23. Il Demone degli Arenas
Quando riaprii gli occhi era ormai mattino. Strizzai le palpebre, cercando di abituarmi al bianco abbagliante dei ghiacci degli Arenas.
Diedi un colpetto sulla spalla di Reyna, che aprì gli occhi di scatto e tentò di saltare in piedi, invano. Eravamo ricoperti di neve fino al collo.
La sera prima eravamo riusciti a raggiungere il limitare della tempesta ma, non avendo le forze di andare avanti, ci eravamo scavati una buca ai piedi di un grosso abete e, dopo esserci infilati sotto uno spesso strato di neve come fosse una coperta per sfuggire al freddo della notte, eravamo crollati addormentati.
L'idea di coprirci con la neve era stata mia. Avevo letto anni fa che erano molti gli alpinisti a farlo, se bloccati in una tempesta. Era stata una scelta che ci aveva impedito di morire ibernati, ma in quel momento sentivo il gelo pungermi la carne e congelarmi i legamenti.
Mi sfilai i guanti e soffiai il fiato caldo sopra la pelle raggrinzita delle dita. Era ora di muoversi.
Lo comunicai a Reyna e lei si disse completamente d'accordo.
Tuttavia, quando – dopo esserci scrollati la neve di dosso – provò a mettersi in piedi, notai che le sue gambe tremavano. Dopo le magie della sera prima, le sue energie dovevano essere prosciugate.
Mi accucciai davanti a lei.
-Forza, sali.
Lei mi fissò con le narici dilatate, come se le avessi proposto chissà quale azione oltraggiosa ma, infine, dopo una serie interminabili di suppliche e ricatti, cedette.
Camminammo per un bel po' in quell'immobile spettacolo niveo, accompagnati dal ritmo cadenzato dei miei passi.
-Ehi, Reyna – la chiamai a un certo punto.
-Mmh.
Tentennai, indeciso se porre la fatidica domanda. Quando parlai, lo feci cautamente, conscio del fatto che a quelle due lame che aveva al posto degli occhi sarebbe bastato un istante per infilzarmi.
-Quando eravamo a Voltur, mi avevi detto che avevi ricevuto una pugnalata dalla persona che ti era più cara. Cosa intendevi? E di chi stavi parlando?
La sentii sospirare rumorosamente da sopra la mia spalla.
-Di mio padre – rispose, talmente flebile che mi dovetti sforzare per sentirla, nonostante la sua bocca fosse a pochissimi centimetri dal mio orecchio.
Rimasi in silenzio, aspettando che continuasse, e così fu.
-Io e mio padre vivevamo in una casetta non molto lontana dal Golfo di Kamur, circondati da un bosco rigoglioso. Eravamo sempre stati solo noi due, ma a me non importava: mi bastava quello per essere felice.
Così come a me bastava mia madre.
-Devi sapere, Gregor, che mia madre era la precedente Marchiata del Vento e morì dandomi alla luce. Mentre lei spirava io emettevo il mio primo vagito. Riesci a crederci? – mormorò con voce rotta e il labbro inferiore che tremava. – Senza neppure conoscermi mi ha lasciato un'eredità più importante di qualsiasi somma di denaro. A oggi, il Marchio è l'unica cosa che mi lega a lei.
Le sue dita affondarono nella mia casacca pesante, stringendo la stoffa come per darsi la forza di andare avanti.
-Ed è per questo che sarò sempre grata di essere una Marchiata. Perché non c'è cosa che mi renda più felice di sapere che la vita che io sto vivendo è stata condivisa, anche solo in parte, da lei.
Un lieve singhiozzo le scosse le spalle. I suoi occhi erano lucidi, ma le guance asciutte.
Adesso che ci riflettevo attentamente, non avevo mai visto Reyna piangere. Mai, nemmeno una lacrima. Mi chiesi quante ne tenesse chiuse nel cuore, trattenute da una diga di ferrea volontà.
-Non è meraviglioso? – continuò con un respiro tremulo incastrato tra le labbra. – Madre e figlia legate da un laccio invisibile tessuto da gli Dei. Ma che questo si riveli un filo dorato o una catena d'acciaio non mi importa. Sono quello che sono e continuerò a esserlo fino alla morte.
Mi fermai, gli scarponcini sprofondati nella neve.
Sono quello che sono.
Il petto quasi mi si spaccò in due e mi sentii travolgere da un moto di profondo e ingiustificato orgoglio.
-Finalmente riesco a capire cosa intendeva dire Kety quando ti ha definito un miracolo – mormorai con il respiro bloccato a metà della trachea. – Perché tu lo sei, Reyna. Sei un miracolo.
Lei tirò su con il naso, confusa.
-Oh, ma che stronzata è mai questa! – esclamò infine, mettendo insieme una risata tremante.
Io le risposi, serio:
-Nel corso della mia vita, anche adesso se devo essere sincero, non ho mai visto il Marchio come un dono. Per me non era nient'altro che una maledizione. Era l'ostacolo che mi impediva di andare a scuola, farmi degli amici, viaggiare per il mondo... possibilmente senza un esercito alle calcagna.
Non appena pronunciai quelle parole, la sentii sorridere contro la mia spalla.
-Non mi importava nulla della guerra o del potere. Quello che desideravo più al mondo era la normalità, il più completo anonimato. Volevo confondermi nella massa, essere solo uno tra i tanti.
Lo sguardo di Reyna cercò il mio, ma io lo puntai sulla linea dell'orizzonte, oltre quelle vette spruzzate di neve e quei boschi bianchi puntellati di verde.
Sapevo che ciò che stavo dicendo non aveva senso per lei, forgiata di ferro e orgoglio e rivestita di inscalfibile tenacia.
Mi sarei aspettato che ribattesse. Non lo fece.
-Ma più di ogni altra cosa, volevo che il Marchio scomparisse, che non fosse mai esistito.
Ripresi a camminare a passi lenti, il suono delle suole sul candido mantello scricchiolante che mi arrivava ovattato.
-Eppure tu non hai desiderato neppure per un istante di essere diversa, di essere ciò che non sei. Perché tu non sei come noi. Tu guardi oltre, non ti curi della gente, non ti curi di niente. Vai avanti per la tua strada come se l'opinione altrui non fosse importante, come se non contasse nulla. E adesso mi chiedo se non fosse proprio questa la cosa giusta da fare, se non fossi stato io, solo io, a ostinarmi a non scorgere la verità.
Alzai gli occhi al cielo terso, tra le cui nubi in cui riposava mia madre.
-Tu sei il miracolo che mi ha fatto capire che ero sempre stato in errore, che se io sono così c'è un motivo e che non posso combattere la mia natura. Sei un miracolo non per quello che fai o per quello che dici ma per cosa rappresenti.
-Tu sei la forza, sei la determinazione. Sei quella che non si arrende, che consuma ogni singola goccia di energia per proteggere coloro che ama. Sei quella che guarda sempre avanti perché, beh... il passato è passato. E invece noi siamo qui. Noi non siamo nel presente, siamo il presente. Ognuno è il presente di se stesso, in ogni suo singolo battito di ciglia, nel più flebile respiro e nel più triste dei sorrisi.
Strinsi i pugni, nascosti nelle tasche del giacchetto. Reyna era immobile, non un tremito né un sussurro.
-Noi siamo – esalai infine, i polmoni dilatati da tutte le emozioni che mi ero tenuto dentro per troppo tempo. – E nient'altro. Siamo e basta. E non l'ho imparato sfogliando volumi consumati dalla mani che l'hanno sfiorati, non l'ho imparato ascoltando parole di predicatori o uomini di mondo. Sei stata tu ad insegnarmelo.
Le dita di Reyna si strinsero ancora di più sulle mie spalle, mentre la sentivo trattenere il fiato, in un tremito talmente fragile da ricordare quello delle ali di una farfalla.
-Grazie, perché è merito tuo se adesso un po' di coraggio ce l'ho anche io, che codardo lo sono per natura.
Sorrisi.
-Grazie, Reyna, per essere stato il mio miracolo.
Chiusi gli occhi e non vidi più le gole profonde incuneate tra le montagne, la neve tanto abbagliante da stordire e il cielo azzurro punteggiato di nubi.
No.
Davanti alle mie pupille, impressi nei meandri della mia mente, c'erano due occhi verdi e sorridenti e delle mani scottate dal sole.
Guardami, mamma. Perché adesso mi vedo anche io.
-Fermiamoci qui – mi disse Reyna a un tratto, dopo minuti trascorsi nel silenzio più assoluto. – Non ho ancora finito con la mia storia e credo che possiamo anche concederci una pausa, visto che esiste la non troppo remota possibilità di dover passare giorni a cercare Erika su queste montagne.
La depositai a terra, sopra le radici di una albero, e mi accasciai accanto a lei, rilassando i muscoli della schiena.
-Prima che mi interrompessi con il tuo stupido monologo...
-Ma se ti sei quasi commossa!
Le sue guance presero fuoco ma, almeno, non provò a negare.
-Prima che mi interrompessi con il tuo stupido monologo, – ripeté – stavo per arrivare a mio padre.
Vidi i suoi occhi incupirsi leggermente e mi affrettai ad aggiungere che non c'era bisogno di raccontare, se non se la sentiva.
-No, ho bisogno di farlo.
Annuii, comprensivo. E lei iniziò a raccontare.
-Non so come i miei genitori si sono conosciuti. Se devo dirla tutta, non so quasi nulla su di loro. In ogni caso, a mio padre non fregava nulla del Marchio: decisero di sposarsi ed ebbero me.
La vidi affondare le dita lasciate scoperte dai suoi soliti guanti nella neve.
-Mio padre mi crebbe da solo, ma non per questo mi mancò niente. Questo finché, dieci anni fa, non scomparve nel nulla.
Aggrottai le sopracciglia.
-In che senso?
Il tono di Reyna si fece amaro.
-Lui era un architetto e mi aveva detto che gli era stato commissionato un lavoro in una città della costa e che sarebbe stato via un paio di giorni per discutere di affari.
Poi, con voce tremula, aggiunse:
-Non è più tornato. Prima di partire, tuttavia, riuscì a strapparmi una promessa che tutt'ora porto nel cuore. Mi chiese di proteggere il villaggio in caso di necessità.
Reyna corrugò la fronte:
-Non so perché lo fece ma, quando vidi la famosa tempesta che quasi rase al suolo Caleon, le sue parole mi tornarono in mente. Ed è per questo che, in camicia da notte, mi lanciai a fermare un uragano.
Sorrise lievemente e io ricambiai.
-Gli anni seguenti li ho vissuti al villaggio e, da quel momento in poi, la storia la conosci già – concluse con un sospiro.
Il silenzio più assoluto accolse le sue parole e quando mi decisi a parlare, diversi minuti dopo, lo feci con voce soffice e sguardo fermo.
-Sapevo che eri forte, Reyna, molto più di quanto non sono e mai sarò io. Ma non immaginavo quanto.
Ci rimettemmo in marcia, arrancando faticosamente con le gambe che affondavano fino al ginocchio.
-Quindi per tutto questo tempo non hai più avuto sue notizie? – ansimai, appesantito dallo zaino e della mia compagna che mi si era nuovamente posizionata sulla schiena.
-Niente di niente – ripose con amarezza. – Probabilmente si sarà stancato di dover fare da balia a una ragazzina che non può andare a scuola né fare altro.
Aggrottai la fronte, in un'espressione di muto rimprovero.
-Non dire così, Reyna. Potrebbe sempre essergli capitato qualcosa che gli ha impedito di tornare.
-Per dieci anni? – mi interruppe, brusca. – Avrebbe sempre potuto spedire una lettera. E anche se fosse morto, per me non cambierebbe niente. Continuerei a essere sola – aggiunse, una vaga malinconia dipinta in volto.
-Non è vero – scossi impercettibilmente il capo. – Adesso ci siamo io, Erika e gli abitanti del villaggio. A breve incontreremo anche gli altri Marchiati: potremo essere una famiglia.
Reyna sbuffò, scettica.
-Sempre se riusciremo a sopravvivere abbastanza a lungo.
Scoppiai in una risata leggera e fu in quell'esatto istante che la situazione mi sfuggì di mano.
Il mio piede si scontrò contro un sasso che non avevo notato. Inciampai e uno dei pesanti zaini mi scivolò sul braccio, sbilanciandomi di lato.
La luce, riflessa sulla neve, mi colpì gli occhi e per un istante non vidi nulla.
Quando percepii il suolo mancarmi sotto i piedi, allargai le braccia e artigliai l'aria, ma non c'era alcun appiglio.
Precipitammo nel vuoto, colmi della consapevolezza che Reyna, troppo stanca perfino per camminare, non ci avrebbe impedito di sfracellarci su qualche roccia.
Urlammo.
-Gregor! Gregor!
Mugolai qualcosa di incomprensibile, senza avere la forza di socchiudere le palpebre.
Mi mossi impercettibilmente e un dolore lancinante mi trapassò il corpo. Gemetti: mi sembrava di avere una sbarra rovente che mi perforava la cassa toracica.
-Gregor!
La voce di Reyna sembrava arrivare da chilometri e chilometri di distanza e mi ci volle un immane sforzo di volontà per aprire gli occhi. Intorno a me vidi solo oscurità.
Lentamente riuscii a riconoscere la figura al mio fianco, il volto talmente pallido da sembrare una seconda luna.
-Il sole è calato da un pezzo. Dobbiamo essere rimasti svenuti per diverse ore – osservò lei, mentre i suoi contorni si facevano più nitidi.
-Cosa è successo? – chiesi con voce roca.
Tentai di alzarmi, ma una nuova fitta mi fece crollare sulla neve gelida.
-Siamo caduti in una specie di profondo avvallamento. Ci siamo salvati solo perché sotto di noi c'erano diversi metri di neve fresca.
Mi squadrò con aria critica.
-Hai un braccio rotto e credo ti sia incrinato diverse costole.
Mi concessi una smorfia al pensiero di come mi avrebbe ridotto Erika, quando lo sarebbe venuta a sapere.
-Tu come sei messa? – domandai, un rivolo di sudore che mi colava freddo sulla tempia.
-Ho solo qualche graffio e contusione; forse una caviglia slogata, ma niente di che – mi fissò seria e quasi accigliata. – Mi hai protetto durante la caduta.
Non era una domanda. Quasi... un'accusa.
Cercai di sorridere, per quanto possibile. Dall'espressione che fece, fui certo di non essere riuscito e ricreare nulla più di una smorfia tirata.
-Beh, mi sembrava il minimo. Dopotutto è colpa mia se siamo finiti qua dentro – risposi, osservando sconsolato le pareti di roccia che delimitavano lo strapiombo in cui eravamo precipitati.
-Non è colpa tua – Reyna si passò una mano sulla fronte. – Stavi portando due zaini e una persona. Era già tanto che riuscissi a muoverti.
-Adesso dobbiamo solo pensare a come uscire da qui – aggiunse poco dopo, guardandosi intorno.
Stava valutando se allontanarsi per osservare meglio lo strapiombo in cui eravamo precipitati, quando uno scricchiolio ci fece sobbalzare.
Ci guardammo intorno, all'erta.
-Ci hanno trovati – sussurrai piano, con un filo di voce.
Reyna portò le mani alla schiena, ma il suo arco non era più lì: sicuramente lo aveva perso durante la caduta. Con un sibilo sguainò il pugnale e lo puntò di fronte a sé, il metallo che baluginava alla luce della luna.
Il rumore si fece un po' più forte.
-Ce la fai a...? – la ragazza mi lanciò uno sguardo supplichevole, ma io scossi il capo. Non riuscivo a muovermi, figuriamoci a combattere.
Proprio in quel momento, la punta di un paio di scarponi pesanti affiorò da quell'oscurità avvolgente, facendosi strada al suo interno come una lama nel burro.
Una figura emerse tra le ombre, quasi come fosse nata in quel preciso istante, sotto i nostri occhi, da un mondo colorato con il nero della notte e il bianco della neve.
Il Ladro di Luce, pensai immediatamente.
Fece un altro passo nella nostra direzione e, mentre si scindeva dal quel nebuloso muro di tenebra, pensai che se i demoni esistevano davvero allora l'essere di fronte a me non poteva essere altro che quello.
Un altro passo. E un nuovo brivido lungo la schiena.
Era altissimo. La sua ombra si allungava verso di noi, coprendoci quasi completamente.
E io, che mi ero sempre ritenuto una persona con una stazza non indifferente, mi sentii piccolo. Minuscolo.
Io ero la preda e lui il cacciatore.
Il ricordo degli avvertimenti di Erika mi rimbombò in testa e sentii i capelli rizzarsi sulla nuca, mentre raggiungevo la terribile conclusione.
Avevo davanti il Demone degli Arenas.
Non c'era traccia di denti aguzzi e ali membranose, ma non mi sentii per niente rincuorato.
Un altro passo. E un altro respiro mancato.
Mi stupii di quanto riuscisse a muoversi silenziosamente, nonostante la stazza. Era come se con lui le leggi fisiche non esistessero.
Con orrore, mi ritrovai a constatare che probabilmente prima si era fatto sentire di proposito. Per lui non erano importanti la scaltrezza e la furbizia, non quando bastava un unico sguardo a paralizzati al suolo.
Accanto a me, Reyna tremò, le pupille grandi e i capelli corvini come pece sulla pelle pallida.
Vestita di pelli e con il cappuccio calato sul capo, l'oscura figura continuò ad avanzare, la minaccia velata nella cadenza sicura del passi e il silenzio più terrificante di mille parole.
In un paio di secondi ci fu davanti, adombrandoci con la sua immensa mole. Allungò il braccio e sentii Reyna irrigidirsi al mio fianco, la punta della lama che tremava.
Una mano scura si protese verso di noi e si posò sulla guancia della ragazza, senza che lei avesse il coraggio di muovere un muscolo.
Le ciglia di Reyna tremolarono, lievi e fragili come le ali di una farfalla.
Fu allora che, con un braccio rotto e qualche costola incrinata, mi feci avanti.
Afferrai prontamente la mano olivastra della figura incappucciata e quasi rabbrividii nel sentire la sua pelle gelida, come quella di un cadavere. Aguzzai la vista, cercando di scorgere qualcosa al di sotto del cappuccio.
Non vidi altro che il buio.
-Chi sei? E cosa vuoi da noi? – ringhiai, i muscoli contratti dal dolore e la mascella che mi faceva male da quanto la tenevo contratta.
Oh, dovevo essere davvero terrorizzante disteso a terra e senza la possibilità di muovermi. Eppure, quella che continuava a sembrarmi un'apparizione demoniaca non emise un singolo suono di scherno.
Ignorò completamente le mie parole e continuò a fissarci in quell'immobilità che mi annodava le viscere. Si sporse in avanti di qualche centimetro e una ciocca di lunghi capelli scuri scivolò oltre il cappuccio.
Il pugnale di Reyna si abbassò impercettibilmente e le sue pupille si fecero grandi, enormi, come se fosse riuscita a scorgere qualcosa che io, semisdraiato com'ero, non potevo.
La nuvola che prima di quel momento aveva stazionato di fronte al freddo sole della sera si spostò e io riuscii finalmente a distinguere, tra quelle pelli e quelle ombre che lo coprivano, il contorno di un paio di labbra.
Si socchiusero e la pelle d'oca mi ricoprì le braccia.
Il Demone stava per parlare. E quando un demone parlava tu non avevi scampo.
Fu per questo che, quando udii per la prima volta la sua voce, rimasi totalmente sconvolto nel non ascoltare la mortale sentenza che ero certo sarebbe uscita da quelle labbra nette e torbide, sfuggenti nell'ombra del cappuccio.
-Siete... – sillabò a bassa voce, incerto, come se non fosse abituato a parlare – ...feriti.
Non erano le parole sferzanti che mi aspettavo. Non era la voce raschiante che immaginavo uscire dalla gola del demonio in persona.
No, era lo scroscio dei ruscelli tra le rocce coperte di muschio, era il fischio del vento che scuoteva le foglie degli alberi. Era il fragore di un tuono in lontananza.
E io lo guardai come si guarda la natura. Qualcosa che non può essere né descritto né confinato.
Avevo ancora il fiato sospeso quando, senza pronunciare una sola altra parola, sentii le braccia del Demone avvolgermisi attorno al busto e tirarmi su, caricandomi senza alcuna grazia sulla sua spalla.
Sentii l'urlo di Reyna, ma il dolore esplose di nuovo e io non riuscii a fare altro che lasciarmi andare.
Perché ora che il Demone mi aveva preso io non potevo più scappare.
Sto zitta. Perché giuro che se inizio a parlare non mi fermo e non vi voglio spoilerare niente.
Cosa ne pensate di questa misteriosa apparizione? Qualche idea? ❄❄❄
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