17. Travestimento
Giugno 1820, Napoli
Il fortino si ergeva all'estremità del piccolo porticciolo, benevolo, come uno zio panciuto che regala dolcetti ad ogni occasione di festa.
Le finestre alle torri parevano grandi occhi attenti, che scrutavano il mare e la città di Napoli all'orizzonte.
Eravamo giunti al porto quella mattina, quando una leggera nebbia nascondeva ogni cosa all'occhio meno attento. Il capitano David si era premurato di nascondere la bandiera nera che l'avrebbe fatto riconoscere all'istante come pirata e aveva raccontato all'uomo, che era giunto per farsi dare il compenso necessario per ormeggiare in porto, di essere un semplice mercante.
Victoria era comparsa appena la nebbia aveva iniziato a diradarsi, con un cesto coperto, al cui interno vi era un abito da suora per me e uno da prete per il capitano. Poi era nuovamente scomparsa per le vie della città, dopo aver annunciato che avrebbe trovato un modo per raggiungere Roma, dove avrebbe tenuto sotto stretta osservazione mio padre e il duca Thomas Raggi della Rovere.
Dopo aver affittato un'umile carrozza, ci eravamo messi in marcia e ora ci trovavamo a pochi passi dal fortino in cui abitava la vedova Agostino d'Olmi.
Il capitano David aveva trascorso la maggior parte del viaggio a ripassare il piano nei minimi dettagli, deciso a non lasciare nulla al caso e io ero rimasta ad ascoltarlo, prendendo grandi respiri profondi, terrorizzata all'idea di svenire da un momento all'altro.
L'abito da suora che indossavo era particolarmente pesante per quella calda giornata estiva e il mal di testa, misto ad affaticamento, mi faceva sentire, ad ogni secondo che passava, sempre più vicina allo svenimento. Mai come in quel momento, avrei voluto avere i sali che Annarita si premurava sempre di farmi avere, soprattutto in estate, quando i miei svenimenti, causati dall'afa, si facevano più frequenti.
«Siete pronta, Caterina?», chiese il capitano, appena la carrozza si fermò di fronte al fortino.
Presi un profondo respiro e annuii.
Non potevo mostrare la mia momentanea debolezza al capitano, altrimenti avrei rischiato di far fallire la mia prima missione da pirata, e non potevo permettermi di macchiare così presto la mia precaria reputazione tra la ciurma.
«Andiamo», disse il capitano, scendendo dalla carrozza, prima di porgermi una mano, per aiutarmi.
Mi appoggiai momentaneamente a lui, una volta posati i piedi a terra e inspirai, con una smorfia, l'odore poco gradevole del porticciolo, dove alcuni uomini stavano sventrando dei pesci, prima di portare lo sguardo in quello del capitano.
«Vi sentite bene?», mi chiese, posando una mano sulla mia fronte sudata: «Non avete un bell'aspetto, Caterina».
«È l'afa», dissi, portando le mani a sistemare il mio abito e il mio copricapo, entrambi neri e pesanti: «Quest'abito è una tortura».
Il capitano mi porse il braccio, avviandosi verso l'ingresso del fortino, un portone in legno scuro, alto e imponente: «Avvertitemi se doveste sentirvi poco bene, Caterina».
Annuii e gli sorrisi: «Abbiamo un tesoro da trovare, Damiano, non preoccuparti per me».
Gli occhi gli brillarono alla menzione del bottino che ci attendeva e annuì convinto, prima di bussare.
Il portone si aprì ed apparve un uomo in livrea, dai baffi maniacalmente curati e la testa pelata, i cui occhietti scuri ci fissarono con attenzione: «Buongiorno, come posso aiutarvi?»
«Buongiorno, figliolo», disse il capitano, sorridendo affabilmente: «Questa è suor Concetta dell'Istituto delle Suore della Carità e io sono il nuovo parroco della Chiesa di Santa Maria del Parto, Don Matteo».
L'uomo ci osservò brevemente, poi s'illuminò: «Ma certo, avete scritto, la signora vi attende, prego, seguitemi».
Entrammo nel fortino con fare circospetto, osservando con attenzione ogni elemento intorno a noi.
Tramite una conoscenza di Torchio avevamo mandato una lettera quel giorno stesso, appena sbarcati, dove avevamo informato la vedova Agostino D'Olmi che saremmo presto giunti a farle visita per sollecitare una donazione da parte della donna all'Istituto delle Suore della Carità, che stava passando un periodo difficile dopo la morte della Madre Superiore.
In realtà, ogni parola di quella lettera era una bugia, ma di questo la vedova sembrava non essersi accorta e ci stava accogliendo in casa sua con l'illusione di ricevere una benedizione e una confessione dal nuovo parroco della chiesa, chiesa che non riusciva a frequentare a causa dei gravi problemi fisici, e di conoscere una giovane suora che le avrebbe chiesto una piccola donazione per un'istituzione caritatevole.
In parte mi sentivo in colpa per quell'inganno così ben architettato, ma l'adrenalina che mi scorreva nelle vene — e che sembrava l'unico elemento ad impedirmi di svenire in quel momento — zittiva il senso di colpa e alimentava l'impazienza e l'audacia.
Trovammo la vedova Agostino d'Olmi presso una terrazza del secondo piano, che dava sul mare sottostante, dove una leggera brezza le muoveva le gonne dell'abito scuro — a lutto — che indossava.
Provai sollievo nel sentire quel fresco venticello provenire dal mare e mi sentii rinvigorita, tanto da riuscire a sorridere affabilmente.
«Buongiorno, signora», dissi, inchinando leggermente il capo, come mi era stato insegnato fin da piccola: «La vostra dimora è incantevole».
La vedova sorrise e la ragnatela di rughe sul suo volto s'infittì. Doveva esser stata una bella donna da giovane, malgrado la malattia e l'età, manteneva dei vivai occhi verdi e i radi capelli che le coprivano il capo erano di un bianco quasi abbagliante.
«Benvenuti», disse la signora, posando con le dita che le tremavano appena la tazzina sul tavolino accanto alla sedia su cui era seduta: «Vorrei alzarmi, ma temo che oggi le mie gambe non me lo permetteranno».
«Non si scomodi, figliola», disse Damiano: «Sono Don Matteo, il nuovo parroco della Chiesa di Santa Maria del Parto e questa è suor Concetta, dell'Istituto delle Suore della Carità. Siamo lieti di fare la vostra conoscenza».
«Il piacere è tutto mio, Don Matteo, spero che il viaggio fino a qua non sia stato troppo estenuante, gradite bere qualcosa? Una tazza di tè, magari?»
«Suor Concetta ha fatto voto di digiuno questa settimana, quindi suggerirei della semplice acqua, ma io sarei ben felice di accettare un tè con biscotti».
Nascosi magistralmente la sorpresa nell'udire quella parole e tutto ciò che trapelò sul mio viso fu una piccola smorfia per quella bugia che mi avrebbe impedito di prendere il tè con loro.
L'incontro procedette com'era nei piani.
Dopo una breve confessione, Damiano si allontanò per benedire l'intera casa; scusa perfetta per perquisire le stanze e cercare dell'oro o dei gioielli nascosti.
Rimasta sola con la vedova, le parlai dell'Istituto delle Suore della Carità, che si trovava nel Chiostro di Santa Maria Regina Coeli dal 1811 e del periodo difficile che stavamo attraversando, mentendo spudoratamente e inventando nomi e situazioni per addolcire il cuore della vedova di fronte a me.
Ottenni un paio di monete d'oro, che la donna estrasse da un sacchetto di seta che teneva legato in vita e la promessa di ricevere a Natale una nuova offerta per l'Istituto.
A quelle parole, parte del senso di colpa che sentivo svanì; all'idea di aver comunque portato una ricca vedova a donare per una buona causa.
In quel momento, mentre attendevo il ritorno di Damiano, occupata ad ascoltare gli sproloqui dell'anziana donna, la piacevole brezza marina diminuì fino a scomparire e l'afa del mezzogiorno mi colpì violentemente, riportandomi allo stato di confusa sofferenza che avevo provato in carrozza.
Svenni senza rendermene quasi conto, proprio mentre la vedova mi stava raccontando del suo defunto marito, morto da almeno dieci anni ormai, di cui continuava a sentire una terribile mancanza.
Quando ripresi coscienza mi trovavo sdraiata sulla carrozza, il capitano David mi faceva aria con un panno nero e mi chiamava, gli occhi tesi dalla preoccupazione, che si rilassarono, quando si rese conto che avevo ripreso i sensi.
«Il tesoro?», gli chiesi con la voce debole per il recente svenimento.
Il capitano sorrise e si sporse per darmi un bacio, che rischio di farmi perdere nuovamente i sensi: «L'ho preso, Caterina! Era in camera sua, sotto al materasso, un ammasso di gioielli e monete che ora è al sicuro qui», disse, indicandosi il petto, dove aveva cucito apposta una tasca per contendere quanto avrebbe trovato: «Il tuo svenimento mi ha permesso di prenderti e fuggire da quel posto senza troppe cerimonie e saluti, sei stata bravissima!»
Aggrottai leggermente la fronte: «Non l'ho fatto apposta».
«Lo so, non importa, sei stata bravissima comunque!»
Fu in quel momento, mentre mi lasciavo contagiare da quella gioia, che mi resi conto di essere appoggiata col capo alle gambe del capitano e le mie gote assunsero il colore della porpora.
Provai a sollevarmi e lui mi aiutò, appoggiando la mano sulla mia schiena. Inorridii alla vista dell'abito da suora riverso sul pavimento; a coprire le mie membra accaldate la semplice sottoveste bianca in lino, il corsetto allentato e i mutandoni.
«Mi avete spogliata», sussurrai, infastidita.
Non era la prima volta che il capitano David mi privava dei miei indumenti, mentre ero priva di sensi: «Siete un maiale!»
«Stavate morendo di caldo, Caterina... o negate forse che a farvi svenire non sia stata l'afa di questa torrida giornata estiva?»
Rimasi in silenzio per qualche secondo, poi le tensione nel mio corpo si allentò e sospirai, voltando il capo per osservare il viso del mio salvatore: «Avete ragione, trovo comunque sconveniente trovarmi, per l'ennesima volta, in sottoveste di fronte a voi».
Gli occhi di Damiano abbandonarono il mio viso per scivolare sul mio corpo, vi lessi desiderio in quello sguardo ferino e il mio cuore iniziò a singhiozzare scompostamente nel mio petto.
«La vista non è male», disse l'uomo, allungando una mano per accarezzare la pelle nuda del mio braccio: «La vostra pelle, Caterina, per morbidezza è paragonabile alla seta più pregiata...»
Mettendo la parte l'imbarazzo e il pudore, mi sporsi verso il volto serio del capitano, gli occhi che mi brillavano per l'emozione, mentre premevo le mie labbra bollenti contro le sue.
Il bacio passionale e peccaminoso che ci scambiammo, fece ben presto ansimare e gemere entrambi, mentre le nostre membra si stringevano in un abbraccio.
La debolezza dovuta al recente svenimento sembrava esser completamente svanita, sostituita dall'adrenalina e da un profondo desiderio di cui conoscevo ben poco, ma che mi guidava nell'esplorazione del viso e del torso di Damiano, che saggiavo con impazienza.
Anche le mani del pirata sembravano altrettanto impazienti, mente mi accarezzavano attraverso il tessuto leggero della sottoveste.
«Oh, Caterina, potrei baciarvi in eterno», mormorò contro la pelle della mia spalla, prima di continuare a tempestare di baci la mia carne esposta, famelico e passionale: «Sentite quanto vi desidero?»
Non capii subito a cosa alludesse, pensando che si stesse riferendo al modo in cui continuava a venerare la mia pelle delicata con morsi lievi e baci profondi, poi sentii il suo bacino premere contro il mio e mi resi conto del suo turgido desiderio.
Rossa per l'emozione e incerta su come comportarmi in una situazione simile, lasciai che a guidarmi fosse l'istinto e iniziai a muovere i fianchi, in modo da creare continue ed eccitanti frizioni tra i nostri corpi.
Sussultai quando, con un gesto brusco, Damiano mi slacciò completamente il corsetto e sollevò la mia sottoveste, esponendo ai suoi occhi, resi lucidi dal desiderio, il mio seno piccolo e sodo.
Le sue labbra iniziarono a torturare il mio petto, mentre gemiti e sussurri colmi di venerazione sfuggivano al suo controllo.
«Damiano?», lo chiamai, la voce arrocchiata dal desiderio, mentre scorrevo con le mani sul suo torso esposto: «Vi desidero, ma... non avete paura che qualcuno possa vederci?», chiesi osservando le piccole finestrelle ai nostri lati, attraverso le quali era possibile vedere le stradine ancora deserte, che si sarebbero ben presto allargate e affollate gradualmente, mano a mano che ci saremmo avvicinati al porto di Napoli.
Gli occhi lucidi del capitano si fissarono nei miei, poi le palpebre si abbassarono e Damiano allontanò il viso dal mio seno, coprendolo nuovamente con la sottoveste, mentre appoggiava il capo alla parete della carrozza alle sua spalle: «Datemi un attimo, Caterina, devo recuperare il controllo».
Annuii, ma lui, avendo gli occhi chiusi, non mi vide.
Mi sporsi per appoggiare il capo al suo petto, dove il cuore gli martellava forte e veloce e mi lasciai cullare dai respiri profondi, che muovevano il suo corpo sotto il mio.
«Dormireste con me questa notte?», chiese, le braccia che mi circondavano in un dolce abbraccio e le labbra che premevano leggeri baci, contro la mia fronte e fra i miei capelli.
Aprii bocca per rispondere, poi la richiusi, incerta su cosa dire.
«Pensateci, Caterina», disse, accarezzandomi la schiena.
Senza rendermene conto, cullata tra le braccia dell'uomo di cui mi stavo innamorando, mi addormentai.
***
Buonasera popolo di Wattpad!
Scrivere questo capitolo non è stato facile. Ho dovuto svolgere un bel po' di ricerche, ma credo di non aver inserito cose tremendamente assurde.
Il fortino in cui abita la vedova è Villa Volpicelli (che ai tempi era appunto denominata "fortino") e che da quello che so è il set di una soap opera, per quanto riguarda le poche informazioni sull'Istituto delle Suore della Carità, che si trovava nel Chiostro di Santa Maria Regina Coeli, ho recuperato tutto dal buon vecchio Google.
Spero che abbiate tempo e voglia di farmi sapere cosa ne pensate del capitolo, del piano e della proposta del capitano a cui la nostra Caterina dovrà pensare...
Come sempre vi ricordo che potete trovarmi anche su Instagram, il nome dell'account è lazysoul_efp e, nel caso foste interessati a sostenere il mio lavoro, donandomi un simbolico caffè tramite Paypal, trovate il link per la mia pagina Ko-fi nella bio.
Un bacio,
LazySoul_EFP
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