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Capitolo 2

26 luglio 1944. Una settimana prima dell’arrivo di Sascha.

Una famiglia di ebrei aveva trovato rifugio ad Amsterdam, da ormai tanto tempo.

La loro particolarità era che non si nascondevano nei classici nascondigli dove a nessuno sarebbe venuto in mente di controllare. Trovarono rifugio in una grande casa a due piani.

Certo, però, non erano dei pazzi folli suicidi, non erano lì perché spericolati o incuranti del pericolo. Si potevano, in un certo senso, definire fortunati.

Per prima cosa la loro famiglia non era classificata come ebrea, cosa che fu fondamentale quando i nazisti salirono al potere. Gli unici a cui rivelavano la loro vera identità, erano esclusivamente ebrei.

Riguardo la casa a due piani, era in un angolo abbastanza nascosto della città. Nonostante la sua grandezza si nascondeva bene nei vicoli e si confondeva altrettanto bene con gli altri edifici.

I membri della famiglia, avevano imparato bene a mimetizzarsi tra i crudeli nazisti.

Nella casa abitavano da ormai quasi due anni Ernst Hartmann e Sarah Graham. Insieme a loro, c’erano le tre figlie: Eva, Viktoria e Greta.

Ernst e Sarah erano mattinieri, si svegliavano sempre alle prime luci dell’alba, al contrario delle figlie che si alzavano dal letto un po’ più tardi.

La loro stanza era al piano di sotto e ne approfittavano spesso per concedersi al loro grande amore.

Quella mattina così fecero.

Ernst, appena sveglio, si voltò verso la moglie, che stava ancora dormendo. Le spostò i lunghi e lisci capelli biondi, scoprendo, così, la nuda schiena della donna. La accarezzò, Sarah aveva una corporatura piccola, esile, al contrario di lui, più alto e anche muscoloso. La toccava sempre con molta grazia, temendo che un movimento più brusco delle sue grandi mani avrebbe potuto spezzarla.

Sarah si svegliò felice sentendo la possente e delicata mano del marito sulla sua pelle. Si girò verso di lui mostrandogli un bel sorriso, un sorriso pieno d’amore. Fissò i suoi dolci occhi azzurri in quelli marroni di lui.

«Buongiorno» gli disse.

«Buongiorno» le rispose.

Subito dopo, avvicinarono i loro visi e fecero incontrare le loro labbra.

Ripresero a guardarsi intensamente negli occhi. Lei gli sorrise e lui ricambiò.

Afferrarono le lenzuola e le tirarono su, arrivando a coprirsi fino alla testa.

Di sopra c’era la stanza delle ragazze. Non era una stanza molto grande, ma riusciva a contenere i tre letti più due librerie, una scrivania e tre armadi.

«Secondo voi avranno finito di fare sesso?» domandò Eva.

Eva era la più grande delle tre sorelle, aveva ventiquattro anni, anche lei era fisicamente piccola, ma aveva preso l’altezza del padre, era alta sul metro e ottanta. Aveva dei grandi occhi marroni e dei lisci capelli biondi che teneva quasi sempre legati, data l’elevata lunghezza che superava, e non di poco, la schiena.

«Vorrei scendere a fare colazione» disse scocciata. «Ma non vorrei, un’altra volta, sentirli mentre compiono l’atto.»

«Oggi ci siamo svegliate un tantino prima» disse Viktoria prendendo un foglio dalla scrivania e tornando poi a sedersi sul suo letto. «A quest’ora, di solito, sono nel pieno della loro manifestazione d’amore.»

Viktoria era la sorella di mezzo. Aveva ventidue anni. Sulla corporatura aveva preso dalla madre, così come gli occhi, azzurri come il ghiaccio. Il viso era incorniciato in folti capelli mossi di un biondo molto scuro.

«Dovremmo dirglielo che sappiamo ciò che fanno?» domandò Viktoria a Eva.

«No, Vik» rispose, abbozzando un sorriso, la sorella maggiore. «Non permetterò che qualcuno si intrometta nel loro amore, nemmeno voi.»

Greta, la più piccola, ascoltava e allo stesso tempo leggeva un libro di storia. Era la più piccola della casa, sia in età che in altezza. Aveva diciannove anni, gli occhi di un verde molto chiaro e i capelli castani mossi, che le arrivavano poco sopra le spalle.

«Che farete oggi ragazze?» domandò, sarcastica, Eva.

«Io andrò a comprarmi dei vestiti nuovi» rispose Viktoria. «Non aspettatemi alzate, ho un appuntamento con un ricco crucco.»

Le sorelle si misero a ridere.

Greta chiuse il libro e si alzò, pronta a rispondere. 

«Io andrò a mangiare in un posto di lusso, poi tornerò qui, indosserò qualcosa di bello e durante la sera incontrerò tanti bei soldati muscolosi, uno più bello dell’altro, saranno tutti ai miei ordini e faranno qualsiasi cosa per me.»

Di nuovo, scoppiarono le risate.

«E tu, Eva?» domandò Greta.

«Ma… niente di che, uscirò con la mia amica Martha.»

«Niente ragazzi?» le domandò Viktoria, lanciandole uno sguardo malizioso. «Bei maschi con grandi spalle, braccia possenti che ti sorreggono mentre fate… certe cose.»

«No, grazie, preferisco stare con Martha» rispose, arrossendo in volto per la vergogna. 

Martha era davvero una sua vecchia amica, che però non vedeva da tantissimo tempo. Sempre preferiva passare il tempo con lei, piuttosto che fare come le altre ragazze, che andavano in cerca di ragazzi. A Eva, in realtà, forse non erano mai interessati i ragazzi in quel senso, ma Martha…

Ciò che provava la faceva sempre sentire a disagio.

Tornarono alla realtà, pronte a riprendere la monotona vita rinchiuse in quella casa, e a sognare altre vite che, magari, un giorno, sarebbero riuscite a vivere.

Una alla volta andarono a lavarsi, poi scesero, tutte insieme al piano di sotto.

Scese le scale si arrivava subito davanti la stanza dei genitori, la porta era chiusa, ma non sembravano esserci rumori provenienti da lì, al contrario, sentivano delle voci venire dalla cucina.

«Buongiorno» esordì Sarah, seguita da Ernst.

Le ragazze ricambiarono il saluto, dando un bacio ad entrambi i genitori, e si misero a sedere, pronte a ricevere la colazione preparata dalla madre.

La mattinata, come prevedibile, fu monotona. Finita la colazione le ragazze aiutarono la madre con i servizi da fare in casa, una volta finito si misero a leggere le ultime notizie sul giornale. Il padre, invece, uscì per andare a comprare i viveri necessari.

Dopo pranzo, lavarono i piatti e poi ognuno andò ad impiegare il proprio tempo come meglio poteva.

Da ormai troppo tempo la situazione era questa, vivere come se fossero rinchiuse in una prigione.

Le ragazze, però, non vedevano l’ora che arrivasse il giorno successivo, il giorno settimanale in cui, per un paio d’ore, sarebbero potute uscire da quelle quattro mura.

Ernst si ritirò nel suo ufficio, situato in fondo al corridoio del secondo piano, per lavorare. Sarah, invece, andò nella stanza da letto.

Prese da un mobile un vecchio album e si mise sul letto a sfogliare delle vecchie foto di famiglia. C’erano i suoi fratelli, le sue sorelle, i suoi genitori, quelli del marito con gli altri suoi familiari.

Era da tanto, troppo, tempo che non avevano loro notizie, sperava stessero bene.

Alcuni erano fuggiti dall’Europa, in cerca di posti più sicuri, dove non sarebbero stati odiati. Altri invece…

Le scese una lacrima al solo pensiero.

Posò le fotografie e si strofinò gli occhi, si immobilizzò a guardare il soffitto e fare profondi respiri, cercava di non piangere, voleva essere forte, per lei, per suo marito, per le sue figlie. Voleva mostrarsi forte e coraggiosa, in modo da poter non far preoccupare troppo il marito, e da non infondere nelle figlie un’eccessiva paura.

L’indomani avrebbero avuto quel paio d’ore di libertà settimanale.

«Libertà settimanale» ripeté ad alta voce.

Si domandava come fosse possibile che un essere umano dovesse vivere in questo modo, scegliendo quale giorno della settimana comportarsi da persona comune e vivere gli altri da reclusi.

“Lasciare le mie bambine in giro?”

Anche se ormai potevano considerarsi donne adulte, per lei erano ancora le sue bambine, doveva proteggerle. Lasciarle uscire, farle stare in mezzo a quei sporchi nazisti. Ma, d’altra parte, la fortuna gli permetteva di vivere quel giorno, perché sprecarlo? Era meglio farle vivere, col rischio di non vederle più tornare e non ricevere più notizie?

Si alzò e andò ad osservare ognuna di loro.

Sul divano, in soggiorno, c’era Viktoria che si era addormentata mentre leggeva. Sarah si calò verso di lei, le accarezzò il volto e le diede un bacio sulla fronte.

Vide un sorrisetto formarsi sul viso della figlia dormiente. Viktoria era bellissima, i suoi occhi avrebbero fatto impazzire qualsiasi uomo. Era una ragazza che credeva molto nell’amore, tanto desiderava avere un uomo, ma Sarah sapeva perfettamente che non uno qualunque sarebbe stato in grado di tenerle testa. Nessun uomo sarebbe stato in grado di sottomettere la sua forte bambina.

In cucina c'era Eva. Sarah si fermò alla porta, ad osservarla sorridente mentre cercava di imparare l’arte del cucinare. La vide sbuffare e prendersela con uno strofinaccio per un piccolo errore. A Sarah scappò una risatina, che attirò l'attenzione di Eva.

«Hai visto il mio pasticcio?» domandò la figlia sconsolata.

«Dai, tesoro, non fare così» le si avvicinò e la strinse in un abbraccio. «Ci vuole tempo e pazienza, con calma imparerai.»

«Grazie, mamma, lo spero tanto.»

Eva voleva tanto imparare a cucinare. «Così, un giorno, quando troverò l'amore della mia vita, potrò cucinare di tutto per quella persona e renderla felice.»

«Troverai la persona giusta, tesoro. Una persona che apprezzerà la tua cucina.»

Sarah vide la figlia diventare triste.

«Sempre se un giorno tutto questo finirà, sempre se torneremo liberi…»

Sarah le poggiò una mano sulla spalla e iniziò ad accarezzarla. «Dobbiamo avere speranza.»

Eva, lentamente, voltò il viso verso la madre e le sorrise. «Grazie ancora, mamma. Per esserci sempre per noi.»

«Se hai bisogno di me chiamami, tesoro.»

«Lo farò» disse, rimettendosi a lavoro.

«Renderai felice qualsiasi donna» sussurrò la madre.

Guardò, ancora per qualche secondo, la figlia.

Portò, per un attimo, il suo sguardo verso la dispensa, più precisamente, sulla maniglia che si intravedeva nell’ombra.

Sarah si diresse al piano di sopra, verso la stanza delle ragazze, dove, impegnata a scrivere, c'era Greta.

«Tutto bene?» si affacciò dalla porta.

«Sì, diciamo. A te?»

«Bene, grazie» disse la donna mentre entrava e andava a sedersi sul letto, vicino alla figlia minore. Sembrava concentrata, ma anche un po’ scocciata.

«Oggi che farai?» domandò, studiosa, Sarah. «Uscirai di nascosto con i tuoi amici.»

Greta interruppe la scrittura e con un sorriso tranquillizzò la madre. «No, mamma, tranquilla. Ho smesso da un po’. Credo che d'ora in poi uscirò solo nel giorno della settimana stabilito da voi.»

Il sorriso le scomparve dopo la spiegazione, tornò, dunque, a concentrarsi sul suo foglio.

«Mi dispiace che sia andata così» disse la madre. «Nonostante le preoccupazioni, ero contenta.»

Greta si fermò e, senza voltarsi, la ascoltò attentamente.

«Mia figlia, la mia piccola figlia, si era impegnata nella lotta contro i nazisti. Mia figlia ha lottato per cambiare il mondo. Per renderlo migliore, era un motivo di orgoglio. Mi dispiace che sia andata male.»

Greta annuì, si voltò di scatto e abbracciò la madre.

«Non smettere di sperare, amore mio. Magari troverai altre persone, persone giuste, e tornerai a combattere per salvare tutti. Io credo in te, Greta. Tu sei una donna intelligente, determinata, una donna che non ha paura.»

«Grazie, mamma» disse la ragazza, stringendo forte la madre tra le sue braccia. Entrambe erano quasi in lacrime.

Sarah uscì dalla stanza chiudendo la porta. Si indirizzò già verso le scale, ma voltò la testa in direzione dell’ufficio dove Ernst stava lavorando. Decise di andare a fargli un po’ di compagnia.

Aprì la porta e si sedette di fronte a lui. «Hai tanto lavoro, amore?»

«Fortunatamente non così tanto, tesoro» rispose, in modo un po’ scocciato, mentre posava dei fogli e metteva la testa su altri. Le giornate monotone, il caldo estivo, anche se non eccessivo, se doveva stare chiuso in casa, piuttosto che lavorare, avrebbe preferito stare, esclusivamente, con la moglie e con le figlie. D’altra parte, però, il lavoro gli dava quei momenti di distrazione, momenti in cui la vita sembrava più… normale.

«Le ragazze che fanno?»

«Vik si è addormentata sul divano. Eva sta cercando di imparare a cucinare e Greta sta architettando chissà che cosa.»

«Non vedono l’ora che arrivi domani, giusto?»

«Già…» disse Sarah sospirando.

Ernst interruppe per un attimo il suo lavoro e vide la moglie sospirare ancora mentre si poggiava delicatamente alla scrivania.

«Le nostre figlie sono tutte indaffarate» disse lei puntando lo sguardo verso il soffitto, in cerca delle attenzioni da parte del marito.

«Forse posso concedermi una piccola pausa…»

Sarah si alzò dalla sedia felice, come una bambina, con un tale sorriso e una gioia negli occhi, raggiunse il marito. Gli accarezzò i capelli e gli afferrò il viso per baciarlo. Lui la prese per i fianchi e la fece sedere su di sé, lasciandosi trasportare dal loro amore.

La sera tardi, quando i membri della famiglia si erano ormai messi comodi, pronti ad andare a dormire, qualcuno bussò alla porta.

Tutti si immobilizzarono, da quando erano in quella casa nessuno era mai venuto a bussare.

L'ansia e la paura iniziarono a farsi strada nei loro pensieri e sui loro volti.

Di nuovo bussarono. «Aprite o saremo costretti ad entrare con la forza.»

Le SS, si trattava sicuramente di loro, erano arrivate.

Eva e Greta dovettero sostenere Viktoria, che per poco non sveniva.

Sarah provò a tranquillizzare le figlie, disse loro di stare calme, che sarebbe andato tutto bene.

«Arrivo subito» urlò alla porta Ernst. Invitò le figlie alla calma, a fidarsi di lui. Sicuro non avrebbe permesso che capitasse loro qualcosa.

Aprì la porta e fece entrare i tre soldati.

«Buonasera, agenti, c’è qualche problema?»

I tre entrarono, fieri, sicuri di sé e con sguardo cattivo.

«Ci hanno segnalato la presenza di ebrei…» parlò il più basso di loro. Un uomo strano, ingobbito, con dei foltissimi baffi marroni.

«Controllate dove volete signori» disse affabile Ernst. «Qui non c'è nessun passaggio segreto, e non nascondiamo nessun ebreo.»

«A me non è stato detto che li nascondete» disse il soldato dai folti baffi. «Mi hanno detto che siete voi gli ebrei.»

I volti di Ernst, di Sarah e delle figlie sbiancarono. Non potevano fare niente, li avevano scoperti?

«Le assicuro che noi non siamo ebrei» disse, comunque, Ernst.

In quell'occasione, per il bene della famiglia, era meglio rinnegare e sperare di sopravvivere, piuttosto che essere coraggiosi, dire la verità e far morire tutti.

«Fonti certe mi dicono il contrario.»

«Le assicuro, signore, che sono false» insisté Ernst. «Chissà quale farabutto vi avrà detto queste sciocchezze.»

«Chissà…» disse il soldato sorridendo. «Chissà? Ce l’ha detto vostro fratello.»

Ernst non sapeva più come rispondere, erano fregati.

«Oh, scusatemi» si corresse ridendo sotto quei sporchi baffi. «Il vostro, ormai, defunto fratello.»

Ernst non poteva credere alle sue orecchie, era pietrificato, suo fratello era morto.

«Prendeteli.»

Ernst si girò verso Sarah e le figlie. «Andate!» urlò, prima di lanciarsi contro i soldati.

Sarah portò di corsa le figlie in cucina, spostò la dispensa che rivelò una porta segreta.

Sentirono uno sparo

Si voltarono nella direzione dalla quale provenì lo spaventoso rumore. Rimasero immobili per un paio di secondi, aspettando, magari, un segno da parte di Ernst.

Un segno, che non avrebbe mai più potuto fare.

Sarah trattenne le lacrime, strinse i denti e i pugni e fece muovere le figlie.

Le fece uscire da quella porta nascosta, poi la chiuse e nascose di nuovo.

«Mamma vieni!» le urlò Greta.

«Andate via! Vi raggiungerò subito.»

Sarah si voltò e prese un coltello.

Affrontò un soldato, altissimo, grosso, che era arrivato in cucina. Tentò di colpirlo due volte, ma non ci riuscì. Il soldato la afferrò per i fianchi e lei poté infilzargli il coltello nel collo.

Morì all’istante.

Venne il soldato con i baffi, le strappò il coltello da mano e le diede uno schiaffo. Gliene diede altri ancora, poi la stordì con un pungo. La prese per i capelli e la fece voltare.

Sarah portò lo sguardo verso la piccola finestra dove vedeva le figlie, pietrificate, mute, mentre, alle sue spalle, sentiva l’uomo palparla, toccarla nelle zone più intime, dirle parole indicibili, schifose.

Provò a spingerlo via, ma i modi usati sembravano far divertire ancora di più il nazista ingobbito.

Riuscì a scacciarlo via con un calcio.

Si voltò verso di lui, che fu veloce e le infilzò il coltello nel fianco, sotto gli occhi scioccati delle figlie.

Sarah emise un urlo per il dolore. Il soldato spinse il coltello più in dentro, facendo sputare sangue alla donna.

«Un giorno, morirete tutti. Bastardi… nazisti.»

L’uomo la lasciò cadere a terra, guardò verso la finestra, e si scostò, in cerca dell’uscita segreta.

Sarah potè, così, silenziosamente, alzarsi e affacciarsi dalla finestra, e dare un ultimo saluto alle figlie prima di accasciarsi, di nuovo, a terra ed esalare il suo ultimo respiro.

Fuori le ragazze scappavano, con enorme difficoltà, da soldati e spari.

Correvano affannate verso una possibile libertà, non avevano nemmeno avuto un momento per piangere, per metabolizzare ciò che era accaduto ai genitori.

Improvvisamente, Greta si voltò, non sentiva i passi delle sorelle.

Eva e Viktoria erano state prese.

Immobile, voleva andare ad aiutarle, ma loro le urlavano di andarsene, di scappare.

«Va via, Greta!» urlò Viktoria.

«Corri, Greta!» urlò Eva. «Corri via!»

Greta le guardava spaventata, con le lacrime che scendevano sulle guance rosse per l'affanno.

Tirò su col naso, si voltò e corse. Più veloce che poteva.

Sentiva il vento nei capelli, l’aria fredda schiantarsi sul suo viso, contro le sue lacrime. Sentiva le guance fredde, le gambe sembravano avere una forza inimmaginabile e i polmoni una quantità di fiato infinita.

I soldati provarono a seguirla, ma non riuscirono mai a raggiungerla.

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