Capitolo Venti
Cristiano
Sono in ritardo di tredici minuti. È strano che io sia in ritardo, non mi capita mai e fare tardi è una cosa che detesto. Odio farmi aspettare, perché sono il primo a odiare l'attesa, non c'è cosa più fastidiosa di un ritardatario. Come mia sorella Celeste, lei sì che si fa sempre aspettare, a volte anche per un'ora intera. Adesso sono io che sto facendo attendere la Principessa d'Italia, mica una persona qualunque. Forse da qualche parte, magari in un Decreto Regio risalente al diciassettesimo secolo, far aspettare l'erede al trono è previsto come reato. Non ne ho idea, ma è troppo tardi per pensarci.
Quando riesco finalmente a parcheggiare la mia maledetta macchina e scorgo in lontananza il bar in cui mi sono dato appuntamento con la Principessa, il mio ritardo è arrivato quasi a venti minuti.
In ogni caso, c'è una spiegazione a tutto questo. Sono uscito dalla Questura non appena ho riattaccato con Veronica, mi sono infilato in macchina e sono partito, ma purtroppo mi sono reso conto troppo tardi di aver fatto una grandissima cazzata e che ci avrei messo di meno a piedi. Mi sono ritrovato imbottigliato nel traffico romano delle tre del pomeriggio, i minuti hanno iniziato a scorrere e le tre sono state superate in fretta. Tutto questo mi ha fatto arrabbiare, naturalmente, e mi sono fumato ben quattro sigarette in macchina. La relazione esistente tra l'incazzatura e le sigarette che mi viene da fumare quando mi girano non è ancora chiara nella mia mente, ma sì, è palese, devo smettere di fumare, come mi ripetono di continuo mia madre, mia sorella, mia figlia. Magari l'anno prossimo. Ho avuto voglia di accenderne un'altra, durante il tragitto dalla macchina al bar, ma ho desistito, già puzzo troppo di fumo.
Spingo la porta di vetro del locale e ci metto pochi attimi a individuarla. Indossa lo stesso foulard e gli occhiali da sole di qualche giorno fa, ma un vestito diverso. È azzurro e lascia scoperte gran parte delle gambe, ancora senza calze, per colpa dell'aria ancora troppo calda, nonostante l'autunno sia arrivato da un pezzo. Non sta guardando nella mia direzione, ma verso lo smartphone sul quale sta digitando qualcosa.
«Scusa il ritardo!» esclamo, non appena la raggiungo. Veronica sobbalza.
«Ehi!»
Si alza, e quando si ritrova in piedi fa un'espressione strana, quasi si sia resa conto troppo tardi di averlo fatto. Mi guarda attraverso gli occhiali da sole e un sorriso impacciato si apre sulle sue labbra.
«Ciao,» mi saluta ancora, «non ti preoccupare, sono qui da pochissimo.»
Chissà se è vero. Tento di ricambiare il sorriso, ma probabilmente mi viene fuori solo una smorfia. Non sono mai stato bravo nei rapporti umani, in fin dei conti. Ci sediamo, l'uno di fronte all'altra. Il cameriere si avvicina subito al nostro tavolo.
«Salve, cosa vi porto?» domanda, con un sorriso entusiasta. Troppo entusiasta, secondo me, ma io non faccio testo.
«Un caffè», ribatto, un po' troppo brusco. L'attenzione si sposta su Veronica.
«Anche per me, macchiato caldo, grazie», mormora rapida, senza guardarlo. Il ragazzo ci ringrazia e scompare all'istante.
Rimaniamo soli, in silenzio. Mi piace il silenzio. Preferisco rimanere zitto, quando non ho niente di intelligente da dire e credo il silenzio, a volte, valga più di mille parole. Veronica, invece, tende a parlare in continuazione, a riempire qualsiasi pausa con le parole, perché non le piace per niente il silenzio, l'ho capito, anche se lei non me l'ha mai detto. Ho capito parecchie cose di Veronica, anche se non ne sono del tutto consapevole.
«Come stai?» mi chiede infatti, le guance arrossate, dopo nemmeno trenta secondi in cui nessuno dei due ha spiccicato parola. Ho l'impulso di sorridere, ma mi trattengo.
«Tutto bene», le rispondo e vorrei dire altro, ma non mi viene in mente niente. Forse non sono più in grado di avere un rapporto con una persona che non sia qualcuno che conosco da anni o per questioni di lavoro. Realizzo di essere teso, ma non so il perché. Ripenso a qualche giorno fa, alla passeggiata a Trastevere e alle parole che ci siamo scambiati. È stato così facile, ma anche così strano. Mi è sembrato quasi nuovo, ma la verità è che semplicemente non mi succedeva da troppo tempo.
«Ecco i caffè, per chi è il macchiato?»
Sono stati veloci. Un ragazzo diverso da quello che ha preso le ordinazioni posa le due tazzine davanti a noi ed è di nuovo normale non parlare. Veronica versa la sua bustina di zucchero e poi alza lo sguardo su di me. Le porgo anche la mia.
«Non so come fai...», mi lascio scappare, scuotendo la testa. Veronica solleva le sopracciglia.
«A fare cosa?»
«A mettere tutto quello zucchero nel caffè, è disgustoso.»
«Disgustoso? Ma se tu lo prendi amaro, cosa vuoi capirne?»
Scoppio in una risata scettica. Veronica risponde con una smorfia, ma non si è offesa. La vedo sorridere, un po' indispettita, mentre recupera con il cucchiaino gli ultimi residui di latte e zucchero.
«Nemmeno il latte immagino tu beva, vero?» Si infila in bocca il cucchiaino e i suoi occhi coperti dagli occhiali da sole incrociano di nuovo i miei. Mi sembra di vedere le sfumature delle sue iridi azzurre attraverso le lenti scure.
«Immagini bene», replico, gli angoli della bocca ancora all'insù. Mi sento rilassato in questo momento, mi sento il cervello libero. Non mi succede spesso. Non mi succede mai.
«Sei strano», conclude, come per mettere fine alla questione.
«Lo so», ammetto, trattenendo un altro sorriso. La osservo bere il suo bicchiere d'acqua e, all'improvviso, mi ricordo della ragione del nostro incontro. Sto perdendo tempo a far finta di flirtare con la Principessa d'Italia anziché lavorare. Mi porto la mano destra nella tasca del giubbotto di pelle e afferro il cellulare. Cerco in fretta la foto.
«Questo è l'uomo che ha comprato il telefono che ha scritto quei commenti.»
Veronica mi sembra turbata. Si sistema i capelli dietro l'orecchio destro, come face spesso quando è nervosa. Non riesco a capire perché. Forse ho infranto quel momento di intesa. O forse mi sto inventando tutto e non è affatto turbata.
«Sì, fammi vedere», dice subito dopo, afferrando l'apparecchio. Le nostre dita si sfiorano. Veronica comincia a scorrere le foto in bianco e nero. Ha delle mani molto piccole. Dita sottili, unghie corte ma curate, delle belle mani. Distolgo lo sguardo solo quando alza il viso e sono costretto a guardare quello.
«Non ho la più pallida di chi sia», dichiara, infastidita dalla propria mancanza. «Sono inutile, lo so.»
Fa una pausa e finisce il suo bicchiere d'acqua. La imito, anche se non ho molta sete. Veronica si guarda intorno e si toglie gli occhiali. Forse le danno fastidio, questo angolo del bar è piuttosto buio. Posa il bicchiere e mi guarda. Posso rivedere i suoi occhi azzurri.
«Avresti potuto inviarmi le foto e basta, hai perso solo tempo a venire qui», mormora, iniziando a torturarsi il labbro inferiore con i denti. «Perché hai voluto vedermi?»
Non me l'aspettavo, o meglio, fino adesso ho cercato in tutti i modi di non pormi questa domanda. Veronica non ci ha pensato due volte a chiedermelo, a domandarmi perché le ho proposto di incontrarci di persona quando sarebbe stato più semplice spedirle le immagini. Il fatto è che non mi è proprio passato per la mente, le ho subito chiesto di incontrarci non appena mi sono arrivate le foto. Mi prendo qualche secondo, prima di parlare.
«Non lo so», rispondo, nel modo più sincero possibile. «Ho subito pensato di fartele vedere, di persona. Tutto qui.»
Tutto qui. O forse no. Veronica ascolta la risposta e sorride. Abbassa lo sguardo. Si imbarazza spesso, anche quando non serve. È una cosa strana, per una ragazza abituata a stare sotto i riflettori sin dal giorno della sua nascita. Tanti fotografi l'hanno ritratta, tante telecamere l'hanno ripresa, ma Veronica d'Italia arrossisce ogni volta che qualcuno le fa un complimento o si trova in difficoltà. Mi ritrovo a sorridere anche io, senza premeditarlo.
«Allora grazie», sussurra, talmente piano che mi domando se abbia parlato davvero. Sto per rispondere, quando il cameriere si avvicina.
«Gradite qualcos'altro?» Ci voltiamo a guardarlo entrambi.
«Per me nulla, grazie», risponde Veronica, sorridendo con una gentilezza estrema, per poi girarsi ancora. Dal suo sguardo capisco che si è accorta troppo tardi di averlo guardato in faccia. Senza occhiali da sole. Un guizzo di panico mi attraversa lo stomaco.
«Principessa Veronica?!»
Merda. Il ragazzo ha urlato. Veronica sussulta e si copre gli occhi il più veloce possibile. Mi alzo di scatto.
«Andiamo, via, grazie.» Mi avvicino a lei e le afferro il braccio.
«Vieni.»
«Dovete pagare.»
Ora picchio questo cameriere. Soffoco un'imprecazione, mentre cerco il portafogli nella tasca posteriore dei jeans. Tiro fuori una banconota da dieci euro.
«Tenga il resto.» Ficco i soldi in mano a questo cretino, mentre lui continua a fissare Veronica, piantato di fronte a noi due.
«Posso farmi un selfie con la Principessa?» domanda ancora, senza muoversi, a voce sempre più alta. Varia gente si volta nella nostra direzione. Sto cominciando a incazzarmi sul serio.
«No, dobbiamo andare, ti puoi spostare, per favore?»
Si toglie solo grazie a una spallata. Mi dirigo verso l'uscita, il braccio destro attorno alle spalle di Veronica.
«Ma è davvero la Principessa?»
«E che ci fa qui?»
«Principessa, facciamoci una foto!»
«Ma chi è quello? Il nuovo fidanzato?»
Sono state scattate anche delle foto, ma lei non le ha notate, o almeno così spero. Tiene la testa bassa, contro la mia camicia, e non so come riusciamo a uscire dal bar. Maledizione, perché non ci siamo incontrati in Questura, sono stato un coglione ad accettare di incontrarla qui. Affretto il passo, cercando di lasciarmi alle spalle quel maledetto locale. Cammino in fretta senza guardarmi attorno, e solo quando capisco di essere arrivato a Piazza Farnese, mi fermo. Non c'è molta gente, le uniche persone che ci circondano sono troppo impegnate nei loro affari per badare a noi. Sciolgo l'abbraccio, forse troppo intimo, con Veronica e la guardo. Tiene ancora il volto basso. Le metto una mano sotto il mento e lo sollevo con calma.
«Ehi, stai bene?»
Tira fuori l'aria e mi sembra quasi che fino adesso abbia dimenticato di respirare. Annuisce, piano, con gli occhi ancora celati da quegli occhiali da sole.
«Siamo al sicuro, qui.»
Poso una mano sulla sua guancia, senza pensarci troppo. L'ansia non mi ha ancora abbandonato del tutto. Ho agito d'impulso, come mio solito, ho preso in mano la situazione e l'ho allontanata da quel caos e da tutta quella gente, ma solo adesso mi rendo conto di quello che ho provato. Un senso di protezione nei suoi confronti, una rabbia acuta verso quelle persone che volevano solo farle una foto, l'urgenza di portarla via da lì e di tutelarla. Ora siamo al sicuro e non riesco a comprendere bene cosa stesse succedendo. Veronica, nel frattempo, ha messo la mano sulla mia, ancora sulla sua guancia.
«Grazie», mi sussurra con una dolcezza a cui non sono abituato. Mi ritrovo a sorridere.
«Dovere.»
Dannazione quanto sono belli questi occhi azzurro cielo. Troppo impegnato a guardarli, non mi accorgo che ha fatto un passo in avanti. Non realizzo subito che questa volta è lei a mettere entrambe le mani sul mio viso e a baciarmi. Mi ritrovo le labbra della Principessa d'Italia sulle mie. Ne rimango stupito, e mi ritraggo.
«Principessa...» Ho tirato indietro la testa, sciogliendo quel bacio, che è stato talmente breve che forse non può nemmeno essere chiamato tale. Non so nemmeno perché l'ho chiamata così. Veronica ci mette un po' a capire quel che è appena successo. Ma poi, inevitabilmente, comprende.
«Oddio!» esclama, gli occhi spalancate. Si mette una mano sulla bocca. «Scusami, non dovevo, mi sono fatta trascinare dal momento. O mio Dio...»
Non parlo. La guardo imprecare contro se stessa, maledicendosi per ciò che ha appena fatto. Non so che cosa pensare. Perché mi ha baciato? Ma soprattutto, perché mo sono tirato indietro?
«Stai tranquilla,» riesco a dire, qualche secondo dopo, «non fa niente, non ti preoccupare.»
Veronica ha l'aria di una che vorrebbe solo sprofondare e non tornare più in superficie. La vedo annuire, rossa in viso, imbarazzata come mai l'ho vista.
«Andiamo, ti riporto a Palazzo, ho la macchina qui vicino.»
Annuisce. Le faccio cenno di incamminarsi verso destra, ma stavolta non la tocco. Non sono sicuro che accetterebbe di farsi abbracciare ancora, nemmeno per la sua sicurezza. Io non riesco a pensare a nulla. Sono solo assurdamente confuso.
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