4. Cenere e sangue
Avevo sempre pensato di avere un buon orientamento eppure lì, in quella situazione, con la gente che scappava alzando nubi di polvere, le vie che imboccavo mi sembravano tutte uguali.
Correvo senza guardare dove stessi andando, con la gola secca e le guance che mi facevano male a furia di urlare il nome di Vicky.
Dubitavo del fatto che, anche se fosse stata lì vicino, mi avrebbe sentito. La mia voce era coperta dal cozzare di armi, dalle grida delle donne e dai pianti dei bambini.
Imboccai un vicolo e scavalcai con un balzo dei pali di legno abbandonati in quel punto da chissà quanto tempo. Continuai ad avanzare ad ampie falcate finché un ringhio mi fece arrestare di botto.
Mi voltai lentamente verso il luogo dal quale proveniva quel brontolio minaccioso e un cane randagio puntò gli occhi rossi su di me e latrò, ostile, la bocca che schiumava.
Mi misi a camminare con calma, la spalla che sfiorava la parete scrostata di una casa, ostentando una tranquillità che non mi sentivo addosso e cercando di non fare movimenti che potessero sembrare bruschi o aggressivi. Avrei volentieri evitato di essere mutilato dai denti aguzzi dell'animale.
Il suo pelo corto era costellato di zecche e il muso era sporco di terra e fuliggine. Le zanne affilate come coltelli erano scoperte e gli occhi luccicavano con ostilità.
Quando ero ormai convinto che mi sarebbe saltato addosso, a dispetto dell'aspetto minaccioso, fece un passo indietro, arretrando malamente con una zampa piegata.
Lo guardai per un istante, per poi distogliere subito dopo lo sguardo, non riuscendo a sopportare quella vista.
Mi chiesi se avessi anche io il suo stesso aspetto: ferito, spaventato, arrabbiato con il mondo. Mi immaginai con il volto distorto in un'espressione folle, gli occhi allucinati, i capelli scarmigliati, la maglietta sudata e i pantaloni stracciati.
Questo non sono io.
Io non ero quel ragazzo arrabbiato e violento che aveva immaginato di fare a pezzi un soldato con le sue mani.
Io non ero quel ragazzo che aveva desiderato ardentemente sentire il corpo di un uomo fermarsi, immobile, sotto i suoi colpi.
Io non ero quel ragazzo che aveva anelato di poter osservare dall'alto quegli occhi piccoli e cattivi spegnersi lentamente, proprio come aveva fatto lui con quel povero e innocente bambino.
Io non ero un assassino.
Chi era stato a farmi diventare così? Chi era stato a ridurmi in questo modo, a ridurci in questo modo?
La risposta la conoscevo. Ce l'avevo in testa da molto tempo. E se solo ripensavo agli anni passati a negare l'evidenza e a voltare il capo altrove, sentivo il petto infiammarsi e l'anima bruciare.
Ma, in quel momento, tutta la rabbia era stata confinata in un angolino della mia mente. Ero lucido: sapevo perfettamente cosa dovevo fare.
Riuscii a superare la povera bestia incattivita dalla fame e dal dolore che si raggomitolò su se stessa in un angolo e, dopo un paio di passi, senza rendermene nemmeno conto, mi ritrovai nella via principale.
Repressi un conato di vomito quando l'odore metallico del sangue mi invase le narici. Almeno una decina di corpi era riversa a terra, i vestiti cremisi, la pelle cinerea e gli occhi vitrei.
Poco più in là, qualcuno ancora combatteva: degli uomini erano riusciti a rubare delle armi e provavano a resistere alla forza nettamente superiore dei militari addestrati. Le orecchie mi ronzavano dopo tutto quel tintinnio di armature, quel clamore provocato da metallo su metallo.
Poi, totalmente inaspettato, sentii un respiro tremante provenire dalla mia sinistra, non troppo lontano da me. Era come se, durante un temporale, tra il fragore dei tuoni e il fischio assordante del vento, si fosse in grado di percepire il delicato fruscio delle foglie di un albero.
Mi voltai, sorpreso, e vidi che, in un angolo, sotto le scale di ingresso in un edificio in mattoni cotti al sole, c'era una bambina. Era piccola, magra, con gli occhi grandi, enormi dalla paura. Le sopracciglia avevano una piega dolente e i gomiti erano piegati fino a stringere la testa.
Mi spostai verso di lei con passo incerto:
-Ehi, va tutto bene?
Mi sentii maledettamente stupido dopo aver pronunciato quelle parole. Non poteva andare tutto bene.
La bambina alzò lo sguardo sconvolto e indicò con il dito sottile il cadavere di un uomo poco distante da noi. I suoi occhi si riempirono di lacrime e il labbro le iniziò a tremare incontrollabilmente.
I lamenti e le urla che provenivano da tutt'intorno sembrarono abbassarsi di un tono.
Rimasi per un istante immobile mentre metabolizzavo appieno il significato di quel gesto. E quando ci arrivai qualcosa di violento, di inarrestabile, mi bruciò al centro del petto. Non era compassione, non era pietà.
Era rabbia, indignazione.
Con la coda dell'occhio scorsi un luccichio alle mie spalle. Un soldato stava correndo nella nostra direzione e la punta del suo pugnale lampeggiava macabra.
Incespicai all'indietro e, nel compiere il movimento, il mio gomito cozzò contro qualcosa di duro, che cadde a terra in un tonfo metallico. Era una spranga di ferro arrugginito, abbandonata lì da chissà quanto tempo.
Potevo sconfiggerlo. Potevo combattere anche io.
Stavo per allungare la mano e impugnare quell'arma improvvisata quando la mia stessa voce mi risuonò in testa.
Non sono un assassino.
Se non mi fossi fermato, lo sarei diventato. O sarei morto.
Nessuna delle due possibilità mi attirava particolarmente.
Così, presi in braccio la bambina e fuggii via.
Corsi veloce, scappai lontano.
Sapevo perfettamente che la priorità era trovare Vicky, ma con quale coraggio potevo abbandonare lì una bambina? E quando sentii le sue manine aggrapparsi alla mia maglietta compresi di aver compiuto la scelta giusta.
Per quanto mi sforzassi di accelerare, il soldato dietro di me guadagnava terreno, per nulla intralciato dall'armatura pesante. Mi sentivo il suo fiato sul collo. Provai a imboccare strade sempre più strette e tortuose per rallentarlo, ma non ci riuscii. Non demordeva e io ero stanco per la corsa di prima e appesantito della bambina.
I suoni ovattati dei calzari di cuoio sul terreno si facevano sempre più vicini. Mi avrebbe raggiunto.
Svoltai nello stesso vicolo dove poco prima avevo visto quel cane randagio. Lanciai di sfuggita un'occhiata al suo nascondiglio e notai l'animale raggomitolato in un angolo, con le orecchie basse e la coda tra le gambe. Si fece piccolo piccolo contro la parete, forse percependo anche lui la minaccia della spada affilata del mio aguzzino.
La distrazione mi fu fatale: mi sentii tirare per la maglietta e caddi rovinosamente a terra. Provai a proteggere la bambina, ma la mia testa cozzò contro qualcosa di duro. La vista mi si oscurò e le palpebre si illuminarono di tanti puntini colorati, mentre sentivo qualcosa di caldo colarmi sulla tempia.
Mi misi seduto, una mano sulla fronte a tastare la ferita, e una fitta mi trapassò il cranio. Sbattei le palpebre per schiarire la vista mentre, d'istinto, provavo a indietreggiare, la bambina ancora aggrappata alla mia spalla.
Non fu abbastanza. Perché non appena fui in grado di vedere di nuovo, scorsi il pugnale dell'uomo lampeggiare sopra di me.
È finita, pensai.
Ma quando la punta dell'arma arrivò a circa venti centimetri dal mio petto, un sasso della grandezza di una mela gli si schiantò sul naso. Il soldato barcollò, per poi accasciarsi contro una parete, mentre il sangue gli gocciolava sulla cotta di maglia.
-Corri! – urlò qualcuno alle mie spalle.
Non riuscii a capire chi fosse ma, sicuramente, non me lo sarei fatto ripetere. Con la testa che martellava, mi alzai in piedi.
La terra mi mancò sotto le scarpe. Sarei caduto se non fosse stato per un braccio che mi si avvolse intorno alla mia vita. Due occhi del colore del cioccolato, incorniciati da lunghe ciglia scure, si puntarono nei miei.
-Vicky – sussurrai, mentre un peso mi si sollevava dal petto.
-Dobbiamo muoverci – asserì lei senza nemmeno guardarmi, mentre afferrava la mano della bambina.
Annuii, usando un brandello della mia maglietta stracciata per bloccare il sangue che colava dal taglio sulla fronte.
Ignorai la testa che pulsava e la vista ancora annebbiata e, facendomi guidare da Vicky, passo dopo passo, riuscii a lasciarmi alle spalle le imprecazioni e le maledizioni che il soldato ci scagliava contro.
Tenevo lo sguardo basso, senza guardare dove stessi andando, affidandomi completamente alla ragazza al mio fianco. Le tempie pulsavano, ma mi sforzai di ignorare quel dolore sordo.
Svoltammo a un paio di bivi e ci ritrovammo nella via sulla quale affacciava la casa in cui io e mia madre ci eravamo rifugiati poco prima.
-Dove... dove stiamo andando? – chiesi a fatica, mentre una nuova fitta mi colpiva la fronte come un bollente cavo d'acciaio.
Gli occhi scuri di Vicky saettavano da una parte all'altra in cerca di eventuali pericoli.
-A casa mia.
Annuii distrattamente mentre la bambina che avevo salvato, attaccata alla gonna grigia della ragazza, tirava su con il naso.
La via sembrava deserta, l'aria tranquilla e il clamore delle armi lontano; eppure avevo una strana sensazione alla base della nuca, un brivido freddo che mi faceva accapponare la pelle. Era come se qualcuno mi avesse legato un panno bagnato intorno al collo ma, per quanto provassi a ruotare il capo, non riuscissi a vederlo.
Improvvisamente, quel brivido divenne una terrorizzante certezza.
Mi fidai del mio istinto e, senza indugiare oltre, spinsi a terra Vicky e la bambina mentre, con un sibilo, una lancia si conficcava a venti centimetri dalle nostre teste.
Il soldato che credevamo di aver seminato teneva una mano all'elsa di una spada e l'altra a coprire il naso viola e contuso. La sua espressione non lasciava presagire nulla di buono.
La bambina iniziò a piangere e sentii Vicky trattenere il fiato. La spada dell'uomo luccicò mentre la estraeva dal fodero.
Ma fu solo per un istante.
Prima ancora che riuscisse a sguainarla del tutto, una freccia gli trapassò il collo con un fischio, proprio dove la pelle era lasciata scoperta dall'armatura, e lui stramazzò al suolo senza un rumore.
Fissai per qualche istante il corpo dell'uomo di fronte a me, senza capire appieno come e cosa fosse successo.
Lentamente, mi voltai e dei capelli biondi entrarono nella mia visuale.
Mia madre si ergeva a pochi metri da me, ritta come un fuso, gli occhi di gelido smeraldo e la schiena rigida. Con la mano destra, reggeva una balestra appoggiata alla sua coscia; l'arma era priva di munizioni.
Prima che potessi pronunciare una singola sillaba, la figura zoppicante del maestro si fece avanti.
-Papà! – esclamò Vicky, scattando in piedi e correndo ad abbracciarlo.
Il padre abbozzò un sorriso e, sistemandosi gli occhiali sul naso, ricambiò impacciatamente il gesto d'affetto.
-Vedo che sai ancora tirare, Eliza – commentò, rivolgendo uno sguardo ammirato in direzione di mia madre e accompagnando il tutto con un cenno del capo.
Sussultai sentendo il nome di mia madre: erano anni che nessuno la chiamava in quel modo.
Lei sbuffò:
-Non è stato niente di che – i suoi occhi verdi, ora un po' più caldi, si posarono su di noi. – Meglio muoverci prima che arrivino altri soldati.
Mi alzai in piedi, prendendo in braccio la bambina. Ormai il dolore alla testa si era affievolito.
Per un secondo lo sguardo di mia madre incrociò il mio e mi sentii rabbrividire: scappando in quel modo, seppur mosso da buone intenzioni, l'avevo fatta grossa. Tremai al pensiero di cosa mi avrebbe aspettato non appena fossi arrivato a casa. L'idea di rimanere in strada ancora un po' mi sembrava sempre più allettante.
Iniziammo a incamminarci lungo la strada, in allerta, lasciandoci guidare dal padre di Vicky, il quale ci condusse fino alla casa in cui mi ero rifugiato con mia madre allo scoppiare della rivolta. Con un pizzico di apprensione, lo osservai trascinare una gamba, mentre con un fazzoletto si riparava il volto dalla polvere.
Sapevo però che non era ferito: un paio di anni prima, si era beccato un calcio da un bue che gli aveva fratturato il femore e diverse altre ossa. Con il tempo aveva ripreso a camminare, ma non era più stato l'uomo di prima e non sarebbe mai tornato ad esserlo.
-Come facevi a sapere che questa era casa loro? – chiesi rivolto a mia madre, mentre il maestro ci faceva strada.
-È una lunga storia – rispose secca, senza mostrare alcuna intenzione di approfondire il discorso.
Chiudemmo la porta dietro di noi e io e Vicky crollammo a terra, spalla contro spalla.
-Ci è andata bene – constatai passandomi una mano sulla fronte.
Un ringhio selvaggio mi fece accapponare la pelle. Osai lanciare un'occhiata di sbieco e trovai le pupille infuocate di Vicky puntate nelle mie. Non feci neanche in tempo a battere le palpebre che uno schiaffo mi bruciò la guancia destra.
-Tu! – berciò inferocita, puntandomi il dito contro il petto. – Cosa diamine ti è saltato in testa!
Inclinai il capo, interdetto e preso in contropiede da quelle parole. Me le sarei aspettate da mia madre, ma non da lei.
-In che senso? – mi accigliai, massaggiandomi il punto colpito su cui ero certo si fosse impressa l'immagine di cinque dita rossastre.
Gli occhi di Vicky si ridussero a due fessure:
-Dei, non pensavo fossi così stupido.
Con la coda dell'occhio, scorsi mia mamma trattenere, suo malgrado, un fioco sorriso. Nel frattempo, senza curarsi troppo del nostro scambio di battute, il padre di Vicky prese in braccio la bambina e la portò in un'altra stanza.
-Cosa ho fatto adesso? – allargai le braccia, esasperato.
-Assolutamente niente! Cosa puoi aver fatto di male?! Hai solo fatto una tranquilla passeggiata in un paese in piena rivolta!
-Io stavo venendo a cercare te!
Lei strinse i pugni, i ricci che si scuotevano furibondi sulle sue spalle magre.
-Me la sarei cavata. Sei tu quello più in pericolo tra di noi.
-Ah sì? Te la saresti cavata? – serrai la mascella. – Come fai a esserne certa?
Non mi importava nulla del fatto che chiunque in strada avrebbe potuto sentirmi. In quel momento volevo solo urlare, liberarmi di quella rabbia e di quella frustrazione che mi opprimevano come un manto di piombo.
-Lo so e basta.
-Lo sai e basta?! Tu non... – mi interruppi solo quando la mano di mia madre si posò con forza sul mio braccio. I suoi occhi mi mandavano un chiaro segnale: "Basta".
Sbuffai. Vicky diede un calcio a una gamba del tavolo.
La tensione si tagliava con il coltello; l'aria mandava scintille. Era come uno stoppino circondato da un incendio: sarebbe bastato un attimo per fargli prendere fuoco.
Mia madre si passò una mano sul volto stanco e striato di polvere e sospirò:
-Gregor, siediti. Ti metto qualcosa su quel taglio.
Mi lasciai cadere su una sedia con un grugnito, appoggiandomi allo schienale e rilassando i muscoli rimasti in tensione per tutto quel tempo. Chiusi gli occhi mentre mia mamma mi medicava la fronte, strofinandomi un panno bagnato sulla pelle sporca di terra, di sangue e di sudore.
E mentre le sue dita si muovevano agili, le mie palpebre si colorarono di tutto il sangue che avevo visto oggi. Le immagini scorrevano rapide ma ugualmente impresse a fuoco nella mia mente: la morte del figlio di quella donna nella piazza, gli occhi della bambina mentre indicava il cadavere del padre e il sangue del soldato che colava copioso sul selciato. Sentii le lacrime minacciare di uscire, ma strinsi i denti. Non potevo mostrarmi debole, non dopo tutto quello che era successo.
Quando risollevai lo sguardo, vidi che mia madre mi stava fissando intensamente. Mentre cercavo di nascondere le lacrime incastrate tra le ciglia, si avvicinò al mio orecchio.
-Puoi piangere se vuoi, – sussurrò, abbastanza piano da non farsi sentire da Vicky. – A volte versare qualche lacrima è necessario. Forse non dignitoso, ma necessario.
Mi lanciò un'occhiata penetrante, per poi tornare a concentrarsi sul suo lavoro.
Sentii la rabbia montarmi nel petto: verso il governo, verso i soldati, verso me stesso. Mi morsi l'interno della guancia e il sapore del sangue mi invase la bocca.
Mia madre continuò a medicarmi con silenziosa solerzia, senza pronunciare una singola parola.
E in quel silenzio che sapeva di rassegnazione, un'unica lacrima scivolò sul mio viso, una piccola e luminosa scia salata sulla mia guancia sporca di polvere.
Passammo le successive due ore chiusi in un mutismo totale. Io, Vicky e mia madre eravamo seduti al tavolo a testa bassa, intenti a rimuginare su quanto accaduto.
Senza farmi notare, alzai lo sguardo e scrutai i loro volti; avevano entrambe un'espressione preoccupata e pensierosa. Io, invece, non riuscivo a pensare proprio a niente; fissavo il muro della parete di fronte con la testa completamente sgombra. E non sapevo se fosse un bene o un male.
Un lento cigolio ci fece sobbalzare sullo schienale.
Un istante dopo, il maestro entrò nella stanza, con il suo vecchio cappello sgualcito stretto tra le mani. Ci rilassammo. Era andato a riportare la bambina da sua madre, premurandosi di raccontare alla povera donna cosa fosse successo al marito.
Gli ci erano voluti diverso tempo e tutte le sue abilità oratorie per convincerci a lasciarlo andare. L'unico motivo per cui, alla fine, glielo avevamo permesso era perché ci aveva assicurato che i soldati lo avrebbero ignorato. "Che problemi può mai dare un vecchio maestro zoppo?" aveva detto.
Lo squadrammo attentamente mentre si passava una mano tra i capelli, che assomigliavano più a un informe groviglio scuro.
-Com'è la situazione fuori? – domandai, appoggiando i gomiti sul tavolo.
Il maestro si lasciò cadere su una sedia e, con un sospiro, provò a pulire gli occhiali con la camicia a quadri che indossava, con il solo risultato di sporcarli ancora di più.
-Non ho mai visto niente del genere. È la prima insurrezione che vedo da... – fece una pausa lanciando un'occhiata nervosa a mia madre – beh, da molto tempo. La rivolta è stata completamente sedata, ma i soldati sono furiosi.
Tamburellò un paio di volte le dita sul tavolo prima di continuare:
-Molti uomini sono morti e gli altri hanno troppa paura di fare la stessa fine. La maggior parte di loro si è chiusa in casa, ma come biasimarli?
Mia madre annuì, pensierosa.
-E da adesso in poi sarà solo peggio. Il governo di Ciet non può permettere che una simile azione rimanga impunita. Si assicurerà di dare una punizione esemplare. Le tasse si faranno ancora più aspre e ai soldati verrà ordinato di usare metodi ancora più brutali.
Rabbrividì.
-Potrebbero perfino decidere di collocare un comando militare in paese. Se lo facessero, sarebbe terribile.
-Lo so, Eliza. Lo so – il maestro emise un respiro tremulo, mentre mia madre si massaggiava la radice del naso.
Forse non era il momento più adatto per una domanda del genere, ma chiesi ugualmente:
-Voi due vi conoscete?
Due paia di occhi si puntarono su di me.
-Sì, – fu la laconica risposta del padre di Vicky.
Qualcosa nel suo tono mi spinse a non fare più domande e dovetti mordermi la lingua per tacere.
Lanciai un'occhiata di sottecchi a Vicky che, di fronte a me, non dava segno di volersi intromettere nella conversazione. A quanto pareva, ero l'unico a trovare quel dettaglio degno di nota.
-Per stanotte potete rimare qui; non penso verranno a fare dei controlli adesso ed è pericoloso uscire con i soldati ancora in strada. Vi consiglio di partire domattina, alle prime luci dell'alba, prima che inizino a girare per le case – propose il maestro con un debole sorriso.
Io e mia madre annuimmo.
-Grazie.
-Non è nulla di che. Venite, vi mostro dove potete sistemarvi per la notte.
Mi alzai in piedi e posai nuovamente lo sguardo sulla figura snella di Vicky, che fissava ostinatamente la cassapanca di legno, fermamente decisa a ignorarmi.
Mentre suo padre ci guidava in un angusto corridoio, mi fermai di fronte a una stretta finestrella e gettai un'occhiata alla strada. Un paio di incendi divampavano in lontananza e delle macchie scure imbrattavano il selciato.
Sospirai.
Il giorno dopo, le uniche cose rimaste sarebbero state cenere e sangue.
Ciao a tutti!
Come state? Vi sta piacendo la storia?
Mi rendo conto che come inizio è un po' lento ma, prima di arrivare alla parte centrale della trama, avevo bisogno di porre alcune premesse: le condizioni socio-economiche della popolazione e almeno qualche cenno alla storia di Valhaar, per fare alcuni esempi.
Marked sarà abbastanza lunga (un giorno diventerà una bella trilogia 😊) quindi non potevo rischiare di partire in fretta e furia nello sviluppare gli eventi cardine per poi essere costretta a fermarmi a metà lavoro perché non li avevo contestualizzati. Ho quindi cercato di snocciolare a poco a poco queste informazioni, sperando di non annoiare.
Che dite, ci sono riuscita?
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