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17. Un miracolo

Non rimasi a lungo da sola. Poco dopo che il capo villaggio se ne fu andato, infatti, Gregor si avvicinò con passo felpato.

-Ehi, posso sedermi qua? – mi chiese con voce e sguardo mite.

C'era qualcosa di conciliante nella sua espressione e quel qualcosa bastò per darmi fastidio.

-Perché mi trattate tutti come una bambina? – esplosi, non riuscendo a contenere l'acidità nel tono di voce, che strabordò come veleno liquido. – Comunque no, non puoi.

Un istante dopo, mi fu chiaro che Gregor avesse afferrato il messaggio alla perfezione. Si accucciò al mio fianco, con la spalla che toccava la mia, ignorando bellamente le occhiate di fuoco che gli rivolsi. Non disse una parola.

Bastarono pochi secondi di silenzio a farmi perdere inspiegabilmente le staffe. Probabilmente ero molto più nervosa di quanto non mi piacesse ammettere.

-Si può sapere cosa vuoi?!

Dove era finita la fredda Reyna di cui tanto andavo fiera?

Una volta, uno dei clienti abituali della minuscola locanda di Caleon, tra un bicchiere e un altro di birra, sicuramente in preda a un raptus filosofico causatogli dall'alcol, aveva singhiozzato: "è la paura a cambiarti".

Ma se nel suo caso la paura era rappresentata da una moglie furiosa che lo attendeva a casa e che gli faceva preferire una lunga notte sdraiato sul bancone, piuttosto che il ritorno nel letto coniugale, nel mio aveva ben altra origine, più profonda e più pericolosa.

Il mutamento era stato fulmineo, totalmente inaspettato, come la tempesta che avanzava inesorabile e sradicava alberi e certezze tutt'attorno a me.
Alla Morte, era bastata una singola notte di terrore per cambiarmi.

-Parlarti, – rispose semplicemente.

-E perché allora non lo stai facendo? – sbottai. – Non mi sembri il tipo che si tiene tutto dentro. Tutt'altro.

-Effettivamente non lo sono – confermò lui con una risatina, i capelli biondi che tremavano.

Mi strofinai il volto con i palmi delle mani coperti dai guanti, cercando di dare alle mie guance un colorito meno pallido e smunto.

-Sono qua. Puoi parlare – dissi, secca.

Lo osservai di sottecchi e vidi che fissava la parete di fronte come se fosse una finestra che portava in luoghi lontani. Luoghi sconosciuti, bellissimi e terrificanti al tempo stesso.
Per la prima volta, provai un timore reverenziale verso quegli occhi che, ne ero certa, avevano conosciuto quel mondo meglio di quanto non avessi mai fatto io.

-Mi dispiace non poter essere d'aiuto. Mi dispiace davvero. Io...

Lo bloccai con un cenno della mano.

-Non è colpa tua, tu non c'entri niente. E poi anche tu stai per morire, quindi non me la sento di incolparti.

Gregor rise sommessamente.

-Hai ragione – si stiracchiò a contatto con la parete ruvida, tendendo il collo e chiudendo gli occhi.

-Sai, – continuò poco dopo – forse è un po' azzardato ma, tutto sommato, devi ritenerti fortunata. Intorno a te hai tante persone che ti vogliono bene e ti sostengono.

-Fortunata?! – alzai la voce, per poi riabbassarla velocemente, quando diverse paia di occhi si posarono su di noi. – Oh, certo! Tra poche ore vedrò tutte quelle persone che mi vogliono bene morire annegate. Che fortuna! Almeno tu non perderai nessuno.

Gregor riaprì gli occhi, colmi di quella mitezza che iniziava a irritarmi. Per nulla turbato dalle mie parole, incrociò le braccia dietro alla testa, sul volto un'espressione triste. Avrei preferito che si fosse infuriato, che mi avesse urlato contro.

-Questo perché ormai non ho più nessuno da perdere – sospirò afflitto.

Sentii lo stomaco chiudermisi in una morsa, quando gli chiesi cosa intendesse.

-Io non ho mai avuto un villaggio. Siamo sempre stati solo io e mia madre – parlò piano e dovetti tendere l'orecchio per sentirlo, visto che gli ululati del vento si facevano sempre più forti e sembravano minacciare di sfondare di colpo le pareti della casa. – Forse è anche per questo che sto cercando i Marchiati: per sentirmi meno solo, per avere qualcuno con cui condividere questo fardello.

Mi strinsi la coperta intorno alle spalle.

-Quindi è per questo che mi vuoi con te.

-Anche – Gregor sorrise, la tristezza di prima ormai dimenticata.

-Lo sai che non ti seguirò mai, vero?

-Giusto, – borbottò, le dita abbronzate a stringere e tirare i ricci biondi. – Tu seguirai solo un miracolo e io non lo sono.

Gli lanciai un'occhiata spaesata, ma lui agitò la mano come per dire che non era nulla.
Sospirai, ignorando la voglia di chiedere spiegazioni.

Ancora una volta il silenzio si fece troppo pesante: con sé portava tutta quella disperazione che, parlando d'altro, riuscivo a chiudere nel dimenticatoio.

-Non hai mai avuto un amico? – domandai quindi, di getto.

Gli occhi verdi di Gregor si persero in una dimensione tutta loro.

-Un tempo avevo un'amica.

-E adesso dov'è?

-Lontana, troppo lontana, – la sua voce si incrinò. – Non so neppure se sta bene.

Mi sentii quasi in dovere di consolarlo e, quando gli posai una mano sulla spalla, mi colpì la naturalezza di quel gesto, di quel semplice contatto che avevo sempre rifiutato e che in quel momento mi sembrava così normale. Era come se per tutta la vita non avessi fatto altro che rinnegare una parte di me, di rifiutare la mia stessa natura.

Ebbi paura e ritrassi il braccio, appoggiandomelo in grembo.

Gregor non sembrò notare il mio turbamento e mi sorrise lievemente, la gratitudine a distendergli la linea marcata della mascella e i tratti virili del volto.

Le assi di legno scricchiolarono quando mi alzai in piedi. Mi spolverai nervosamente la tunica con le mani e la raddrizzai, sotto lo sguardo limpido di quello strano ragazzo.

-Credo proprio sia arrivato il momento di alzarsi e fare una bella camminata in questo fantastico corridoio. Sono rimasta seduta fin troppo a lungo per i miei gusti.
Poi, stupendomi di me stessa, domandai:
-Vieni con me?

Gregor non mi rispose. Lo guardai interrogativa, notando i suoi occhi farsi via via più vacui e lontani. Il verde delle sue iridi smeraldine divenne improvvisamente opaco, come se si fosse nascosto dietro vetri di pensieri indecifrabili.

-Alzarsi...?

-Sì, alzarsi... – lo guardai un tantino preoccupata. – Sicuro di stare bene?

Lui boccheggiò e scattò in piedi con foga, con gli occhi spalancati.
Si grattò il mento ispido con dita frementi e iniziò a fare su e giù per la stanza, agitando le mani come se stesse risolvendo dei calcoli immaginari.

-Forse è possibile... Dovrei solo arrivarci... Le probabilità sono basse ma... Forse... Forse è possibile! – farfugliò.

Lo scossi per un braccio. Adesso ero davvero preoccupata. Era forse impazzito?

-Gregor, cosa ti prende?

Lui mi afferrò per le spalle, gli occhi stralunati e il sorriso un po' folle.

-So come salvare il villaggio.





Io e Gregor proseguivamo a tentoni, le mani scorticate ancorate alle pareti delle case. L'acqua ci arrivava alla vita e scorreva violenta, impetuosa. Inarrestabile.

Il vento continuava a ululare; i nostri capelli venivano spazzati con forza e i vestiti, seppur fradici, si gonfiavano sotto l'aria gelida.

Arrancavamo nella tempesta come bambole di pezza spinte dalla disperazione e dalla corrente, inermi di fronte alla furia della natura selvaggia.

-Si può sapere cosa hai in mente? – urlai per sovrastare quel fischio assordante.

E mentre gridavo per farmi sentire, dentro di me, nel silenzio del mio cuore straziato, pregavo.
Pregavo che l'idea di Gregor fosse abbastanza buona da salvarci tutti.
Pregavo che quello strano ragazzo – più simile a me di chiunque altro, ma allo stesso tempo così diverso – avesse la forza di contrastare quella tempesta innaturale.
Pregavo gli Dei affinché ci donassero la loro benedizione per quella folle impresa.
E, infine, pregavo me stessa di essere abbastanza forte per resistere all'ennesima prova voluta dalla crudele Ruota del Fato. 

Gregor si girò, le labbra viola dal freddo e, non capendo una parola, mi affidai al labiale. E di fronte a quelle poche sillabe che troppe volte mi avevano delusa, non riuscii a rispondere.

Mi limitai a fare un altro passo nell'acqua gelida, ignorando i vestiti appiccicati che ostacolavano i movimenti.

Minuto dopo minuto, metro dopo metro, il livello del mare continuava a salire. I cavalloni si facevano più violenti e le case più rade.

Pochi istanti dopo, io e Gregor rimanemmo da soli, circondati dal sale, mentre insieme ai tuoni rimbombava il ricordo di quella parola.

Fidati.



Arrivammo al molo che era praticamente sommerso. Anzi, probabilmente non esisteva più, distrutto da una forza sovrannaturale che aveva ben poco a che fare con le solite burrasche che a Caleon eravamo abituati a fronteggiare.

Alcuni pezzi di legno galleggiavano solitari, passivi e in balia delle correnti, minuscoli e marci relitti che non avrebbero mai avuto la fortuna di vedersi impreziositi da cozze e coralli sul fondo di un mare dal blu profondo e dalla sabbia fine.

Mi mossi in avanti di qualche centimetro, la malinconia a serrami la gola e a farmi rimpiangere ciò che la mia casa non sarebbe stata più, e questo bastò per farmi sprofondare nel buio dell'oceano.

L'acqua iniziò a premermi sugli occhi, sul naso, sulle labbra. Le tenni serrate, ma il sapore del sale mi fece ugualmente pizzicare la lingua.
Non vedevo niente; sentivo solo il freddo pungente penetrare sotto il pesante mantello, che mi si attorcigliava alle gambe come un letale serpente acquatico.

Un'onda mi sballottò per un po' e persi il senso dell'orientamento. I polmoni iniziavano a bruciare.

A furia di bracciate disperate, per un solo istante, riuscii a riguadagnare la superficie, ma quel brevissimo attimo non bastò a soddisfare il mio bisogno di ossigeno.

Tornai sotto, una bambola di pezza nelle mani del Dio del Mare.

A nulla valsero i miei tentativi di fronteggiare la corrente. Sbattei la spalla contro qualcosa di duro e un capogiro mi fece annaspare. Mi distrassi e l'acqua irruppe nella mia bocca.

Provai a sbattere le gambe e le braccia per tornare in superficie, ma questa sembrava lontanissima, l'ossigeno irraggiungibile. E in quel mare di sale e di cieco terrore, l'eco delle parole del capo villaggio sembrò amplificarsi sott'acqua e diffondersi in tutte le direzioni come il canto delle balene.

A volte, la cosa migliore è rassegnarsi, aveva detto.

Non mi riconobbi mentre valutavo la possibilità.

Se mi fossi lasciata andare, se avessi permesso all'acqua di invadermi i polmoni e al mio corpo di diventare freddo, non sarei stata costretta a scegliere tra il villaggio e la folle avventura di Gregor.
Se avessi abbandonato la speranza, almeno sarei morta insieme alla mia famiglia.

La rassegnazione si fece padrona.
E io, l'algida Reyna, l'incrollabile Marchiata del Vento, ne divenni schiava.

Per la prima volta in vita mia, mi arresi. Mi abbandonai alla corrente, mentre l'acqua mi si incanalava in gola e il mondo iniziava a farsi sempre più scuro.

L'odore del sale si fece lontano e le palpebre pesanti. Perfino il freddo dell'acqua scivolò via e mi ritrovai avvolta da un tenue tepore, che mi ricordava una casetta nel bosco circondata da una staccionata bianca e un paio di braccia forti a tenermi stretta.

Attraverso i miei occhi socchiusi, tra le ciglia che iniziavano a incastrarsi, riuscii a scorgere una singola lama di luce nell'oscurità del mare.
E mentre tutto si faceva confuso e ovattato e sembrava scivolare via, mi domandai se fosse solo un lampo nel cielo o il fulgore del paradiso che mi accoglieva al suo interno.

Poi la luce si avvicinò.

Chiesi mentalmente perdono agli abitanti del villaggio per averli abbandonati, per essermene andata prima di loro.

E morii.





O così mi sembrò.

Almeno finché non sentii qualcosa di estremamente caldo, soprattutto rispetto al mio corpo ghiacciato, afferrarmi per un braccio e tirarmi verso l'alto.

Spalancai la bocca e tornai a respirare.

Passai diversi minuti a sputacchiare e ansimare, in precario equilibrio su un'asse di legno abbastanza grande da non farmi affondare, mentre Gregor mi dava dei colpetti sulla schiena e cercava di tenermi a galla.

Era talmente bianco da sembrare un cadavere e i capelli biondi, scuriti dall'acqua, sembravano quasi neri. Accostò la bocca al mio orecchio e urlò:

-Dannazione! – e questo per i suoi canoni doveva essere l'equivalente di una delle più colorite imprecazioni dei sempre ubriachi frequentatori della locanda. – Credevo fossi morta!

Non risposi e lui mi lanciò un'occhiata preoccupata.

-Tutto bene?

Riuscii solo a fare un debole segno di assenso, il corpo scosso da violenti tremori. Gregor mi afferrò la mano.

-Ho bisogno che tu faccia una cosa per me – mi disse, la bocca vicino al mio orecchio per permettermi di sentire. Ricambiai leggermente la sua stretta, quel tanto che bastava per fargli capire che ero viva, anche se forse ancora per poco. – Devi fermare la tempesta.

Lo guardai spalancando gli occhi e accostai le labbra al suo volto.

-Non penso di farcela in queste condizioni!

Era vero: da un momento all'altro sarei crollata; mi sarei potuta addormentare seduta stante. Mi balenò davanti alle palpebre un'immagine del mio letto, che doveva essere completamente distrutto. Una fitta di nostalgia mi ferì lo stomaco.

Dei tuoni rombarono proprio sopra di noi e la consapevolezza che se fosse caduto un fulmine saremmo morti sul colpo mi fece tremare.

Gregor scosse il capo:

-Basta che la blo...

Andò sotto con le testa e per interminabili istanti temetti che sarebbe affogato. Andai nel panico e iniziai a cercarlo con un braccio immerso fino alla spalla, tentando di spingere la mia mano sempre più in profondità. Lo tirai letteralmente su per i capelli.

Quando tornò in superficie, le sue labbra cineree tremavano. Mi chiesi come facesse a stare a galla in quelle condizioni. Deglutì.

-Non serve che la interrompi del tutto, – continuò con voce rauca. – Va bene anche se riesci a fermare i venti intorno a me. Mi basta quello.

Annuii, anche se non del tutto convinta.

Un'onda rischiò di ributtarmi in acqua, ma io mi tenni saldamente alla tavola, le schegge che mi entravano nelle dita.

-Cosa hai intenzione di fare?

-Fidati.

Ancora quella parola. L'avevo sentita troppo spesso nella mia vita e puntualmente la mia fiducia malriposta aveva comportato un'altra pugnalata nel petto. L'ennesima.

Mi chiesi se avessi davvero potuto affidare la mia vita e quella di tutte le persone a cui volevo bene a un estraneo e, inevitabilmente, ripensai a tutte le volte in cui avevo confidato in qualcuno e, puntualmente, mi ero pentita della mia scelta.

Ma non ero mai stata una persona che imparava dai propri errori.

Con un paio di bracciate, Gregor si allontanò da me e, cercando disperatamente di tenere la testa in superficie, si avvicinò a uno spuntone di roccia, l'ultimo baluardo di terra in quell'immensità di acqua e sale. Il Dente, lo chiamava la gente del villaggio.

Iniziai a cantilenare, scacciando dalla mente le immagini di cadaveri che mi tormentavano dalla notte precedente. A poco a poco, il vento intorno a lui si placò.

Diverse volte rischiai di deconcentrarmi quando dell'acqua mi entrò nel naso, ma strinsi i denti e proseguii. Non sapevo cosa stesse facendo Gregor, ma mi rifiutai di aprire gli occhi.
Se lo avessi fatto, mi sarei arresa. E non avevo intenzione di farlo.

Attinsi alle mie più profonde riserve di energia e sentii qualcosa bruciare proprio sotto lo sterno. 

Proseguii per interminabili minuti, in cui non notai alcun cambiamento. Ormai ero sul punto di arrendermi e lasciare perdere. Aprii gli occhi, pronta a interrompere il flusso di magia che mi pizzicava i polpastrelli.

Fu in quel preciso istante, nell'attimo fugace in cui stavo per abbandonarmi alla rassegnazione, che, lontano dal mio sguardo, Gregor cambiò.

Da quel momento in poi, non sarebbe più stato il ragazzo impacciato del deserto di Ciet o il figlio distrutto dalla perdita della madre.

Lì, in mezzo al Mare del Nord, Gregor divenne un miracolo.

E lo sarebbe rimasto per sempre.



Ansimai per la fatica, mentre le mie dita scorticate iniziavano a perdere la presa sulla tavola di legno. 

Affranta e remissiva, stavo quindi per spezzare l'incantesimo e arrendermi alle correnti fredde quando, improvvisamente, un boato talmente forte da sovrastare l'ululato del vento percosse l'intera baia. Un assordante fragore mi perforò i timpani e, nonostante diversi metri d'acqua separassero i miei piedi dalla terra, percepii quest'ultima tremare violentemente sotto di me.

La vista mi si offuscò dalla fatica, mentre mi sembrava di scorgere per la prima volta ciò che fino a quel momento si era presentato solo sotto forma di terribili incubi e vaghe sensazioni.

In lontananza, un'enorme figura umanoide, fatta di nubi e di vento, di tuoni e di ghiaccio, correva via, in direzione del mare aperto, lontano da Valhaar. Lontano da noi.

E mentre finalmente chiudevo gli occhi febbricitanti e mi abbandonavo al sonno, percepii l'acqua del mare che si ritirava e scorreva via dai vicoli delle case distrutte.

L'ultima cosa che vidi quel giorno fu il cielo che parve farsi un po' più vicino.





Nel caso in cui non abbiate capito nulla, non vi preoccupate! Tutto vi sarà più chiaro con il prossimo capitolo. 😉

A presto! 👋🏻❤

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