altra cosa.
Stava preparando il pane, ascoltando e canticchiando le parole di una canzone pop alla TV, ignara di quello che sarebbe accaduto da lì a momenti.
La bomba aveva attraversato il primo piano, distruggendo Buona parte delle nostre camere da letto prima di atterrare al piano terra, su mia madre.
Quel giorno Jacob, il maggiore dei figli, era a scuola, al sicuro.
Irivin invece era nella sua camera a giocare alla PlayStation, e la bomba gli aveva portato via solo una gamba, ma per lo meno era ancora vivo.
Io ero stato più fortunato. Giocavo in giardino, prima dell’esplosione.
Dopo la morte di mia madre, le mie priorità furono prendermi cura del mio fratellino di dieci anni.
Non sapevamo dove andare e vivevamo da soli in quella villetta distrutta, anonima fra le altre case in rovina del vicinato.
Ci eravamo nascosti bene, e spesso tornavo al piano terra per cercare del cibo fra gli scaffali della ormai ex cucina, e guardavo fuori sperando di veder arrivare mio padre o Jacob, ma quello che mi si presentó di fronte fu la disperazione.
Creature con le sembianze umane che mangiavano i propri simili, più agili e belli degli zombi della tv ma con la stessa fame nervosa.
Sapevo che prima o poi ci avrebbero trovato. Avrebbero divorato quei due poveri bambini nascosti nella cantina ed era forse la cosa migliore. La morte era la scelta più saggia.
Una sera, mentre tornavo a casa con i farmaci per Irvin trovati nelle altre case distrutte del vicinato, rischiando più volte di essere acciuffato da uno dei mostri che popolava la città, trovai il mio fratellino in fin di vita.
Non ero un medico e sapevo che quello che stava per accadere era inevitabile, eppure non mi passò nemmeno per l'anticamera del cervello che la situazione poteva andare peggio di così.
Gli occhi di Irvin erano diventati gialli ed erano simili a quelli del nostro gatto, con le pupille allungate. La sua pelle era grigiastra e i suoi canini più appuntiti di come ricordavo.
Quella sera provò ad aggredirmi, ed io dovetti ucciderlo per difendermi. Non sembrava riconoscermi come suo fratello, era esattamente simili agli animali che entravano in casa nostra in cerca di cuori, puntava le sue lunga dita verso il mio petto, con la bava alla bocca.
Le sue unghie erano più lunghe e appuntite delle mie e di qualsiasi persona,e fu con quelle che mi laceró più volte la pelle delle braccia prima di morire, accoltellato da suo fratello.
Erano state le bombe a portare quel male che avrei accolto presto anche dentro di me. Nessuno aveva idea di cosa avesse scatenato il morbo e l'apocalisse, ma io ne avevo la prova confutabile.
Pensai molte cose, mentre avveniva la mia mutazione e degenerazione della malattia in quella buia cantina.
Pensai di uccidermi e di andare a cercare mio padre e mio fratello, ma non feci nessuno delle due cose.
Vagai come uno di quei mostri che guardavo sempre di nascosto divorando i cuori dei pochi umani sopravvissuti che incontravo durante il cammino.
Quando la malattia si placò, stazionandosi in una fame Controllata e non in un animale selvatico, imparai a vivere da solo e a difendermi dai miei simili. Scoprii che la malattia si estese per tutto il mondo e che gli umani diminuivano giorno dopo giorno.
Scoprii che Mio padre, un militare in congedo, era morto probabilmente lo stesso giorno in cui era morta mia madre, sempre a causa dei bombardamenti.
Cercai in lungo e in largo il mio unico fratello rimasto, ma una volta fermato a Minartas, mi arresi. Doveva essere morto anche lui, ed anche se fosse stato ancora vivo, c’erano ottime possibilità che fosse diventato un Cuorassita.
Non avevo più nessuna ragione per vivere. Il mio unico scopo era svegliarmi e andare a caccia di cuori umani, uccidere i pochi umani innocenti rimasti sulla terra.
Fare il mercante di cuori mi dava l'opportunità di Esplorare ettari e ettari di città abbandonate, perché nonostante lo negassi, ero sempre alla ricerca di una squarcio di comunità, di mio fratello Jacob e di una vita vera. Non mi ero mai arreso e mai lo avrei fatto.
Non avevo mai raccontato la mia vita prima dell’apocalisse a qualcuno che non fosse Ombra, che mi conosceva come le sue tasche.
Selva mi aveva ascoltato attentamente, ignorando il suo cibo umano, probabilmente l'ultimo che avrebbe mangiato da li a poche ore.
Diventare un Cuorassita per me era stato un trauma, un evento davvero tragico che mi aveva fatto perdere tutte le persone a mee care.
Avevo desiderato tanto mettere fine alla mia vita, in quei lunghi vent'anni ci avevo pensato spesso, ma solo in quel momento capii che non potevo farlo. Avevo perso tutto, ma forse Dio aveva un piano anche per un povero mostro come me.
Avevo uno scopo, e forse per quel motivo alla fine non mi ero semplice buttato da un ponte sugli abissi per essere divorato da un mutante. Quello scopo era prendermi cura di Selva.
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