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3. Assenza di gravità

Si era accorta di essere rimasta in apnea per tutto il resto del tempo solo quando aveva abbandonato il fare confortante di Massimo per rientrare in classe e nel momento in cui era riuscita a guadagnare l'uscita dalla scuola. Lei, che quei corridoi li aveva sempre amati, aveva iniziato a sentirli troppo stretti, a non riuscire a ingabbiare aria sufficiente per tornare a pensare con lucidità. Uno sguardo in più e cominciava ad avvertire la voglia irrefrenabile di diventare invisibile, un tocco casuale e il cervello le implorava di strapparsi via anche la pelle. Arrivò addirittura a lasciarsi dei graffi sulle braccia nel vano tentativo di scacciare quella sensazione di calore insopportabile che le accendeva anche il solo sfiorare un gomito.

E allora a cos'è servito spendere tanto tempo a coprirmi?

Tirò più su la manica del maglioncino e andò a scovare il punto esatto in cui i tralicci che aveva disegnato con tanta cura si allargavano e lasciavano spazio a nuovi petali di un giallo luminoso. La trovò lì, la risposta, a ricordarle che quello era l'unico modo con cui sua madre avrebbe potuto continuare ad abbracciarla, a regalarle conforto anche se non avrebbe più potuto. Chiuse gli occhi e prese un lungo respiro. Li riaprì solo quando il cuore tornò a batterle in maniera più regolare e si rese conto che in realtà non aveva molto tempo a disposizione. Non se voleva evitare che sua zia entrasse nel panico più totale e iniziasse a chiamare chiunque.

Corse, lasciando dietro di sé la stradina gremita di studenti pigri e chiacchieroni, il piazzale vuoto antistante alla cattedrale baciata da un timido raggio di sole e ancora una viuzza, popolata da qualche turista, intento a scattare foto ai vasi di bouganville sui numerosi balconcini di altrettanti appartamenti candidi. Si infilò in fretta nel vicolo in cui abitava e inserì la chiave nella toppa del portoncino marrone senza fare caso al rumore di piatti e posate che provenivano dalle persiane lasciate aperte, assieme all'odore del brodo vegetale messo a scaldare. Salì le scale con una mano posata sul petto e rivoli di sudore che le colavano lungo la guancia.

«Ele!»

In un primo momento, Eleonora fu indecisa se credere che quella che aveva avvertito nel tono di sua zia fosse una nota di sollievo o di rimprovero. Forse entrambe, si ritrovò a decidere, quando la donna abbandonò lo straccio tenuto stretto fra le mani per andare a stringerla.

«Zi', ma non sono andata in guerra, eh?» tentò di sdrammatizzare, dandole delle leggere pacche sulla spalla.

«Lo so, tesoro, ma ero in pensiero per te. Queste ore mi sono sembrate un'eternità.»

«Dai, non è niente. Sto bene e sono tutta intera, vedi? Alla fine non è successo nulla. È filato tutto liscio.»

Fece un giro su sé stessa e aprì le braccia. Non seppe nemmeno dove riuscì a trovare il coraggio di pronunciare quelle parole; non quando ripensava al panico che le aveva accorciato il fiato quella stessa mattina, all'incendio che le era divampato dentro a ogni piccola attenzione indesiderata. Però sapeva di doverlo fare. Lo doveva ad Adele e a suo zio, che avevano lasciato la comodità della vecchia casa per poter andare a vivere assieme a lei. Per prendersi cura di lei, ora che nessuno pareva essere più disposto a farlo.

«Hai fame?» le domandò Adele, alcuni attimi di silenzio dopo. Tornò a darle le spalle e ad armeggiare vicino alla piccola cucina incrostata di ruggine che ormai faceva parte dell'arredamento da almeno una ventina d'anni «immagino che dopo stamattina tu abbia bisogno di recuperare un po' di energie. Vuoi un po' di brodino o ti preparo qualcos'altro?»

Eleonora sembrò rifletterci su.

«Vada per il brodino, ma dopo mi riscaldi le brioche di zio.»

«Non credi sia meglio aspettare per quelle? Magari te le lasci per merenda e dopo, avevo pensato, potremmo andare a fare la spesa o al parrucchiere...»

«Io avrei altri impegni, però, lo sai bene.»

«Appunto» Adele le rivolse un sorriso furbo.

«Zia» la richiamò con tono di rimprovero «so che da quando ti ho detto il motivo del mio gesto di stamattina sei preoccupata persino per il modo in cui respiro, ma non puoi controllarmi sempre. E poi sei stata tu a dirlo, ieri, no? Devo tornare a vivere e non posso pretendere di farlo se non ci provo neanche. Fra l'altro, la piscina è l'unica cosa che mi sia rimasta della mia vecchia vita e non voglio mollarla. Magari così troverò un po' di serenità.»

«Io mi riferivo a contesti più tranquilli, però! Al passeggiare con altre persone attorno, all'andare all'alimentare qui vicino... iniziare dalle piccole cose, ecco. Tutto questo stress non ti fa bene, capiscimi...»

«Allora non ti saresti nemmeno dovuta disturbare a buttarmi giù dal letto. Sarebbe stato meglio se fossi rimasta a dormire per il resto dei miei giorni, così avresti potuto evitarti tutti questi dispiaceri.»

Eleonora sbatté le posate sul tavolo e si alzò; aprì la porta della cucina e corse verso la gradinata che portava al piano superiore. Aprì la porta della stanza e se la richiuse alle spalle, col cuore che tamburellava impazzito nel petto. Governare il tumulto di emozioni che le squassava il corpo non le risultava così difficile da quella volta.

***

«Ele?»

Una mano ruvida e calda le scivolò delicata dalla fronte.

«Zio Toni?» domandò con voce rauca, mentre sfregava gli occhi e si rigirava sul materasso.

«Sono venuto a chiamarti. Fra una quarantina di minuti devi essere in piscina e magari hai bisogno di tempo per prepararti.»

«Zia Adele?» chiese, avvertendo il senso di colpa accrescerle nello stomaco assieme alla potenza dei morsi della fame. Si mise a sedere e incrociò lo sguardo stanco e preoccupato di suo zio.

«È fuori a fare delle compere. Le ho detto io di uscire. Ne aveva bisogno, dopo aver discusso con te.»

Eleonora si morse appena le labbra.

«Mi dispiace» riuscì a mormorare, dopo essersi lasciata scappare un sospiro sconsolato.

«Non è a me che dovresti dirlo, ma a lei. Non si aspettava una reazione così brusca da parte tua, sai?»

«È che non capisco! È stata così contraddittoria... Un attimo prima mi chiede di vivere e quello dopo sembra sia incapace di lasciarmi fare qualsiasi passo!»

«Ele, lei è molto preoccupata per te da quando ti ha vista con quel disegno sulla faccia, te ne sei accorta?»

«Sì, eccome, ma non ne capisco il motivo...» Eleonora alzò lentamente gli occhi verso il soffitto, in direzione della plafoniera da cui proveniva una luce biancastra «alla fine non sono mica morta.»

«Ne abbiamo parlato a lungo, stamattina, quando te ne sei andata» ammise e andò a grattarsi il mento. Puntò le iridi scure in quelle della nipote e le accarezzò la guancia libera «e se ho capito quello che voleva dire, credo abbia interpretato il tuo gesto come una sorta di grido di dolore. L'ultima cosa che vorrebbe è che qualcuno approfittasse delle tue debolezze ora che ti sente più vulnerabile. A questo si aggiunge il dispiacere per non essere riuscita a fare nulla per proteggere sua sorella e penso non riuscirebbe mai a perdonarselo se anche a te dovesse succedere qualcosa. Ci arrivi?»

«Sì. Forse, a questo punto, dovrei restare a casa e aspettarla per parlare con lei. Non voglio si preoccupi così tanto...» sussurrò, più a sé stessa che in direzione di suo zio. Prese a lisciare con nervosismo le ciocche scure che le sfioravano appena le spalle e si umettò le labbra.

«Vai, invece. Non ti preoccupare. A questa cosa ci ho già pensato io. Mentre eri qui a dormire ho tentato di farla ragionare e farle comprendere che mai come ora hai bisogno di tutte le cose che ti fanno stare bene.»

«Sei un angelo, zio Toni» Eleonora si allungò per lasciargli un bacio sulla guancia, poi abbandonò le coperte per recuperare il costume dall'armadietto di legno in un angolo della stanza.

«Sono solo bravo a mediare fra due teste calde» le rivolse un occhiolino e in risposta si guadagnò un maglione appallottolato dritto sul volto «dai, stavo scherzando! Però se hai bisogno di essere accompagnata me lo dici. Ti do un passaggio in macchina. Da qui alla piscina la strada è tanta. Ce la fai?»

«Non ti preoccupare. Mi servirà da riscaldamento pre allenamento e per schiarirmi un po' le idee» lo rassicurò, per poi raccogliere il necessario sparso in giro per la stanzetta e gettarlo nel borsone a tracolla con il logo della piscina stampato a lettere bianche su sfondo nero. Se lo mise in spalla, ma prima di andarsene salutò lo zio con un sorriso di incoraggiamento.

«Chiamaci quando sarai arrivata, va bene? Almeno fai così, per il momento!» le gridò dietro, nel vederla scendere a tutta velocità prima gli scalini per il piano inferiore e poi quelli che conducevano all'ingresso.

«Contaci!» gli urlò di rimando e una volta all'esterno il vento prese ancora una volta a pungerle il viso. Alzò il cappuccio e si sistemò meglio la sciarpa, poi alzò il passo non appena raggiunse il lungomare. Le parve di essere stata catapultata in una dimensione alternativa, perché a dispetto della sera precedente le panchine erano quasi del tutto vuote. La maggior fonte di caos, in quel momento, proveniva dai gruppi di bambini che ridevano sulle gradinate a pochi passi dalla ringhiera che li divideva dal mare, dagli uomini che ordinavano birre al camioncino dei panini o dai ragazzi intenti a giocare a pallone proprio nel mezzo della stradina che fungeva da spartitraffico fra il campetto di calcio già occupato e la spiaggia.

Concentrata com'era a riconoscere gli aspetti della sua vita che erano rimasti immutati, non aveva udito il sibilo di avvertimento del pallone. Se ne accorse solo quando lo sentì schiantarsi sul viso e capì di essere così vicina al suolo da iniziare a maledire l'assenza di gravità sulla Terra.

«Chi mi ha tirato la palla?!» urlò, quando riuscì a rimettersi a poco a poco in piedi. Iniziò a massaggiarsi con vigore il naso attraversato dalle fitte e si guardò attorno, disorientata. Per un attimo ebbe un capogiro, ma riuscì a ritrovare l'equilibrio respirando a fondo.

«Scusami, colpa mia. Sarei dovuto essere più attento» replicò un ragazzo, tendendole una mano.

In risposta, Eleonora la scostò con uno schiaffo.

«Sei un coglione, lo sai? C'è un campo da calcio proprio di fronte, perché non te ne sei andato lì a spaccare il setto nasale di qualcuno?!» gli lanciò contro il pallone con forza e si voltò, pronta a raccogliere il suo borsone rimasto a terra.

L'altro, però, lo afferrò prima di lei.

«Aspetta, ti aiuto.»

«Non ho bisogno di te, idiota. Ce la faccio benissimo da sola.»

«Mi chiamo Samuele, piacere di conoscerti» il ragazzo provò ancora una volta ad allungare una mano nella sua direzione, ma Eleonora si ritrasse ancora. Rimase a fissarlo, ostinata, odiando e invidiando al contempo qualsiasi dettaglio di quel volto: che si trattasse della mezzaluna formata dai nei su una guancia, il sorriso disteso sulla labbra sottili e quegli occhi verdi, che tanto sembravano racchiudere la stessa bontà di sua zia.

«Il piacere è tuo, forse, scemo.»

«Ok, ma sei sicura di non avere subito qualche trauma cranico? Altrimenti non me la spiego tutta questa acidità. Mi sembra di averti già chiesto scusa, mi pare» aggiunse con un risolino.

«Saresti incazzato pure tu se qualcuno ti avesse fatto sanguinare il naso e fatto fare tardi in piscina, per giunta.»

«Merda» borbottò, andando a grattarsi sotto i ciuffi scuri sparsi sulla nuca. Si era accorto solo in quel momento delle macchie di sangue scuro ai suoi piedi «forse è meglio che ti porti al pronto soccorso.»

«Non vengo da nessuna parte con te. Nemmeno ti conosco!»

«Cosa dovrei fare, secondo te? Chiamare il centodiciotto?»

«Tu sei pazzo! L'ambulanza mica si scomoderebbe per una cosa del genere. Ci vado da sola all'ospedale, lasciami stare.»

«Insisto. Non mi sentirò tranquillo finché non saprò che è tutto a posto. Lasciami fare almeno questo!»

«Va bene. Lavati pure la coscienza, se proprio ci tieni, Samuele» sputò, frustrata. Attese per qualche secondo che salutasse gli amici, poi lo seguì e nel mentre cercò di trovare qualche scusa plausibile da rifilare agli zii per l'accaduto. Per quanto si sforzasse, però, non aveva proprio idea di come aggirare il problema. Sospettò di doversi preparare a un lungo interrogatorio, al suo ritorno.

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