40. Cicatrici
Il corridoio ricoperto dalle lamine grigie non era mai stato tanto silenzioso. Perfino i nostri passi sembravano esserlo, impercettibili tonfi nella quiete più assoluta. Le torce sfrigolarono al nostro passaggio.
Lanciai qualche occhiata di sbieco a Ivan, che non sembrava per nulla intenzionato a parlare. Precedeva tranquillo, il ciuffo tagliato corto che gli ricadeva sugli occhi iridescenti. Sembrava più alla mano in quel modo, meno mistico e intimidatorio. E il suo sguardo era cheto, rilassato, felice quasi.
Ma c'era sempre quel qualcosa negli occhi terrificanti del Ladro di Luce che sembrava nascondere tra le ombre delle sue pupille molto più che piccole bugie. C'era un muro tra di noi e nessun ariete sarebbe riuscito a scalfirlo.
-Credevo fossi morto – soffiai dopo un po', il petto contratto dolorosamente. – Saresti dovuto esserlo. Ho visto un Segugio pugnalarti ed eri già ferito.
Ivan si fermò al centro del corridoio, senza guardarmi e senza parlare, e io sentii il bisogno di farlo al posto suo.
-Come fai a essere vivo?
Le sue sopracciglia scure ebbero un fremito.
-Non lo so. Lo sono... e basta.
Sentii le costole tremare una a una al suono della sua voce. Avrei voluto udirla più spesso.
-Come... – e si bloccò, il rombo a metà della trachea e l'incertezza nelle parole che grondava tenerezza – ...come siete arrivati qui?
Il tono era gentile, il suo sguardo era gentile, lui era gentile. E c'era qualcosa dentro di me che sapeva che, anche volendo, non sarei riuscita a negargli niente. Probabilmente, era solo un effetto collaterale della sua essenza di Demone. O almeno lo speravo.
Gli raccontai tutto: dall'incontro con Danny, alle Gallerie della Morte; dall'arrivo a Brahar, alla nostra ammissione tra i Ribelli. Omisi solo la conversazione avuta in privato con il pirata, di cui nemmeno Gregor sapeva nulla. Volevo tenerla per me ancora un po'.
Ivan era un buon ascoltatore. Rimase in silenzio tutto il tempo, deciso a non perdersi nemmeno una singola sillaba di quanto gli stavo dicendo. Era strano il modo in cui mi ascoltava: mi guardava senza battere le palpebre, gli occhi penetranti fissi su di me e le spalle tese in avanti, in tensione quasi.
Alla fine, parola dopo parola, racconto dopo racconto, raggiungemmo la nostra destinazione.
La stanza sembrava più piccola ora che c'era Ivan a occuparla. Con la sua stazza imponente proiettava un'ombra scura ed enorme contro la parete, inghiottendo il grigio sterile nel nero delle ali del Demone.
Era seduto sull'angolo del letto, le braccia lungo i fianchi e gli occhi torbidi che si ostinavano a guardare lontano da me.
Mi presi qualche secondo per studiarlo. Era sempre lo stesso di prima, con le mani grandi e la pelle d'inchiostro, ma tagliando i capelli era caduta anche una parte di quella barriera di ghiaccio dietro cui si nascondeva.
Lentamente, mi accostai a lui e, nel farlo, il mio ginocchio sfiorò il suo. Ivan sobbalzò, spostandosi di lato ed evitando il mio tocco.
-Ivan... – mormorai, mentre un refolo abbattuto sgusciava fuori dalle mie labbra contrite. – Perché scappi? Di cosa hai paura?
Non mi aspettavo una risposta, non la volevo neppure. Invece, per una volta, Ivan decise di parlare da solo, senza nessuna forzatura, e i suoi occhi di elettrico cobalto e di suppliche struggenti mi sembrarono meravigliosi come non mai. Disperati come non mai.
-Ho paura di me stesso – soffiò piano, in un sussurro graffiato dalle lacrime e dalla potenza di un tuono. – La mia è una natura di Demone, e i demoni non hanno cura di nulla.
Ancora una volta mi ritrovai a scavare nel suo sguardo. Perché se Gregor era facile da leggere, con le emozioni che lampeggiavano distintamente sul suo volto come su un limpido lago cristallino, Ivan era l'oceano più oscuro, con i suoi profondi abissi e le sue terrificanti creature.
Ripensai alle innumerevoli premure durante il viaggio: quando controllava le scodelle altrui per assicurarsi che nessuno soffrisse la fame, a costo di mangiare di meno lui stesso; quando ci prestava le coperte perché diceva di non averne bisogno; quando sceglieva volutamente i turni di guardia nel cuore della notte, per non spezzare il nostro sonno. E ripensai a quando era rimasto indietro, sacrificandosi per noi.
Era vero, Ivan era il mare buio e tormentato, ma anche i fondali sabbiosi e costellati di conchiglie, l'acqua limpida solcata da pesci argentati e relitti incrostati di cozze e coralli che giacevano come perle metri e metri sotto la superficie.
Ivan era tutto quello insieme.
Il palmo della mia mano sfiorò il dorso della sua. Provò a ritirarla, come se si fosse scottato, ma mi aspettavo quella reazione. Gli bloccai il polso, mentre appoggiavo il ginocchio sul letto per protendermi di più verso di lui.
Con dita tremanti gli sfiorai lo spigolo dello zigomo e percepii distintamente il suo fiato spezzarsi mentre proseguivo la carezza fino alla mascella.
-Io non ho paura di te, Ivan. Tutt'altro – scossi la testa, le lacrime agli occhi. – Non mi sono mai sentita tanto protetta come quando sono insieme a te. Perché è questo che fai: proteggi. Senza nemmeno accorgertene e senza nemmeno ricevere un grazie.
-Non ne ho bisogno – provò a obiettare.
-Vedi? – gli sorrisi, le nubi nei miei occhi che iniziavano a gonfiarsi. – Tu credi di non meritarti i ringraziamenti, credi di non meritarti la felicità. Ma non è così. Tu la meriti più di chiunque altro.
E in quel momento non mi importò che lui fosse il Demone e il Ladro, non mi importò di nulla.
Mi spinsi verso di lui, una mano a sfiorare il suo gomito e l'altra serrata sulle coperte, a pochi millimetri dalla sua, mentre il cuore mi rimbombava nel petto e nelle orecchie.
Le mie labbra gli sforarono la guancia, in un bacio leggero e silenzioso come la neve che si posava a terra, sulle radici degli alberi. E mi sembrò di essere in un bosco, lì, circondata da quelle braccia che sapevano di aghi di pino.
Sentii il suo fiato spezzarsi tra le ciocche dei miei capelli, mentre le sue ciglia fremevano contro il mio zigomo.
Ivan l'aveva dimenticato, l'amore. L'aveva perso tra i ghiacci e tra gli abeti, tra le rocce e le montagne.
Ma forse, quel giorno, in una stanza grigia nel ventre della terra, ne riconobbe i contorni sfumati e il fioco bagliore, la lieve carezza e il morbido abbraccio.
Perché nessuno insegna mai che anche ai Ladri può venire rubato qualcosa.
Fin da bambina, ero sempre stata spaventata dal contatto fisico. Ero chiusa, introversa, non riuscivo a interagire con gli altri in tranquillità e non facevo altro che ritirarmi nel mio guscio come una testuggine.
Tutto era cambiato quando era comparso Gregor. Era alto e muscoloso, con spalle larghe e mani grandi e forti, ma non era stato quello a far dissolvere la paura. C'era qualcosa in quegli occhi di cheto smeraldo che trasudavano empatia e ispiravano fiducia.
Ivan mi ricordava molto la me di allora. Rigido come un pezzo di legno, sembrava sforzarsi di trovare il modo di eludere la mia stretta. Ma allo stesso tempo non ci stava provando davvero.
Lo capii dal modo in cui i suoi polsi tremarono, prima di sprofondare nelle coperte che sapevano di naftalina.
Lo capii da come il suo capo mi affondò sulla spalla, la sua fronte che mi sfiorava la treccia e la schiena curva per non sovrastarmi con la sua mole.
E lo capii da come, infine, rilassò i muscoli, uno a uno, con fatica quasi, come se fossero rimasti in quella condizione di inflessibilità per anni e lui non si ricordasse bene come dovesse fare per muoverli tutti.
E mentre, finalmente, ricambiava la stretta con lo stesso bisogno primario di un uomo che cerca l'acqua dopo giorni nel deserto, iniziai a tremare con lui.
Le ciocche disordinate dei suoi capelli mi solleticarono la guancia e io inspirai piano, senza emettere il minimo rumore, per non fargli capire quanto avessi disperatamente il bisogno di sentire più forte, ancora più intenso, il suo profumo di bosco.
Quando il palmo della sua mano mi si posò al centro della schiena, sfiorando appena le vertebre, sentii il mio cuore scalpitare impazzito tra le costole, come un cavallo selvaggio rinchiuso in una gabbia troppo stretta per lui.
Rantolai, mentre l'aria mi veniva risucchiata brutalmente dai polmoni, spezzandomi in due e scheggiandomi con emozioni che non credevo sarei mai riuscita a provare.
Ma non era forse quello che faceva il Fulmine irruento?
Spaccava l'aria senza alcun riguardo, senza alcun rimorso, e il Vento restava lì, distrutto, strappato in brandelli di nuvole.
Annientata, mi lasciai scivolare in avanti, fino a toccare con la fronte la pelle calda della clavicola che gli sbucava dalla maglia, proprio lì dove le cinque catene concentriche lo legavano al Cielo maledetto.
Gli afferrai la stoffa tra le dita, all'altezza dello stomaco, stringendo forte.
Fu in quel momento che lo sentii.
Un refolo caldo nel mio orecchio.
Un respiro più pesante degli altri.
Levai lo sguardo sconfitto e incrociai un paio di occhi imbevuti di tenebre, in cui il cobalto era annegato nel nero. Le pupille di Ivan brillavano, irriverenti e pacate insieme, e al loro interno scorsi qualcosa che non mi sarei mai aspettata di vedere.
Qualcosa che ero certa, si rifletteva nelle mie iridi grigie, che trasudavano un bisogno profondo e irrinunciabile.
Ma in quel momento non compresi.
Forse fu l'orgoglio – quel mio maledetto orgoglio – a nascondermi la verità. O forse fu solo la Ruota del Fato che, in quel momento, aveva ben altri piani per noi. Ben altri pericoli da affrontare e ostacoli da superare.
Fatto sta che in quel momento non compresi quanto io fossi follemente, intensamente e irreparabilmente stregata da quegli occhi demoniaci, le cui pupille sussurravano bugie di zucchero e avevano le dita ombrose del Ladro.
Solo quando tutto ciò a cui tenevo sarebbe stato sul punto di essermi portato via, avrei compreso finalmente che il mio cuore di ghiaccio sapeva ancora amare.
Ma all'unica condizione, che con me ci fosse lui.
In quel momento, in cui quasi mi persi nel labirinto delle sue iridi torbide, mi spaventai. Gli appoggiai una mano proprio al centro del petto, lì dove batteva il suo cuore oscuro, e lo spinsi via con fatica.
Lentamente, il respiro mi tornò nei polmoni. Proprio mentre il suo gli veniva strappato dal petto.
Ivan si chinò in avanti, una smorfia dolorante a deturpare i mistici lineamenti del volto, e la sua pelle olivastra divenne quasi grigia sotto il mio sguardo.
-Ivan! – lo chiamai preoccupata.
-Non... non è niente – rantolò lui, ancora raggomitolato su se stesso. – Le... ferite mi fanno solo... un po' male.
Si raddrizzò malamente, le spalle incurvate in avanti e le nocche sbiancate. Evitò il mio sguardo e, mossa dall'inspiegabile bisogno di toccarlo, nonostante un attimo prima fossi stata proprio io ad allontanarlo, mi tesi in avanti, allungandogli le dita sul braccio.
-Ivan... – mormorai con voce spezzata. – Permettimi di aiutarti. Ti prego.
Mi scrutò dubbioso ma, per la prima volta, vidi un varco in quella cinta muraria che lo nascondeva al mondo.
Lentamente, senza distogliere i miei occhi dai suoi, magnetici, iniziai a sollevargli la maglietta. Non c'era malizia nei miei gesti, solo dolorosa preoccupazione. E dovette percepirla anche Ivan perché non mi fermò.
Un sospiro sottile strisciò fuori dalle sue labbra ombrose quando le mie dita gli sfiorarono per sbaglio l'addome asciutto. I suoi muscoli delle braccia ebbero un guizzo, ma non si ritrasse.
Tentai con tutte le mie forze di concentrare la mia attenzione sul suo volto, ma sentii ugualmente la bocca secca e il sudore imperlarmi i polsi, fortunatamente nascosti dai guanti e dai vestiti.
Solo quando gliela sfilai dalla testa, osai lanciare un'occhiata veloce al suo petto marmoreo e ai bicipiti scolpiti.
Rimasi impietrita.
Le bende che gli fasciavano l'ampio torace erano sporche di sangue in più punti ed ematomi in via di guarigione gli macchiavano la pelle d'inchiostro.
-Ivan... – farfugliai con le labbra socchiuse in una smorfia compassionevole. Allungai le mani verso lo zaino ai piedi del letto, contente il kit medico fornitoci da Danny.
Ammucchiai tutto l'occorrente accanto a me e, senza dire una parola, iniziai a srotolare la fasciatura. Le bende caddero una a una sulle sue gambe toniche, rivelando ampi tagli slabbrati sporchi di sangue secco.
Lo ripulii attentamente con un panno, cercando di non prestare attenzione alle sue pupille che mi trapassavano da parte a parte. Una volta terminato, le sue ferite non sembravano più tanto male.
Fu in quel momento che mi accorsi di qualcos'altro, qualcosa che non avevo mai notato prima.
Lunghe e sottili cicatrici biancastre gli ricoprivano il corpo, messe ancora più in risalto dalla sua carnagione scura. Erano vecchie di anni ma un tempo dovevano essere state terribili e dolorose.
Quella volta, al Monastero di Riolite, complici i suoi capelli ancora lunghi e selvaggi e la flebile luce, non le avevo viste e qualcosa di molto simile al rammarico mi serrò la gola.
-Come te le sei fatte? – chiesi in un sussurro.
Ivan non sembrò sorpreso dalla mia domanda.
-Molte sono il risultato di anni di fughe e di scontri – rispose con la sua solita voce bassa e roca che mi faceva tremare. – Altre risalgono al tempo in cui ero prigioniero dei Segugi.
Strabuzzai gli occhi:
-Prigioniero dei Segugi?
Ivan annuì.
-Ho passato mesi nelle prigioni di Brianne.
Non aggiunse altro e io non osai chiedere.
In quel preciso istante, qualcuno bussò energicamente alla porta.
-Avanti!
La testa rasata di Benya fece capolino. I suoi occhi infossati avevano un'aria cupa.
-Dovete venire in sala riunioni. Subito.
-Perché? – domandai, accigliata.
Le labbra di Benya si serrarono.
-Vidar è tornato. E non ha portato buone notizie.
L'aria si fece improvvisamente pesante mentre aggiungeva:
-Tra poco i Segugi faranno irruzione qui.
-Si può sapere cosa è successo? – stava urlando Brent quando entrammo nella stanza.
Non ci degnò di un'occhiata: era furioso. E terrorizzato.
Le tensione si tagliava con il coltello. Gregor aveva le mani intrecciate davanti alla fronte e Dafne – che aveva assunto uno strano colorito verdognolo – stava tamponando un taglio sulla fronte di un pallido Vidar.
-Ho solo eseguito gli ordini: mi era stato detto di uscire a raccogliere informazioni e così ho fatto – spiegò con un ringhio di gola.
-Quale passaggio hai usato? – lo incalzò l'armaiolo, torreggiando su di lui con la sua enorme mole.
-Quello che porta al deposito nord – latrò il ragazzo, protendendosi in avanti con tutti i muscoli tesi, pronto a saltare addosso a chiunque avesse messo in dubbio la sua parola.
Benya si accasciò su una sedia e si passò stancamente la mano callosa e piena di cicatrici sul volto.
-Non ci abita nessuno in quella zona. Com'è possibile che ti abbiano scoperto?
Gli occhi di Vidar si fecero affilati come coltelli quando rispose:
-C'erano dei soldati appostati proprio davanti all'uscita. Non so se erano lì per cercare il passaggio o altro, ma in ogni caso non lo avevano ancora trovato – alzò il mento e il ciuffo biondo cenere gli ricadde sulla fronte. – Li ho uccisi prima che potessero chiedere aiuto, ma mentre stavo nascondendo i cadaveri ne sono arrivati degli altri. Ho cercato di fare fuori anche loro, ma un paio mi sono sfuggiti. Ho fatto saltare in aria la galleria, ma non ci vorrà molto perché riescano a liberarla di nuovo.
Brent sputò per terra.
-I bastardi saranno sicuramente andati ad avvertire Brianne – i suoi occhi azzurri si adombrarono. – E tra poco avremo Raev e i suoi Segugi con il fiato sul collo.
Gregor sollevò lo sguardo e lo fece scivolare sui presenti.
-Allora cosa ci facciamo qui? Dobbiamo andarcene!
Benya si alzò in piedi, dandosi la spinta appoggiando le mani sul ripiano del tavolo.
-Il novellino ha ragione: se non ci diamo una mossa ci rimarremo secchi.
E come una macchina ben oliata, tutti ci alzammo all'unisono e corremmo a prendere le nostre cose.
Nessuno si voltò indietro.
Ci ritrovammo davanti alle palestre, con il cuore che martellava nel petto e la paura che urlava a gran voce. L'unico che mancava all'appello era Brent.
Quando ormai stavamo valutando se tornare indietro e vedere se era successo qualcosa o andarcene senza di lui, lo vedemmo arrivare di corsa con in mano un lungo fagotto. Senza darci il tempo di parlare, srotolò i lacci che tenevano la stoffa e questa cadde a terra in un fruscio.
Per un attimo, tutti trattennero il fiato.
Brent aveva in mano una lancia, la più bella che io avessi mai visto. Lunga almeno due metri e affusolata, sembrava riempire il corridoio con la sua sola presenza. La punta brillante scintillava nella penombra, carpendo – quasi rubando – ogni singola e minuscola luce dalle fiaccole accese. L'asta era del colore della notte più nera, della caverna più oscura; solo guardandola mi sembrava che tutt'intorno a noi risuonassero ora i versi delle gufi e delle civette, ora gli stridi dei pipistrelli. Venature blu e bianche impreziosivano il manico, ammorbidendo il senso di gelo che mi faceva tremare le caviglie.
A Brent non servirono parole: tutti sapevano chi sarebbe stato il custode di un'arma tanto splendida quanto letale.
Quella lancia portava il nome del Demone.
-Non potevo mica lasciarti andare in giro disarmato! – borbottò un imbarazzato Brent, accarezzandosi la barba grigia. – Sarai anche un Marchiato, ma un'arma fa sempre comodo.
Ivan accettò il dono senza fiatare, con i polsi frementi e gli occhi brillanti, come se in mano non tenesse una macchina di morte, ma tutti i colori del mondo. Tutta la sua luce.
Ma non era proprio quello che voleva il Ladro?
Lui desiderava ogni singola scintilla di gioia, il più minuscolo gesto d'amore e la speranza più fragile.
Il Ladro voleva tutto. E tutto avrebbe ottenuto.
Mesi prima Ivan aveva detto che no, lui non era il Ladro. Ma come potevo dargli ragione quando, tutte le volte che mi guardava, i suoi occhi demoniaci mi privavano perfino della pelle?
Gli lanciai un'occhiata da sotto le ciglia, attenta a non farmi scoprire. Tracciai con lentezza ogni singolo spigolo del suo volto e seguii con lo sguardo ogni onda dei suoi capelli ribelli. Il naso dritto e gli zigomi alti gli davano un'aria regale, ma sarebbe bastata la sua altezza spropositata a incutere rispetto anche al più temerario degli uomini.
Venni bruscamente riscossa dai miei pensieri da una discussione dai toni accesi.
-Smettila di sparare cazzate, Brent! Predi le tue cose e filiamocela. Non abbiamo tempo per i sentimentalismi! – stava urlando Benya. E il solo fatto che il taciturno Ribelle avesse alzato la voce mi mise in guardia.
Mi avvicinai furtivamente a Gregor e gli chiesi cosa stesse succedendo.
-Brent non vuole venire. Dice che resterà qui al Rifugio – mi aggiornò con una smorfia.
-Non me ne andrò, Benya – rispose l'armaiolo con cheti occhi turchesi. – Sono nato a Brahar e a Brahar morirò. Qui ho la mia casa, la mia attività: non ho intenzione di andare da nessun'altra parte.
-Potrai tornare qui quando vuoi, ma adesso dobbiamo fuggire! I Segugi saranno qui a minuti e ti assicuro che questa volta non ci lasceranno scappare!
Brent scosse la testa.
-Nessuno torna a Brahar dopo averla lasciata una volta; è la regola non scritta. Nessuno prova il desiderio di tornare al Fulmine dopo aver conosciuto gli altri Paesi. Nessuno torna all'inferno dopo aver assaggiato il paradiso.
I solchi sulla fronte si accentuarono mentre continuava:
-Non voglio morire in terra straniera se tutto quello per cui ho lottato resta qua.
Benya sbatté il piede per terra e i suoi occhi infossati si fecero ancora più scuri.
-Perché dovresti preferire una morte a un'altra quando puoi scegliere la vita?
L'armaiolo sospirò, appoggiando la spalla alla parete laminata.
-Io sono un Ribelle, proprio come voi. Eppure non ho mai messo piede sul campo di battaglia, non ho mai combattuto veramente. È arrivato il momento di rimediare.
-Ma...
-Questa è la mia ultima parola, amico mio – appoggiò la mano callosa sulla spalla di Benya. – I Segugi ormai saranno già entrati nelle gallerie e nel giro di poco saranno qui. Vi saranno addosso come un branco di cani affamati se non fate qualcosa.
Il suo sguardo si fece serio.
-La vostra unica speranza è attivare il piano 124.
Dafne impallidì visibilmente.
-Non puoi dire sul serio.
-Sei sicuro di quello che stai facendo? – domandò Benya.
Vidar scrollò le spalle, un sorriso scaltro ad affilargli le labbra.
-Sarà un bel botto. Chissà, forse lo sentirà anche il re!
-Che cos'è il piano 124? – fece Gregor, sollevando una mano. Inutile dire che venne ignorato.
Brent annuì.
-Sì, sono sicuro. Ma per farlo avrete bisogno di qualcuno che torni in sala riunioni: lo farò io.
Dafne gli afferrò la mano.
-Possiamo trovare un altro modo... Non serve che ti sacrifichi. È stupido, insensato e...
-Necessario – la interruppe dolcemente Brent. – È necessario per voi. La vostra vita vale molto più della mia.
Proprio in quel momento, non molto distante da noi, iniziammo a udire il suono cadenzato di passi di uomini addestrati. La paura si fece largo a gomitate nei nostri petti.
I Segugi erano arrivati.
-Andate! – gridò Brent. – Al piano ci penso io, ma voi andate!
Ci voltò le spalle e corse via. In breve tempo la sua schiena imponente scomparve nelle lunghe gallerie sotterranee.
Non eravamo nemmeno riusciti a dirgli addio. Ma forse era meglio così. A Brent non erano mai piaciuti i perditempo.
E mentre noi correvamo nella direzione opposta e tonfi pesanti risuonavano in lontananza, mi sembrò di scorgere qualcosa scivolare sul volto di Benya.
Una lacrima silenziosa brillava sulla sua pelle color caramello.
L'ennesima cicatrice.
Angolino piccinopicciò 🦝❤
Beh, il bacio c'è stato. Sulla guancia... ma c'è stato. Sarebbe stato troppo bello, altrimenti. Una piccola gioia da conservare nel cassetto!
Poi, come predetto, la situazione sta precipitando rapidamente. Mancano quattro capitoli alla chiusura dell'arco narrativo e, a meno che non cambi idea all'ultimo, saranno pieni di azione. Spero di non combinare un casino!
Però adesso voglio assolutamente sapere cosa ve ne pare del capitolo (soprattutto della dolcissima Reivan)!
A presto con il prossimo aggiornamento! 💖
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