8. Il risveglio del demone
La sala del trono era in penombra. Le finestre erano appena socchiuse per far circolare l'aria e le tende cremisi erano tirate.
Una misteriosa foschia permeava nell'ambiente e perfino i marmi candidi e scintillanti che rivestivano le pareti sembravano spenti e opachi.
I preziosi candelabri, arricchiti con gemme antichissime – estratte dai Primi Uomini dalle miniere di Ishum –, emanavano un fioco chiarore che non bastava certamente a rischiarare l'enorme sala circolare.
Al re non piaceva la luce.
Il vociare dei cittadini nella piazza arrivava ovattato, quasi intimidito dalla solenne austerità del padiglione.
Seduto sullo scranno, il sovrano sbadigliò.
Era avvolto in un mantello scuro e teneva la testa a ciondoloni, posata svogliatamente sul palmo della mano, mentre l'altro braccio penzolava insofferente dal bracciolo del seggio. I capelli nerissimi erano un groviglio indistricabile anche per i più temerari barbieri ed erano talmente lunghi da non permettere di scorgere il volto. Avvolta com'era in abiti scuri, la sua carnagione chiarissima, diafana, sembrava quasi brillare di luce propria, splendendo nella sala ombrosa.
Le imponenti porte da cui si accedeva alla stanza si spalancarono improvvisamente, con talmente tanto vigore che lo spostamento d'aria fu avvertito fin dalla postazione del re.
Un uomo dai lunghi capelli candidi, a dispetto dell'età che si aggirava intorno ai settant'anni, fece il suo ingresso ad ampie falcate.
La sua pacchiana tunica dorata svolazzava e sembrava totalmente fuori luogo mentre il suo portatore avanzava a passo spedito su un lungo e tetro tappeto scarlatto, unica macchia di colore tra il candore dei marmi e degli stucchi.
Arrivato davanti al sovrano, si inchinò profondamente e aspettò rispettosamente un suo cenno per potersi rialzare.
Quando lo fece, si sistemò i capelli bianchi sulle spalle, mostrando un volto rugoso, un naso aquilino e occhi piccoli, scuri e maligni.
Dalle maniche della veste si intravidero numerosi bracciali d'oro zecchino, impreziositi con pietre che la gente comune non era nemmeno in grado di immaginare.
Ma a ornamenti tanto splendidi, non corrispondeva il fulgore dello spirito.
Questo il re lo sapeva bene. Lo aveva scelto proprio per questo motivo.
-È un profondo onore per me essere qui, al Vostro cospetto, sire – l'uomo si inchinò un'altra volta. – A cosa devo questa Vostra urgente convocazione?
Tyros si passò una mano tra i capelli, cercando di nascondere l'irritazione provocata dall'erre blesa del suo interlocutore, con il solo risultato di scompigliarseli ancora di più.
-È un piacere per me ricevervi. Sono oltremodo dispiaciuto per avervi invitato qui con un tale poco preavviso, ma avevo necessità di discutere con voi riguardo alcune questioni alquanto importanti.
-Mi dica pure, mio re. Farei qualsiasi cosa per adempiere al mio dovere di cittadino leale alla corona.
L'uomo finse un sorriso devoto, pur sapendo perfettamente cosa spingesse il sovrano a convocarlo lì. Le formalità gli erano sempre andate a genio.
-Come ben saprai, ieri notte è deceduto il mio Primo Consigliere e la carica in questo momento è vacante. Mi piacerebbe che foste voi a prendere il suo posto – il re parlò con voce calma e pacata, mascherando perfettamente il fastidio causato dal difetto di pronuncia del suo ospite.
L'uomo dai lunghi capelli bianchi si inchinò nuovamente, nascondendo sotto i capelli un sorriso compiaciuto. Finalmente era arrivata la sua occasione.
-Voi mi onorate, mio re. Sono profondamente lusingato dal fatto che abbiate pensato a me. È dunque con sincera gratitudine che accetto l'incarico.
Tyros annuì, soddisfatto.
-Bene, e ora passiamo alle cose serie... – i toni, da parte del sovrano, si fecero subito confidenziali ma, allo stesso tempo, più tesi. Non c'era tempo per il galateo.
Il nuovo braccio destro del re alzò gli occhi in direzione del sovrano, vagamente infastidito per l'improvvisa scomparsa di quella raffinata quanto inutile etichetta.
Tyros cambiò posizione, raddrizzandosi sullo schienale e chinandosi in avanti, e i polsi cinerei – solcati da sottili vene azzurre – furono visibili da sotto la pesante veste.
-Per caso c'è qualcosa che vi turba, sire? C'è forse un problema?
Per la prima volta dall'inizio della conversazione, fu possibile scorgere i suoi occhi, neri come la pece – due pozze di petrolio che gli macchiavano la pelle candida –, e la lunga e brutale cicatrice che gli deturpava il volto.
-Non uno, ma cinque.
I giorni passarono, e così fecero i mesi, gli anni.
Con lo scorrere del tempo, la situazione in paese era migliorata. Le truppe dell'esercito, dopo aver appurato che gli interessi del prefetto di Ciet non erano in pericolo, se n'erano andate, i commerci erano ripresi e le casse pubbliche non erano più così vuote.
Ma tutto ciò quasi non mi toccava: continuavo a lavorare incessantemente, tentando di colmare con la fatica e il sudore l'assenza di Vicky. Ormai erano trascorsi due anni da quando se n'era andata.
Se chiudevo gli occhi riuscivo ancora a vederla, di fronte a me, con i capelli ricci che le ricadevano sulle spalle e il sorriso abbagliante.
Mi passai la mano sulla fronte, cercando di asciugarla dal sudore accumulatosi dopo la giornata di lavoro e il viaggio di ritorno dall'oasi, ed esausto mi lasciai cadere sul ciocco di legno posto all'uscio della capanna. Iniziai a osservare il cielo, che iniziava a tendere al rosso.
Senza quasi accorgermene, la mano corse alla tasca destra dei pantaloni ed estrasse un foglio di carta spiegazzato. Iniziai a fissarlo con una tale intensità che mi stupii del fatto che non mi si fosse ancora incenerito tra le dita.
Il giorno prima, mia madre era andata in paese per alcune commissioni e aveva incontrato il padre di Vicky, il quale le aveva consegnato una lettera per me. Era la prima che mi arrivava in quei due lunghissimi anni e la prima che io avessi mai ricevuto in tutta la mia vita.
Non avevo ancora avuto il coraggio di leggerla.
Mi feci forza e, con dita tremanti e il cuore in trepidazione, ruppi il sigillo di cera, aprii il foglio e iniziai a leggere lentamente, cercando di assaporare ogni singola parola impressa in quel foglio di carta.
Caro Gregor,
come stai? È passato parecchio tempo dall'ultima volta che ci siamo visti. Mi manchi molto e, non ci crederai mai, mi manca anche il Paese della Terra. La capitale è troppo confusionaria per i miei gusti. Troppa gente, troppo chiasso, troppo tutto.
Gli allenamenti sono davvero sfiancanti, ma finalmente stanno iniziando a dare i loro frutti. Sono sicura che quando tornerò sarò anche più forte di te. E non ridere! Perché so che lo stai facendo. Quando tornerò ti farò vedere io di che pasta sono fatta!
Sono riuscita a farmi qualche amico, ma sinceramente non credo che riuscirei mai a sentirmi davvero a casa qui. La gente è così diversa!
Ci sono così tante cose che vorrei dirti, ma sono sicura che questo foglio di carta non basterebbe a contenere tutto. Quindi rimando tutto a quando ci rivedremo.
Ora devo andare: l'addestramento serale mi aspetta!
Vorrei tanto una tua risposta, ma immagino che sia difficile per te spedirmi una lettera.
Per quanto mi riguarda, basterà che ogni tanto mi penserai, così come io farò con te.
A presto,
Vicky
Strinsi la lettera tra le dita mentre gli occhi diventavano lucidi sopra quelle parole d'inchiostro. Tanto dolci e attese quanto malinconiche e dolorose.
Ma quella volta non avrei pianto. Non ero più il bambino di una volta: le lunghe ore passate nei campi mi avevano temprato nel corpo e nello spirito.
Entrai in casa, la lettera ancora in mano, e la riposi sotto il materasso imbottito con paglia secca.
Mia madre, di spalle, cucinava una specie di minestrone in una vecchia pentola di rame. Dopo l'ultima visita in paese mi era sembrata stranamente agitata e dubitavo che la causa di tutto quel nervosismo fosse l'incontro con il maestro. Sfuggiva alle mie domande come un pesce dalle mani di un pescatore.
Mi avvicinai di soppiatto e la abbracciai da dietro, chinandomi per appoggiare il mento sulla sua spalla; ero cresciuto molto nell'ultimo periodo. La sentii sorridere, forse un po' più serena.
-Come sta Vicky?
-Bene, da quello che ho capito si sta allenando duramente – risposi, aggrottando le sopracciglia.
-Immagino – disse lei, pensierosa.
La guardai interrogativo ma lei si limitò a scuotere debolmente la testa.
Stavo per chiedere ulteriori spiegazioni quando, d'improvviso, come un fulmine a ciel sereno, qualcuno bussò alla porta.
Io e mia madre sobbalzammo, per poi guardarci stralunati. Chi mai poteva essere?
Solo il padre di Vicky conosceva la posizione di casa nostra e non era neanche possibile che qualcuno si fosse imbattuto nella capanna per caso. Nessuna persona con un minimo di cervello si sarebbe messa a vagare nel deserto.
Deglutii, mentre un brivido freddo mi percorreva la colonna vertebrale.
Mia madre si districò dalla mia stretta e andò ad aprire, un po' titubante.
Alla luce della luna, qualcosa baluginò nell'oscurità. Trattenni il fiato.
Il sangue mi si ghiacciò nelle vene quando scorsi oltre lo stipite due soldati, gli elmi e le corazze scintillanti e due lunghe spade che pendevano loro dal fianco.
Scrutarono torvi la figura di mia madre, che drizzò la schiena e si irrigidì.
-Cosa posso fare per voi? – chiese con voce apparentemente ferma e tranquilla.
Nessuno avrebbe mai sospettato che stesse nascondendo qualcosa, ma la conoscevo abbastanza da sapere che stava celando le sue reali emozioni dietro una maschera.
La sua mano teneva la porta appena dischiusa per nascondermi alla loro vista. Le sue dita tremarono impercettibilmente quando uno dei due soldati allungò il collo per vedere all'interno.
Mi guardai intorno, cercando disperatamente un posto per nascondermi. Non ce n'erano.
-Stiamo cercando una persona. Sappiamo che abita in questa zona. È possibile dare un'occhiata in casa? – chiese un uomo panciuto con baffi folti.
-In questa casa abito solo io. Chi vivrebbe mai in un posto come questo? Solo una vecchia pazza come me – ridacchiò nervosamente. – Comunque vi sconsiglio fortemente di entrare in casa: c'è un disordine tremendo.
-Mi dispiace ma dobbiamo entrare – il tono dell'uomo iniziava a farsi spazientito.
-Ma io non...
Il volto del soldato lampeggiò dalla rabbia:
-Hai capito cosa ho detto? Spostati.
-Se solo voi poteste...
-Ti ho detto di spostarti! – il soldato spintonò brutalmente mia madre, facendola cadere all'indietro, e l'altro, molto più alto, spalancò la porta con forza.
I loro occhi malevoli si posarono su di me. Mi avevano visto: non aveva più senso nascondersi.
Feci un passo in avanti, ringhiando:
-Stalle lontano!
-Guarda, guarda che bel ragazzo! Non avevi forse detto che qui ci abitavi solo tu, eh brutta pezzente! – l'altro soldato, quello alto, caricò la gamba e le sferrò un calcio all'addome.
Mia madre strinse i denti per non gridare. Si accasciò contro la parete, portandosi una mano sulla pancia, il volto distorto dal dolore.
Non ci vidi più dalla rabbia.
La vista mi si offuscò e le mani iniziarono a tremare visibilmente. Era come se il mio campo visivo si fosse ridotto.
L'unica cosa che vedevo erano i volti dei due soldati.
L'unica cosa che volevo era farli a pezzi.
Una collera furibonda mi stava divorando dall'interno, la sentivo ardere come un fuoco – no, un incendio –. Dopo anni passati a cercare di contenerla e controllarla, stava per esplodere.
Urlai, mentre il mio pugno si abbatteva sul volto dell'uomo.
Era la prima volta che colpivo qualcuno ma, nonostante la mia praticamente nulla esperienza in fatto di risse, capii dallo schiocco sordo che risuonò nell'aria di avergli rotto il setto nasale. Provai uno strano senso di soddisfazione nel vedere il sangue colargli sulla faccia.
Volevo vederlo soffrire. Proprio come stava soffrendo mia madre.
Anzi, no. Molto di più.
Il dolore non sarebbe stato abbastanza.
Volevo vedere il sangue imbrattargli la tunica e la supplica muta nei suoi occhi.
Lo volevo morto.
-Gregor – mi chiamò a fatica mia madre.
La sua voce ebbe l'effetto di farmi tornare in me. La vista mi si snebbiò e ripresi lucidità. Erano armati, non potevo sconfiggerli.
L'unica soluzione era la fuga.
Mi portai subito al suo fianco e l'aiutai a rialzarsi, mentre tenevo d'occhio i due. Le nocche bruciavano, ma non m'importava. Dovevo portarla fuori di lì.
-Dobbiamo andarcene – mi sussurrò all'orecchio, mentre si aggrappava alla mia maglietta.
Annuii.
-Dove credete di andare? – sbraitò l'uomo che avevo colpito.
Il sangue gli colava sulla faccia, sulle labbra e sui denti, donandogli un aspetto macabro. I suoi occhi luccicavano furibondi.
Il soldato con i baffi si piazzò di fronte alla porta, negandoci ogni possibilità di fuga.
-Ti rendi conto di quello che hai fatto, eh moccioso? – sibilò a denti stretti. – Forse avremmo anche potuto decidere di risparmiarti. Certo, non saresti stato libero e avresti passato i tuoi giorni chiuso in una fetida cella, ma almeno saresti stato vivo.
Fece una pausa e sorrise, scoprendo le gengive e mostrando una fila di denti piccoli e anneriti dal fumo.
-Ma adesso, oh, adesso che hai insudiciato l'anima pura di un retto padre di famiglia con le tue luride mani, non mostreremo misericordia. Adesso che hai osato colpire uno di noi, trasformeremo i tuoi ultimi giorni di vita in un inferno.
Tremai.
Lui si portò una mano al mento.
-Ah già, e poi cosa potremmo fare di tua madre? – le lanciò un'occhiata che mi fece ribollire il sangue. – Suppongo che nessuno avrebbe niente in contrario se ci divertissimo un po' con lei.
Contrassi violentemente la mascella, cercando di rimanere lucido. Non dovevo rispondere alle loro provocazioni.
Il soldato che avevo colpito si passò una mano sul viso e le sue dita si macchiarono del suo stesso sangue.
-Hai capito cosa ti ha detto, eh Marchiato? – sputò, rabbioso.
Io e mia madre trattenemmo il fiato. Il mio segreto non era più tanto segreto.
Come è possibile che sappiano? La gente del paese! Devono aver parlato, devono...
Spostai gli occhi su mia madre e la vidi con le pupille dilatate e le labbra talmente bianche e sottili da essere quasi invisibili.
-È stata lei – la sentii soffiare con un odio e una collera che mai avrei pensato di associare alla donna amorevole che era sempre stata.
Non ci fu tempo per le domande e per nient'altro.
I due soldati estrassero le spade, mentre quello alto si leccava il sangue sul labbro inferiore, sorridendo sinistro.
-Cosa credevi? Che non sapessimo di te? Sono due fottutissimi anni che ti cerchiamo. Ma oggi, finalmente, – gracchiò con voce arrochita dal furore – noi, per volere del nostro nobile e magnanimo sovrano, libereremo la terra dai demoni come te.
Sputò per terra e iniziò ad avvicinarsi. Il filo della sua lama luccicava ostile.
-Gregor... – sussurrò mia madre.
La guardai, percependo la paura farsi strada in lei. I nostri occhi non si incrociarono: le sue pupille erano grandi e si spostavano febbricitanti da un capo all'altro della stanza, come in cerca di una fune che ci trascinasse fuori da quell'incubo.
Ma questa volta, lo percepivo anche io, non avevamo speranza.
Come spesso accade nelle situazioni di pericolo, con la mente rallentata e gli arti pesanti, compresi troppo tardi quello che stava per succedere.
-Scappa! – urlò mia madre.
E, prima che potessi fare qualsiasi cosa, si lanciò contro il soldato.
Mi sembrò che la scena si muovesse al rallentatore: mia madre che si alzava, correva verso di lui, il soldato che sorrideva, alzava il braccio e calava la spada.
Il sangue schizzò sul pavimento, per poi colare copioso a terra, scivolando lungo la lama e imbrattando i vestiti dell'uomo.
Mia madre si accasciò, un fiore scarlatto che le sbocciava sul petto.
Mi avvicinai.
La toccai.
Le mie mani tremanti si macchiarono di sangue.
Sentivo tutto ovattato: le risate dei soldati mi arrivavano lontane, distorte, come se fossi sott'acqua.
Mia madre tossì e le sue labbra si macchiarono di rosso.
I suoi occhi, che si facevano via via sempre più spenti e opachi, si puntarono nei miei, offuscati dalle lacrime.
Posò la mano pallida sulla mia guancia mentre dischiudeva la bocca. Provò a dire qualcosa, ma da essa uscì solo un debole rantolo.
La strinsi tra le braccia con forza, con amore, con disperazione, finché il suo braccio non si fece sempre più pesante, fino a toccare il suolo.
Le afferrai il polso, portandomelo al petto. La sua pelle era bianca e stava iniziando a farsi fredda.
Il suo corpo non si muoveva.
-Mamma.
La chiamavo, ma nessuna risposta giungeva a me.
-Mamma – ripetei.
La pozza di sangue si allargava sempre di più, lambendomi le caviglie, inzuppando l'orlo dei pantaloni.
Pian piano, la nuda terra sotto di me iniziò ad assorbirla, macchiandosi di quella scura sostanza vischiosa.
Lo stesso suolo che eravamo riusciti a coltivare solo dopo ore e ore di lavoro e fatica – la stessa terra contro cui avevamo combattuto per anni – in quel momento sembrava tremare, vibrare di energia, furibonda verso esseri tanto crudeli.
-Mamma – la chiamai per l'ultima volta.
Un piede mi si appoggiò sulla nuca, la suola spessa e dura che pigiava sul collo, spingendo il mio volto a contatto con la polvere sul terreno.
-Non lo capisci che è morta. È morta.
Ridevano. Mia madre era morta e loro ridevano.
E in quel momento capii: quello non lo avevo causato io. Per tutta la vita, avevo vissuto con la certezza che qualsiasi sventura capitata a chi volevo bene fosse una mia responsabilità.
Questa non è stata opera mia.
Erano stati loro.
Solo loro.
E a quel punto, la sentii.
Una potente scarica elettrica partì dai punti a contatto con il suolo, percorse il mio corpo mentre i nervi venivano scossi da un'energia antichissima e vigorosa, raggiunse il Marchio e lì si bloccò. Lo sentii bruciare.
Una forte trazione mi strinse le viscere. L'energia mi scorreva nelle vene, liquida e inarrestabile.
La terra tremò ancora, invitandomi ad abbandonarmi alla rabbia.
E io lo feci.
La liberai in un unico, furente urlo.
La superficie del suolo sembrò quasi gonfiarsi al mio comando, mentre il Marchio mi ustionava la pelle.
Il terreno si disgregò sotto la mia volontà: le rocce si sollevarono, si scontrarono, si fusero, si frammentarono e iniziarono a ruotare a velocità sempre maggiore.
Era un vortice inarrestabile di pietre, macigni e sabbia che ruotava attorno a me. Io e mia madre eravamo l'occhio del ciclone.
Non sentivo niente. Intorno a me c'era solo una calma desolante.
Era la terra stessa a volerlo, a volermi lasciare in pace, a urlare tutto il mio dolore. E io lo feci: mi abbandonai alla sofferenza come mai avevo fatto in vita mia.
Avevo perso anche l'ultima persona a cui volevo bene.
Se dovessi descrivere quello che accadde dopo, non saprei farlo. Ricordo solo che piansi come un bambino, stringendo a me il corpo inerte di mia madre.
Mi ci vollero diverse ore per calmarmi e altrettanto tempo ci volle alla tempesta. Poi, distrutto sia fisicamente che psicologicamente, crollai.
Il buio mi accolse.
Angolino piccinopicciò (che questa volta tanto piccinopicciò non sarà) 🦝❤
Ciao a tutti!
Quest'oggi vi parlo (scrivo) dal mio bunker sotterraneo dove nessun lettore inferocito potrà mai trovarmi.
Ho sofferto tantissimo nello scrivere questo capitolo ma, ahimè, la storia non avrebbe avuto modo di andare avanti senza la morte di Eliza.
Prima di farmi prendere dalla malinconia e decidere di modificare tutta la trama solo per farla resuscitare, direi che è meglio cambiare argomento.
A questo proposito, vorrei fare una precisazione.
Immagino che i lettori più attenti si siano accorti che, nonostante l'intera storia sia in prima persona, con la voce narrante che è uno dei Marchiati (prima o poi vedrete anche gli altri😉), la prima parte di questo capitolo è scritta in terza.
Non è un caso!
Infatti nell'introduzione è specificato che l'autrice del libro (che ovviamente non sono io! 😁) vive sulla propria pelle le vicende solo quando queste sono a loro volta vissute dai Marchiati. Questo non avviene con gli altri personaggi perché non c'è niente che li leghi ai Cinque (coloro che mostrano i fatti all'anonima scrittrice). Questi, per dare una visione più ampia, hanno infatti deciso di mostrale frammenti di passato di cui nemmeno i protagonisti sono mai stati a conoscenza e che verranno pertanto narrati da un punto di vista esterno alle vicende.
E io, da brava scribacchina quale sono, ho voluto condividere la Storia di Valhaar mantenendo questa peculiarità.
Quindi... cosa ne dite? Il capitolo vi è piaciuto?
Fatemelo sapere nei commenti! ❤
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