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IV. Selva

Era arrivato quel momento nell’ anno, il tempo giusto, il mio tempo preferito. Era il momento in cui potevo indossare il mio vestito preferito, quello rosso fuoco con i fiorellini bianchi che mi arrivava fin sopra alle ginocchia e i volant sulle maniche corte.

Era di mia madre ed era il suo preferito quando aveva la mia età. Aveva conosciuto papà con quel vestito e lui si era subito innamorato.

Di certo non avrei immaginato di usarlo per andare all’ospedale comunale.

Mi avevano chiamato la sera precedente durante la cena. Avevano detto che volevano farmi ulteriori test riguardo all’ esame della fertilità che avevo appena fatto.

Avevo saltato il lavoro e mia madre mi aveva accompagnato quella mattina, aspettando con me nella sala d'attesa, mordendosi le labbra come faceva sempre quando era nervosa.

Tutte e due eravamo spaventate. Non succedeva tanto spesso che richiamassero due volte le ragazze per gli esami. Avevo pensato al peggio, forse volevano solamente dirmi che da lì a poche ore sarei dovuta andare al piano inferiore.

Una donna con la divisa bianca chiamò il mio nome, dicendomi che il dottore mi aspettava in laboratorio.

-Tesoro io devo andare a lavoro, tu stai tranquilla, va bene? Ci vediamo più tardi amore.- Mi abbracciò a lungo per poi staccarsi e guardandomi con occhi speranzosi.

Non mi chiamava mai con quei nomignoli, doveva essere davvero preoccupata.

La rassicurai ed entrai nello studio dello stesso dottore che mi aveva fatto gli esami.

La visita durò meno del previsto e non fui trasferita a Minartas di sotto.

Mi collegarono dei cavi al petto e mi misurano la pressione. Quando gli chiesi perché quei controlli insoliti, non mi diedero una risposta esaustiva. Mi dissero che erano delle visite di routine.

Uscii dall’ospedale più sollevata di quando ci ero arrivata, ma con un senso di spossatezza e confusione. Sentivo che mi stavano nascondendo qualcosa e non riuscivo a sentirmi ancora sicura.

A casa a quell’ora non c'era ancora nessuno, e avrei cominciato il mio turno alla lavanderia solo dopo pranzo, così decisi di farmi un giro per il mercato cittadino.

Non era molto esteso ed oltre alle verdure che coltivavano i contadini nei loro piccoli orti dietro casa, frutta e vegetali dai nomi strani, non c'era molto altro.

Alcune donne vendevano i vestiti che cucivano loro e le più giovani dei braccialetti intrecciati di tessuto. C'erano molte cose belle da vedere in quel posto e non ci passeggiavo da tanto.

C’erano solo madri indaffarate che facevano la fila per accaparrarsi una cassa di cipolla prima che fosse troppo tardi.

Comprai degli spinaci e dei porri che avrei fatto trovare a casa quando mamma sarebbe rientrata da lavoro. Riconobbi le mamme dei miei ex compagni di classe e anche loro sembravano contente di vedermi.

Comprai una focaccia da mangiare per pranzo e la gustai ai piedi della chiesa, osservando distratta i bambini più piccoli che giocavano a pallone vicino al mercato, rincorrendo la palla che si intrufolava fra le bancarelle.

Decisi di tornare a casa e prepararmi per il turno pomeridiano. Non passai per la strada principale perché i venditori stavano sgomberando le strade e c'era un gran casino, così passai per le stradine strette e deserte dove c'erano gli alloggi più belli e sicuri, posti a schiera e più alti di tutti gli altri alloggi.

Non c'erano molti controlli lì. I Cuorassiti difficilmente sceglievano le case dei più ricchi perché erano estremamente protette ed entrarci non era facile.

Dovevo fare un giro più lungo per arrivare a casa,ma non mi dispiaceva camminare un po’.

Svoltai l’angolo stretto e rallentati il passo quando vidi due giovani soldati intenti a fumare e chiacchierare sull’uscio di una porta di un grande palazzo. Dovevano avere pressappoco qualche anno in più di me, probabilmente li avevo anche visti nella mia scuola in passato.

Non si accorsero immediatamente di me, ma quando fui abbastanza vicina smisero di parlare.

Abbassai il capo e aumentai il passo. Sentivo i loro sguardi interessati puntati sulla mia nuca.

La strada era molto stretta e gli bastò mettersi uno accanto all’altro per bloccarmi la via. Alzai velocemente lo sguardo potendo confermare la mia prima ipotesi. Erano alti e ben piazzati, ma il loro volto era infantile esattamente come il mio.

-Ehi ragazzina…non dovresti essere a scuola?- chiese quello con i capelli rossi e il capello abbassato sulla fronte.

Puntai lo sguardo sulle loro pistole e manganelli legate alla cintura. La divisa dei soldati era grigia e Anonima come quel posto.

Non gli risposi e provai a superarli inutilmente.

-Il mio amico ti ha fatto una domanda! Rispondi ! – dovetti alzare lo sguardo e incrociare lo sguardo con l'amico più basso.  Notai che aveva posato una mano sulla fondina.

-No, non ci vado più a scuola.-

-Ah sì? E dove stai andando?-

-A casa.- provai nuovamente a passare, ma uno dei due mi afferrò il braccio in una stretta ferrea.

-Non ti hanno insegnato che bisogna portare rispetto alle forze dell’ordine ordine, mocciosa? –

Provai a liberarmi dalla sua presa. I due ragazzi cercavano di assumere un espressione seria e autoritaria ma non riuscivano a smettere di sghignazzare.

-Lasciatemi.-

-Non è il modo di parlare, donna. Hai bisogno di qualcuno che ti tenga a bada.- guardai disgustata le loro brutte facce che ridevano come se fosse il miglior scherzo di sempre.

Due mani possenti si posarono sulle mie spalle e fui tirata indietro. I ragazzi mi lasciarono e guardarono confusi e intimiditi l'uomo che mi aveva liberato dalle loro grinfie.

Mi aveva circondato le spalle con un braccio e mi teneva ancorata al suo fianco. Dovetti alzare lo sguardo per riuscire a vederlo in faccia, visto che ci separavano almeno quaranta centimetri. Dalla mia prospettiva tutti erano Altissimi, ma lui doveva essere un gigante.

I soldati si allontanarono un po’, posando una mano nelle pistole sulle fondine.

-Eccoti! Ti stavo cercando! Mia figlia vi stava infastidendo forse?-

la sua voce era roca e baritonale e sembrava realmente divertito mentre pronunciava quelle parole. Avevo un’ accento diverso dal mio e di quello dei soldati, ma non era una novità. Di quelli che erano rimasti intrappolati a Minartas nessuno aveva lo stesso accento o dialetto. Venivamo tutti da paesi diversi, prima della guerra.

Li stava prendendo in giro e la cosa divertita anche me.

I due ragazzi balbettarono qualcosa di incomprensibile e si guardarono dubbiosi.

La presenza di quell’ uomo affianco a me gli intimoriva. Forse erano i suoi occhi, di un azzurro così chiaro da sembrare bianco. Erano degli occhi davvero belli, in contrasto con le tre cicatrici in rilievo che aveva sull’occhio destro. Era molto marcata e doveva essere lì da molto.  Sembrava quasi che un animale lo avesse graffiato con i suoi lunghi artigli.

I capelli biondo scuro gli arrivavano quasi fino alle spalle ed erano raccolti velocemente solo a metà. Indossava dei vestiti ambigui. I pantaloni erano neri e semplici ma indossava una giacca ingombrante e scura, ma nonostante i vestiti pesanti che indossava in quella giornata afosa percepì che doveva essere molto forte.

-Bene, non vi disturberà più, così potete tornare al vostro utilissimo lavoro. Soldati.-  fece un cenno di saluto con la mano e mi spinse a camminare al suo fianco, senza mai mollarmi.

Non avevo idea di cosa stesse succedendo ma girato l'angolo accelerò il passo e diventò difficile stargli dietro.

Volevo dire qualcosa ma non avevo parole. Qualche volta gli lanciavo un’occhiata ma lui guardava solamente davanti a se.

-Continua a camminare. Mi stanno inseguendo.-

Provai a voltarmi ma non vidi nessuno dietro di noi. Dovetti iniziare a correre per mantenere il suo passo.

Ci fermammo bruscamente in un incrocio fra due stradine strette e solo allora mi lasciò andare. Notai che sotto il braccio ben nascosto dalla giacca reggeva quello che sembrava un ventilatore.

-Stanno arrivando.- si chinò a alzò la copertura di cemento di un tombino al centro dell’ intersezione come se fosse un pezzo di carta.

-Grazie per la copertura, piccola .-


L'armadio che si era finto mio padre per allontanare quei soldati era saltato dentro al tombino con leggiadria, chiudendolo col coperchio poco prima che tre soldati arrivassero alle mie spalle.

Si guardarono intorno confusi, i fucili e le pistole alla mano.

-Da che parte è andato?- mi chiese uno di loro.

Indicai una direzione a caso dell’incrocio e loro mi ringraziarono con un cenno della testa correndo in quella direzione.

Rimasi a lungo a guardare quel tombino chiedendomi se non mi fossi immaginata tutto.

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