6. Un'anima di fuoco e fiamme
La prima cosa che vidi fu l'enorme tamarindo, sentinella immobile e secolare nella desolazione del deserto. In lontananza, troneggiava tra i tetti delle case come un fuoco nella notte, una pennellata di verde nel grigio cielo temporalesco.
Mi strinsi il mantello sul collo, mentre un venticello freddo mi faceva rabbrividire.
Era la prima volta che mettevo piede al villaggio da quei tragici avvenimenti di due mesi prima. Da quel momento, infatti, mia madre non mi aveva più permesso di andarci: i militari occupavano ormai permanentemente le strade ed era troppo pericoloso girovagare nel paese, a maggior ragione per un Marchiato. Anche se nessuno poteva vedere i cinque cerchi tatuati sulla mia spalla, gli abitanti conoscevano il mio volto e non potevo rischiare che qualcuno lo andasse a riferire in giro.
Non avevo più visto né Vicky né suo padre da allora. Per lo stesso motivo per cui io non potevo mettere piede nel paese, loro non potevano uscirne.
Fremevo al pensiero di poter rivedere la mia amica.
Le mie giornate erano passate vuote, lente e silenziose, tra la dura battaglia con quella terra arida che non ne voleva sapere di lasciarsi coltivare ed effimere ore di riposo, rese ancora più insofferenti dai miei pensieri che erano ovunque tranne che in quell'odioso campo. Il mio cuore scalpitava e la mente volava lontano, dall'altra parte del deserto.
Continuai ad avanzare; ciò che dovevo fare ce l'avevo ben stampato in testa. Arricciai il naso, mentre facevo del mio meglio per ignorare le scarpe che sprofondavano in uno spesso strato di fango, creatosi dopo lunghi giorni di interminabile maltempo.
La stagione delle piogge era arrivata, portando con sé un'umidità soffocante e trasformando l'arido e polveroso suolo del Paese della Terra in un disgustoso e viscido pantano.
I contadini aspettavano con ansia quel periodo, quasi come fosse una benedizione – e forse lo era – ma, per quanto mi riguardava, non vedevo l'ora di sentire nuovamente sulla pelle l'aria calda e il sole cocente. Avrei preferito mille volte spaccarmi la schiena arando un campo, piuttosto che vivere un altro giorno con quell'umidità attaccata addosso come una seconda pelle. Per fortuna, la stagione secca sarebbe ricominciata a breve.
Mi fermai a pochi metri dalle prime case e mi bastò quello per capire che qualcosa non andava.
La strada era deserta, il silenzio tanto assoluto e inquietante da mettere i brividi. Dai comignoli delle case uscivano degli sbuffi di fumo grigio che si alzavano, sospinti dal vento, fino a mescolarsi tra le nuvole fosche.
La gente c'è. Perché non esce?
Mi sfregai le mani e me le cacciai in tasca, cercando inutilmente di scacciare quel brutto presentimento e quella nota di allarme che lampeggiava ovunque davanti ai miei occhi.
Erano circa le cinque del pomeriggio. Normalmente le strade sarebbero state piene degli schiamazzi dei bambini appena usciti da scuola o delle urla dei mercanti che provavano a convincere le donne a fermarsi e a dare un'occhiata alla loro merce. Non c'era nulla del genere.
Tentennai, facendo qualche incerto passo avanti, il corpo in tensione e i muscoli guizzanti. Mi addentrai nell'intricato dedalo di viuzze, mentre gli occhi saettavano rapidamente da una parte all'altra della strada in cerca di eventuali pericoli.
Un fruscio alle mie spalle mi fece voltare di scatto, il cuore in gola. Ma non c'era nessuno.
Scrutai attentamente lo spazio circostante, i sensi all'erta; solo dopo aver percorso con lo sguardo ogni singolo millimetro quadrato dell'area intorno a me, mi tranquillizzai.
Sarà stato il vento.
Feci un respiro profondo, cercando di regolarizzare i battiti del mio cuore.
Ripresi a camminare a passo svelto, con l'impressione di avere mille occhi incollati addosso che mi fissavano con un'intensità tale da bruciarmi la schiena.
Iniziai a correre, tentando di sciogliere con il movimento l'inquietudine che campeggiava in me, ma il motivo della mia visita al villaggio mi costrinse a fermarmi immediatamente e ad avanzare più cautamente. Se mi avessero preso, anche la vita di mia madre sarebbe stata in pericolo.
Qualcosa, in lontananza, catturò la mia attenzione. Aguzzai la vista e scorsi la figura curva di un mendicante, appoggiato a un muretto all'angolo della strada.
Mi sistemai meglio il cappuccio in modo che non si riuscisse a scorgere il mio volto e mi incamminai verso di lui. Quando fui a pochi passi di distanza, mi chinai per essere alla sua altezza e domandai:
-Scusa, sai se recentemente è successo qualcosa qui al villaggio?
L'uomo alzò la testa e mi guardò da sotto le folte sopracciglia. Cercai di ignorare l'odore non proprio piacevole che emanava.
-Come? Non lo sai? – i capelli unti gli penzolarono su un lato del capo. – Ah, forse non sei di queste parti.
Annuii con un cenno del capo.
-Mi piace viaggiare, – una piccola menzogna velata di verità.
L'uomo sospirò, grattandosi la testa.
-Un paio di mesi fa, in paese, è scoppiato il finimondo dopo l'uccisione di un bambino – serrai le labbra al ricordo di quel massacro. – I soldati hanno occupato la città e continueranno a farlo finché non saranno certi ogni singolo tentativo di ribellione sia stato stroncato. Hanno addirittura trasformato la scuola in un comando militare. Tutto questo casino per un bambino, che diamine! Sai cosa si diceva ai miei tempi? Che i bambini sono come le farfalle, ogni tre giorni ne muore uno! – e si lasciò andare in una risata sguaiata a cui non mi unii.
-Riesci a crederci? – continuò dopo aver ripreso fiato. – Alcuni credono che il prefetto di Ciet abbia paura di dover far fronte a una rivolta su larga scala. Credono che non abbia i soldi e i mezzi per farlo e che cerchi di arginare fin da subito il problema. Ah, che stolti! È vero che una prolungata guerra civile potrebbe risultare complicata, ma non è certo quello che il governo teme davvero. Ah, che stolti! Come se quattro contadini arrabbiati potessero essere il vero problema! – e sogghignò.
-E quale sarebbe allora? – mormorai piano, tentando di calmare il mio stomaco che si era esibito in una serie di salti mortali al ricordo di tutto quel sangue.
Non mi rispose.
-Sei giovane, ragazzo. Troppo, forse – constatò con occhi vacui. Sbatté le palpebre più volte e tornò a mettermi a fuoco. – Cosa volevi chiedermi? Ah, sì. La situazione al villaggio... – e si dilungò per un tempo che mi parve infinito nel racconto di inutili episodi.
Dal canto mio rimasi in silenzio, cercando di assimilare le informazioni importanti, sparpagliate qua e là in un discorso che non aveva né capo né coda, briciole in una fiumana di parole.
-Ancora non ti hanno visto. Dovresti andartene prima che lo facciano, – proseguì l'uomo, arricciando il labbro superiore – o corri il rischio di diventare come me.
Alzò gli stracci con cui era coperto, rivelando una gamba amputata fin sopra il ginocchio. La fasciatura era ancora imbrattata di sangue.
Mi paralizzai, senza riuscire a staccare gli occhi inorriditi da quello spettacolo raccapricciante.
- G-Grazie per il consiglio ma... ho degli affari da sbrigare qui in paese. A-adesso devo proprio andare. Grazie ancora per le informazioni – replicai a mezza voce, mentre i succhi gastrici mi si agitavano nello stomaco. Avevo fatto bene a non mangiare prima di venire al villaggio.
-Non c'è di che. Quando sarai storpio, se riesci, striscia qua. Era da un po' che non parlavo con qualcuno e mi farebbe davvero piacere fare due chiacchiere.
Il mendicante sorrise mostrando una dentatura praticamente inesistente e le gengive gonfie e nere.
-Lo... lo terrò a mente.
Mi infilai in un vicolo, mentre la risata rauca del vecchio tuonava nell'aria.
Mi appoggiai alla parete di una casa. In quel momento, era l'unica cosa che impediva alle mie ginocchia di cedere.
Qualcosa mi risalì l'esofago, bruciandomi la gola. Aprii la bocca per vomitare, ma non rigettai niente. Stetti qualche istante con la schiena appoggiata al muro, cercando di regolarizzare il respiro ma, anche quando i conati si fermarono, il mio stomaco rimase in subbuglio.
Quando fui certo di essermi ripreso, mi pulii la bocca con il dorso della mano e ripresi a camminare lungo il bordo della strada, stando attento a non farmi vedere, in mente una meta precisa.
Quando bussai alla porta, i ricordi del giorno in cui avevo messo piede in quella casa mi investirono con violenza. La nausea si fece ancora più forte.
Sentii dei passi ovattati avvicinarsi e, poco dopo, la porta si socchiuse rivelando una cascata di ricci scuri.
Gli occhi di Vicky si spalancarono per la sorpresa.
-Gregor! – esclamò, un'espressione di sincero stupore stampata in viso. – Cosa ci fai qua?
Mi grattai la nuca:
-Ecco, io...
-Non dire una parola!
Mi afferrò per un braccio e mi trascinò in casa.
Il soggiorno era proprio come me la ricordavo: arredato con rigore e razionalità, tutto perfettamente in ordine, tutto al posto giusto.
Quando la porta si richiuse, sotto il mio sguardo interrogativo Vicky aggrottò le sopracciglia, fissandomi come se fosse arrabbiata con me.
-Tu! – mi puntò il dito contro il petto. – Perché sei venuto?
Inclinai la testa di lato, completamente spiazzato.
-Ma che bell'accoglienza – commentai con un pizzico di disappunto e delusione.
-Non saresti dovuto venire – continuò lei, guardandomi con gli occhi che parevano carboni ardenti. – Devi andartene al più presto.
Mi tamburellai le dita sul braccio, il piede che sbatteva freneticamente sul pavimento. L'ansia si mischiò all'irritazione per quel caloroso benvenuto.
-Ti posso assicurare che questa non è una visita di piacere. Mia madre sta male. Ero venuto a comprare delle medicine.
Respirai a denti stretti, cercando di non farmi sopraffare dalla paura.
Era mattina inoltrata quando accadde.
Me ne stavo seduto su un ceppo di legno, posto fuori da casa nostra accanto al pollaio, quando i miei occhi avevano colto uno strano movimento sul retro della casa, seguito subito dopo dal rumore di cocci rotti, da un lieve tonfo e dal frullio delle ali delle galline.
Avevo quindi fatto il giro della capanna e il fiato mi si era mozzato in gola alla vista di mia madre a terra, con i capelli biondi sparsi al suolo. Ero corso verso di lei, il cuore che martellava nel petto, e l'avevo portata dentro.
Aveva la fronte sudata, le mani fredde e il volto pallido e scavato. La febbre era alta.
Aveva protestato, eccome se lo aveva fatto, per impedire la mia partenza. È pericoloso, aveva detto. Ma io non avevo demorso: sarei partito anche senza il suo assenso.
Alla fine, era stata costretta, seppur a malincuore, a capitolare.
Dopo aver ascoltato la mia succinta spiegazione, Vicky mi posò una mano sulla spalla e mi fece cenno di sedermi, mentre lei faceva altrettanto, le labbra tirate dalla preoccupazione in una sottile linea.
-Cosa le è successo? – chiese piano, come se abbassando il tono della voce la sua domanda potesse essere più delicata.
-Febbre – risposi, secco.
Rimase in silenzio per qualche istante, poi sul suo volto si disegnò un'espressione affranta.
-Mi dispiace per tua mamma, ma andare a prendere le medicine potrebbe rivelarsi un problema – sussurrò.
-Perché?
Aspettò qualche secondo prima di rispondere e lo fece con calma, in tutta contrapposizione ai miei modi bruschi.
-I soldati hanno monopolizzato i commerci: tutto quello che arriva al villaggio passa per le loro mani. E ovviamente si tengono per loro le merci considerate "di lusso" – fece il segno delle virgolette con le dita. – Sono mesi che non vediamo caffè, zucchero e tabacco. Anche se non è che ce ne fosse molto in ogni caso.
Scosse la testa, sconsolata.
-Le medicine, purtroppo, fanno parte di quei beni che i comuni cittadini come noi non possono ottenere.
Ero così assorto ad ascoltarla che non udii lo scricchiolio di un paio di suole di cuoio sulle assi del pavimento.
-Hai detto bene: sono cose che i comuni cittadini non possono avere.
Un uomo dalla barba brizzolata e dagli occhiali graffiati fece il suo zoppicante ingresso nella stanza.
Il maestro mi sorrise, un luccichio furbo negli occhi.
-Ma si dà il caso che io non lo sia.
Vicky camminava da una parte all'altra della stanza, guardando ossessivamente fuori dalla finestra.
Suo padre era uscito a reperire le medicine e, per ingannare il tempo, mi aveva mostrato la sua camera. La stanza era piccola – c'erano un letto, una finestra dotata di leggere tendine bianche e un comodino –, ma era molto più di quanto avessi mai sognato in vita mia.
E io ero lì, sdraiato su quel comodo materasso, mentre mia madre era da sola in mezzo al deserto con la febbre alta. Mi morsi l'interno della guancia: non avrei mai detto che la preoccupazione potesse essere tanto logorante.
La luce nella lampada sopra il comodino, tremolò.
Vicky sospirò e si appoggiò con la schiena alla parete, lasciandosi scivolare sul pavimento.
-Smettila di sbuffare, sembri una teiera – dissi, alzando leggermente il capo dal morbido cuscino.
Lei mi guardò con occhi infuocati e per un attimo temetti per la mia incolumità. Poi afflosciò le spalle e sbuffò per l'ennesima volta.
-Scusa, è che sono preoccupata per mio padre. È pericoloso uscire di questi tempi.
-Anche io lo sono per mia madre, – replicai con un tono un po' troppo aspro rispetto a come me l'ero immaginato nella mia testa.
Mi passai una mano tra i ricci, mettendomi seduto a gambe incrociate sul materasso.
-Scusami, sono solo nervoso – scossi lievemente la testa. – Come va adesso che ci sono i soldati in città? – chiesi poi, per cambiare discorso.
-Se dico uno schifo rende l'idea?
Si soffiò sulla fronte, spostando così un ricciolo che le era ricaduto davanti agli occhi.
-Già prima era difficile: il villaggio è lontano dalle più grandi vie di comunicazione e, adesso che è occupato stabilmente dai militari, anche i pochi mercanti che passavano di qua non si fanno più vedere.
Tra le sopracciglia le si formò una ruga di preoccupazione.
Nel frattempo, la luce della candela si spense definitivamente, lasciandoci al buio. Vicky sbuffò, aprì un cassetto, tirò fuori un pacchetto di fiammiferi, ne accese uno e lo avvicinò allo stoppino.
Quando la lampada si riaccese, una luce calda le illuminò il viso. Rimasi senza fiato.
Stavo assistendo a una guerra.
Fiamme e ombre volteggiavano sui lineamenti di Vicky in un acceso duello di riflessi dorati e arancioni. Raffinati arabeschi e aggraziate spirali correvano lungo la linea dolce del mento e degli zigomi, sul labbro increspato e tra le sopracciglia arcuate.
Il suo viso era la tela di un pittore: pennellate rosse coloravano la sua pelle color caffè, che risultava ora spenta ora abbagliante in base ai capricci della candela.
Sotto i suoi occhi, incastrata tra le ciglia, stava avendo luogo una danza bellissima e pericolosa, che sapeva di vita e di morte.
Scoprii che vi era un'armonia quasi inquietante tra Vicky e le fiamme, un'intesa profonda tra quel fuoco ardente e lei stessa.
Ne ebbi paura.
E il verso di un'antica filastrocca che avevo letto su un libro del maestro mi solleticò la memoria.
Un'anima di fuoco e di fiamme, l'anima di un guerriero.
-Abbiamo finito il sale – continuò, la voce che tremava, spezzando definitivamente il sortilegio che mi teneva imprigionato.
Il guerriero si è assopito, è tornata la fanciulla.
Trattenni il fiato, mentre metabolizzavo quella terribile informazione.
In un Paese caldo come quello della Terra, il sale era di vitale importanza per conservare gli alimenti. In sua assenza, la popolazione sarebbe morta di fame.
-Come farete? – sussurrai, per poi correggermi – Come faremo?
Non riuscivo a vedere alcuna soluzione.
-Non lo so, – mormorò intrecciando le dita in grembo. – Possiamo solo sperare che dopo le prime vittime i soldati riaprano i commerci. E che quelle vittime non siamo noi – aggiunse infine, tetra in volto.
Annuii meccanicamente, senza sapere cosa dire. Perché in un momento come quello, le parole non erano altro che una pura e semplice formalità, una magra consolazione che non avrebbe riempito lo stomaco di nessuno. Mi limitai a stringerle la mano.
Vicky tirò su con il naso e fece per dire qualcosa ma venne interrotta da alcuni suoni concitati giù in strada. Per la prima volta da quando avevo rimesso piede al villaggio, sentii il rumore prodotto da piedi scalpitanti che ero solito udire nei giorni di mercato.
La ragazza mi fece cenno di rimanere lì, mentre lei si affacciava alla finestra. Pochi secondi dopo la richiuse e mi guardò con la fronte corrugata.
-Cos'è successo? – domandai.
-Pare che abbiano appeso in strada un decreto reale – mormorò, pensierosa.
Dei pianti disperati si diffusero nella via sottostante e io e Vicky ci scambiammo un'occhiata.
-E a quanto pare non è niente di allegro – continuò.
Si infilò le sue solite scarpe di cuoio e si voltò verso di me:
-Resta qui. Io torno subito.
E, prima che potessi replicare, la sua chioma scura scomparve oltre lo stipite della porta.
Capii subito che qualcosa non andava.
Non appena Vicky tornò in camera, le cedettero le gambe. Sarebbe caduta se non avessi avuto i riflessi pronti.
-Vicky! – la scossi leggermente mentre la facevo sedere sul letto. – Cos'è successo?
Lei si umettò le labbra, mentre fissava ostinatamente un punto sulla parete di fronte a lei. Non l'avevo mai vista così turbata.
-Il... il decreto diceva che... – la mani le tremavano – diceva che...
Il cigolio di una porta che si apriva la fece bloccare.
-È mio padre. Scendiamo – mormorò, tirandomi per la manica della maglietta.
La afferrai per un braccio.
-Vicky, stai bene? Mi sembri pallida, – ripetei, preoccupato.
Lei annuì anche se non sembrava per nulla convinta.
-Non è niente.
Mi prese per mano e mise su un sorriso forzato. E, senza lasciarmi il tempo di pronunciare una singola parola, mi trascinò giù dalle scale.
Le prime gocce di pioggia iniziarono a ticchettare sul tetto.
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