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Orchidea bianca

Il giorno seguente, il giorno del mio diciottesimo anno, dovevo sbollire la rabbia e la frustrazione.

Avevo iniziato la mia quasi immortalità all'insegna della delusione, della tristezza.

Terminati i festeggiamenti, amorevolmente preparati da mio padre e da Sora, a cui ero stata costretta a partecipare in quanto io ero la festeggiata, nel pomeriggio andai sulla scogliera.

Era l'ora in cui le onde erano più alte e si infrangevano sulle rocce con la massima violenza.

Il cielo era grigio, come il mio umore.

No, mi correggo, il mio umore era nero.

In lontananza si vedevano già i lampi squarciare il cielo.

In quel momento anche il mio cuore era squarciato.

Non avrei potuto fermarmi a lungo, presto il temporale sarebbe arrivato anche qui.

Sentivo già alzarsi il vento.

La temperatura dell'aria cominciava a scendere.

Rimpiangendo di non aver portato con me il mantello pesante, arrivai infreddolita nel mio nascondiglio.

Con grande sorpresa, trovai qualcosa che non mi sarei mai aspettata.

Deposta a terra c'era un'orchidea, perfetta, bianca, pura come le nuvole.

Il mio fiore preferito.

Strano.

Nessuno sapeva che era il mio fiore preferito, a parte mio padre e Sora.

Mi chiedevo chi l'avesse lasciata lì.

Nessuno era a conoscenza del mio nascondiglio.

Era troppo bella per lasciarla lì a marcire, la raccolsi e la infilai tra i capelli.

Sulla via del ritorno non feci che pensare a chi l'avesse lasciata lì.

Non avevo spasimanti a parte Kei, ma l'avevo liquidato in maniera molto esplicita.

Inoltre raggiungere il mio rifugio segreto non era facile, non era roba da studenti.

Se non si faceva attenzione si rischiava di precipitare in mare.

Quindi no, non era lui.

Conclusi che forse era stato rubato da un gabbiano, o trasportato dal vento.

O chissà cosa.

In questo momento il mio problema era un altro.

Cominciavano a venir giù le prime gocce.

Dovevo sbrigarmi, o rischiavo di trovarmi nel bel mezzo di un temporale.

E se c'era una cosa che odiavo era trovarmi nel bosco, durante un temporale!

Affrettai il passo.

Le gocce di pioggia si stavano trasformando in un nubifragio.

La degna conclusione di una giornata da dimenticare.

Imboccai il sentiero che attraversava i boschi.

Poco lontano vidi un mantello nero appeso ad un ramo.

Mi guadai intorno, ma era una strada isolata e non c'era nessuno.

Strano.

A me serviva proprio quel mantello per ripararmi.

Superai sensi di colpa.

Lo presi.

L'indomani l'avrei rimesso sul ramo.

Restituendolo all'ignaro donatore.

Lo passai sopra le spalle e tirai su il cappuccio.

Feci l'ultimo tratto di corsa.

Arrivai a casa infreddolita.

Fradicia e sporca di fango.

Mio padre era già sull'uscio a scrutare l'orizzonte.

«Ma dove sei stata, ti sembra questo il modo di presentarti a casa, sporca di fango fino alla punta dei capelli!»

Non risposi.

Lasciai in fretta il mantello bagnato e le scarpe ricoperte di fango all'ingresso.

«Noa! Sto parlando con te!»

Corsi dentro. Non ero in vena di rimproveri e spiegazioni.

Sora, previdente come sempre, mi aveva preparato tutto l'occorrente per un bel bagno caldo.

Per prima cosa mi lavai bene per togliere il fango, poi tirai su i capelli e mi immersi nella mia vasca di legno.

Il contatto dell'acqua calda con la pelle infreddolita aumentava la sensazione di calore.

Sentivo il mio corpo rilassarsi.

Avevo in mano la misteriosa orchidea.

Era stupenda.

Mi addormentai esausta.

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